Infamous
Una pessima reputazione
Titolo originale: Infamous.
Regia e sceneggiatura: Douglas McGrath.
Fotografia: Bruno Delbonnel. Montaggio: Camilla Toniolo.
Musica: Rachel Portman. Scenografia: Judy Becker.
Interpreti: Toby Jones (Truman Capote), Sandra Bullock (Harper Lee),
Daniel Craig (Perry Smith), Gwyneth Paltrow (Peggy Lee),
Sigourney Weaver (Babe Paley), Jeff Daniels (Alvin Dewey),
Isabella Rossellini (Marella Agnelli), Peter Bogdanovich (Bennet Cerf).
Produzione: Jack and Henry Productions, Killer Films, Longfellow Pictures.
Distribuzione: Warner Bros.
Durata: 110’. Origine: Usa, 2006.
Il regista
Douglas McGrath è nato nel 1958 e ha al suo attivo quattro film, a partire da Emma (1996), per passare poi a Company Man (2000), a Nicholas Nickleby (2002) e infine a questo Infamous, che è tutto centrato sulla figura di Truman Capote. Un regista, quindi, che dalla letteratura trae i suoi spunti, da Jane Austen a Dickens, a Capote. La cosa singolare, a proposito di questo Infamous, è che è il secondo film, nel giro di pochi mesi, sullo stesso soggetto, cioè su Truman Capote e sulla stesura del suo famoso romanzo A sangue freddo. Il film precedente era Truman Capote – A sangue freddo, per la regia di Bennett Miller, uscito nel 2005. Pochi mesi dopo, presentato alla Mostra di Venezia, ecco apparire questo Infamous di Douglas McGrath, film che a parere di molti critici è superiore a quello di Miller. I due film raccontano la stessa vicenda: il passaggio di Capote dai salotti newyorkesi al Kansas dove va per seguire l’indagine e il processo a due assassini, quindi il periodo della scrittura del romanzo A sangue freddo. In Infamous, si incontrano alcuni grandi personaggi del mondo americano culturale e della moda, interpretati da attori e attrici: ci sono Isabella Rossellini che fa Marella Agnelli, Sigourney Weaver nei panni di Babe Paley, regina della haute couture, Juliet Stevenson come Diana Vreeland, editore di Vogue, e tanti altri, anche il regista Peter Bogdanovich, che fa il proprietario della casa editrice che pubblica i libri di Capote.
La critica
Truman Capote, stella dei salotti intellettuali newyorchesi, parte per il Kansas a investigare su un caso di brutale pluriomicidio, va a conoscere gli assassini e a scrivere «In Cold Blood» (A sangue freddo). Infamous di Douglas McGrath segue la stessa vicenda del recente Capote di Bennett Miller. I due registi hanno avuto la stessa idea più o meno nello stesso momento, tutti e due si sono rifatti a delle biografie dello scrittore, di Gerald Clarke per Capote, di George Plimpton per Infamous, i due film sono partiti su binari paralleli e adesso abbiamo due versioni della stessa storia. (Era successa una cosa simile alla fine degli anni Ottanta quando uscirono uno dietro l’altro Le relazioni pericolose di Stephen Frears e il Valmont di Milos Forman.) I due film, comunque, non si somigliano troppo: le scelte dei registi vanno in direzioni diverse e Infamous non è un remake ravvicinato del film di Miller. Capote era tutto centrato sulla performance d’attore di Philip Seymour Hoffman; Infamous è più corale e sottile, più attento agli sfondi e agli ambienti (a noi questo secondo Capote sembra migliore del primo). Insomma, ci si trova di fronte a due “letture” di uno stesso personaggio, una più distaccata e intellettuale, quest’altra più simpatetica ed emotiva. Il regista Douglas McGrath ha cominciato in tv scrivendo testi per il Saturday Night Live, ha lavorato con Woody Allen alla sceneggiatura di Pallottole su Broadway, quindi ha diretto Emma (1996, da Jane Austen), Una spia per caso (2001) e un Nicholas Nickleby, Dickens stavolta, non arrivato in Italia (2002): almeno uno dei tre, Emma, è interessante. McGrath ha raccontato come sono andate le cose riguardo ai due Capote: ha scritto il film, ha chiamato un amico produttore della Warner per dirgli che la sceneggiatura era pronta e si è sentito rispondere che la sceneggiatura ce l’avevano già sulla scrivania. Solo che era l’altra. McGrath ha anche voluto spiegare i motivi che l’hanno spinto a continuare, pur sapendo che il Capote di Miller sarebbe stato pronto prima del suo: «Non mi interessava la storia di uno scrittore che da New York va in Kansas per scrivere di un orribile crimine e neppure il fatto che fosse uno scrittore gay di New York che va in Kansas. Quello che mi ha affascinato è che Truman Capote era uno scrittore gay dell’alta società di New York ed è andato in Kansas per scrivere di quel crimine. Era il buffone di corte e il confidente della crema di Manhattan: questo è il contesto. Conoscere l’ambiente chic e viziato da cui proviene rende comici i suoi primi momenti in Kansas. Ma quella che inizia come una commedia di costume diventa via via più oscura, e riporto indietro Capote per mostrare quanto il legame con l’omicida Perry Smith lo stia cambiando, e finisco il film a New York, dove era iniziato, ma adesso tutti quei pranzi così simpatici e divertenti non sono più gli stessi». Il film è come lo descrive McGrath. C’è il Capote della buona e alta società newyorchese, c’è il secondo Capote che si diverte a mettere in imbarazzo con le sue battute le persone e le famiglie cortesi e diffidenti del Kansas; ce n’è un terzo preso nella morsa del processo e impiccagione degli assassini, c’è infine (anzi non c’è più) un quarto Capote che non sa chi è e cosa gli sia rimasto dentro del primo e del secondo. Questo ultimo Capote è lo scrittore che non riesce più a scrivere e che non scriverà più un altro libro dopo «A sangue freddo». Si passa dunque dal frivolo al tragico, dalla figura di un uomo che scorrazza in lungo e in largo per la sofisticata ribalta dei caffè e dei circoli intellettuali con la sua voce stridula, le battute, l’intelligenza, l’arguzia e l’esagerata autoesaltazione, a un’altra figura di uomo che ha conosciuto il delitto e la vicinanza della morte e che non può più essere uguale al se stesso di prima.
Per tornare un attimo sulla faccenda dei due film, se è già strano che vengano girati a distanza così ravvicinata, è ancora più singolare il fatto che i due Capote siano incarnati da attori entrambi all’altezza della (difficile) prova. In Capote, c’era Philip Seymour Hoffman, a nostro parere un po’ troppo cosciente di starci offrendo “una grande interpretazione”; in Infamous, c’è Toby Jones, molto meno preoccupato di presentarsi come il grande attore che interpreta il grande scrittore. Jones è Capote senza cedimenti al gigionesco. Ovviamente, è intorno a lui che il film ruota, a New York e in Kansas. Però, Infamous non è soltanto il film di Capote, è anche un film corale. È un film di personaggi, e quindi di attori: Jeff Daniels fa l’investigatore, Sigourney Weaver è la moglie di uno dei capi della CBS, Isabella Rossellini è Marella Agnelli e Peter Bogdanovich è il capo della Random House, la casa editrice di Capote. In più, oltre che corale, Infamous è anche variopinto: dipinge con tonalità diverse il mondo squillante della upper class di New York, quello un po’ sbiadito, a pastello, verde e giallo, della middle class di una piccola midwestern town, infine affonda nel chiuso di una prigione, scura, monocromatica. «A sangue freddo» apparve a puntate, sul «New Yorker» prima di essere pubblicato in volume nel 1965. Capote lo definì un romanzo nonfiction. Lo scrittore era al culmine della fama. Quando partì per il Midwest, era famoso per «Colazione da Tiffany» e regnava sul mondo newyorchese. La prima parte di Infamous è imparentata con certi film di Woody Allen, ristoranti eleganti, haute couture, gesti squisiti, un gusto insaziabile per il gossip e le battute brucianti, il bel mondo che fa bella mostra di sé. Troppa bella mostra di sé, fino a essere nauseante. Nel Kansas nessuno conosce Capote, lo chiamano “lady” e solo dopo un po’ si decidono a cambiare appellativo. Certi momenti, come la cena di Natale in famiglia, sono condotti con simpatica verve comica, con tanti equivoci (inammissibili a New York!) su chi sia un certo John (Wayne?, Garfield?, Kennedy?) e poi c’è quella storia di una sfida a braccio di ferro con Humphrey (Bogart). Capote, nel suo viaggio verso le grandi pianure, è accompagnato da Nelle Harper Lee, la scrittrice del Buio oltre la siepe, interpretata da una molto controllata Sandra Bullock. Harper Lee, con i suoi golfini, è silenziosa, posata e tranquilla, il contrario di Capote. Non è vanitosa, anzi è piuttosto malinconica. Sta accanto a Capote come fosse quello che lui non è, lo aiuta silenziosamente, è la faccia morale di cui Capote non sembra curarsi. Poi, ci sono gli assassini, soprattutto Perry Smith, interpretato da Daniel Craig (il nuovo, e sempre eterosessuale, James Bond), che nel carcere del Kansas arriva a baciare Capote sulla bocca. Perché Capote baci il condannato a morte resta giustamente inspiegato: perché ha il libro da scrivere e vuole andare fino in fondo a tutto, perché ha compassione per lui vicino a morire, perché è attratto da lui… Tutte queste cose insieme. Tra i due uomini, ci sono troppe somiglianze: le loro madri si sono suicidate, i padri li hanno abbandonati, tutti e due sono cresciuti con fatica, hanno conosciuto le stesse miserie. È qui, nella cella del carcere, che Capote deve mettersi in gioco e non può più nascondersi. Si lascia andare, abbassa le difese, scriverà il suo libro sacrificando se stesso.
Bruno Fornara, Cineforum, n. 459, novembre 2006