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Marie Antoinette - Scheda del film

CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA

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in collaborazione con:

CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

PREMIO GRINZANE CINEMA

Giovedì21 febbraio 2008 – scheda n. 18 (748)

 


 

Marie Antoinette

 

Regia e sceneggiatura: Sofia Coppola

 

Fotografia: Lance Acord. Montaggio: Sarah Flack.

Scenografia: K.K. Barrett. Costumi: Milena Canonero.

Musica: brani di Gang of Four, Windsor for the Derby, The Radio Dept.,

Aphex Twin, Jean-Philippe Rameau, Air, Bow Wow Wow,

Siouxsie and the Banshees, The Cure, New Order,

Squarepusher, Phoenix, Adam and the Ants...

Interpreti: Kirsten Dunst (Marie Antoinette), Jason Schwartzman (Luigi XVI),

Rip Torn (Luigi XV), Judy Davis (la duchessa di Noailles),

Asia Argento (Madame Du Barry), Marianne Faithfull (Maria Teresa d'Austria),

Danny Huston (l'imperatore Giuseppe II d'Austria).

Produzione: Columbia Pictures. Distribuzione: Sony.

Durata: 123’. Origine: Usa, 2006.

 

 

La regista

 

Sofia Coppola (14 maggio 1971, New York) è figlia del grande Francis Ford Coppola, il regista di Apocalypse Now, e ha respirato cinema fin da piccola. A un anno, il padre l’ha messa nel primo Padrino (1972), poi nel secondo (1974), infine nella terza parte della saga nei panni di Mary Corleone (1990).  È apparsa anche in altri film del padre: Rusty il selvaggio (1983) e Peggy Sue si è sposata (1986). Ha fatto la designer di moda, la presentatrice tv, la fotografa, poi ha debuttato come regista con il corto Lick the Star (1998), e infine con il film d’esordio Il giardino delle vergini suicide (1999). Ha diretto anche dei videoclip, come quello con la lap dance di Kate Moss sulle note di I just don’t know what to do with myself dei White Stripes. Sofia Coppola (i cui film sono stati tutti presentati al Cineforum) è diventata regista dai temi fortemente femminili, personali e intimi, come si è visto nel successivo Lost in Translation (2003), con Bill Murray e Scarlet Johansson. Questo storico-moderno Marie Antoinette, presentato al Festival di Cannes del 2006, ha al centro una regina che è “una ragazza come tante”, così ha detto la regista.

 

La critica

 

Sofia Coppola, pur scivolando nel passato, resta affezionata alle sue giovani donne recintate e perse nello stretto mondo in cui si trovano a vivere. Dopo le vergini suicide dentro un’opprimente famiglia americana, dopo la giovane americana spaesata a Tokyo, Maria Antonietta è un’altra teenager che non può essere tale, che parte dalla reggia di Vienna per la reggia di Versailles senza mai attraversare e conoscere il mondo. Vive (vive?) tra riti, vestizioni, balli, pranzi e feste, con accanto un marito re incapace a tutto. La soffocano i troppi dolci, pesanti vestiti, infinite scarpe, pizzi, crinoline, tutto l’armamentario di fine Settecento che le impedisce di essere semplicemente una ragazzina. Sofia Coppola vuole liberarla. Questa piccola donna bisogna salvarla dalla storia. Non si può evitarle il patibolo, ma almeno che le sia ridata la libertà di vivere una qualche gioia, qualche attimo di vaghezza. Maria Antonietta non sa nulla del mondo di fuori. Ha sempre vissuto nel recinto dell’aristocrazia: così, quando il popolo con forconi e torce arriva a Versailles per farne un’altra, di festa, lei si inchina e ringrazia. Come fosse suonata anche per lei l’ora della liberazione. La Rivoluzione cambia il mondo e la regina non arriverà a diventare adulta. Fastosa e festosa regia, inquadrature inondate di colori pastello, lezione di controstoria (con tutte le libertà possibili, con la voglia di regalare un po’ di felicità a una regina!), Kirsten Dunst è malinconica e allegra, Asia Argento è la volgarotta Du Barry amante del re, Marianne Faithfull è una matronale Maria Teresa d’Austria, Vivaldi e Rameau a braccetto con la techno e il rock degli anni Ottanta, etichetta e giovinezza, rivalità di corte, intrighi e fatuità contro desiderio, gioia e spavalderia, facce incartapecorite contro la sfrenata energia, l’impazienza e la voglia di scatenarsi e disubbidire di una ragazza a cui non importava di essere regina. Sarà anche un film storicamente scorretto, ma è credibilissimo.

BBruno Fornara, La Rivista del Cinematografo, novembre 2006

 

Che differenza c’è tra un film in costume e un film storico? O ancora: qual è il legame che unisce tra loro i due generi? Oppure: quanto è necessario, nella ricostruzione di ciò che è stata la Storia, l’accuratezza filologica nella messa in scena scenografica, nella tessitura dei costumi da fare indossare agli attori? E viceversa: esiste forse un limite oltre il quale un certo gusto per il costume non può sporgersi, pena il venir meno del senso storico, magari in una pellicola organizzata, come la tradizione del genere spesso impone, attraverso la biografia di un personaggio emblematico del passato? Tranquilli: nessuna teoria, ma solo un interrogativo, in questo caso, obbligatorio. Per molti, infatti, questo film “storico” (che deve, dovrebbe essere tale) peccherebbe di una sorta di eccesso di messa in scena, di uno “spreco” produttivo che, più che fare il verso al noto vizio paterno (papà Francis Ford Coppola, si intende) di esagerare negli allestimenti, si mostrerebbe unicamente nell’apoteosi di un’esibizione autocompiaciuta e tutte femminile per lo sfarzo di pizzi, merletti, mobili e acconciature. Il che, per certi versi, è pure vero, se non fosse che la bellezza e la forza di questo film così “bello da vedere”, così straordinario nella produzione dei vestiti e degli ambienti consiste proprio nella capacità di usare la valenza del costume o dell’arredo scenografico come mezzo per interrogare la Storia o, addirittura, come essenza stessa di una certa storia. L’operazione richiede in sé una prospettiva di apparente azzeramento della Storia: in questo excursus biografico su una regina adolescente, i grandi eventi che fanno davvero il corso del tempo quasi non esistono. Esiste semmai il quotidiano di una ragazza in un palazzo reale dominato dal cerimoniale, un insieme di azioni che si ripetono uguali a se stesse all’interno di uno spazio senza tempo, mentre la rivoluzione francese e il suo devastante potere storico sono un’eco lontana, che solo alla fine si trasforma in un boato, sotto il balcone della reggia. Ma appunto di questo si tratta. Sofia Coppola manifesta la sua piena coscienza di ciò che accadde ai margini del crollo di un’epoca inquadrando un mondo assolutamente inconsapevole di ciò che si svolge al di fuori di esso, come fossilizzato in una specie di tableau vivant, nel rituale di una sorta di sacra rappresentazione. E non a caso, nella ripetizione di questi gesti automatici, la scena della vestizione della giovane regina è assolutamente centrale. Essere Maria Antonietta (rappresentare Maria Antonietta) significa cioè recitare una parte, indossare (e scegliere) una maschera a beneficio di un consesso di personaggi che sono tutti spettatori e attori di se stessi, in uno spettacolo terminale (di fine della Storia e di un mondo) proprio per il suo essere del tutto svincolato dalla realtà, dalla “verità” dello spazio e del tempo (e in effetti, storicamente parlando: che senso della storia poteva avere il personaggio che voleva donare delle brioches al popolo affamato?). Naturalmente, c’è spettacolo e spettacolo, e un diverso senso storico per ogni differente allestimento. Lo spettacolo che piace alla Coppola è quello di un occhio che si posa con un piglio straniante sulla messa in scena che fu di una corte. Il primo effetto è quello del contrappunto anacronistico nella colonna sonora, con le musiche new romantic degli anni Ottanta del Novecento (i Bow Wow Wow, Adam Ant, più un assaggio dei Cure) che si intersecano con le note dei suoni barocchi e settecenteschi. tuttavia, c’è di più di un allestimento ritmicamente e visivamente composto come un videoclip di Mtv. Ciò che è notevole è come la cura del dettaglio, appunto quasi maniacale nella scelta dei costumi e delle suppellettili, si esercita con la leggerezza del gioco di una ragazza e la malinconia di una particolare affettività nei confronti delle cose. Da questo punto di vista, la sensibilità pittorica della regista emerge in maniera ancora più netta che nei suoi precedenti film. Con un taglio che rimanda a certa lezione della Pop Art, la Coppola non solo innesta un inevitabile sentore di morte nel ritratto della diva, ma cerca di fare scacco matto alla funzione segnica degli oggetti, proprio nell’ossessione ripetuta della loro rappresentazione. Le scarpine di Maria Antonietta – che non a caso campeggiano in tutta la loro solitudine nella locandina del film – non sono in fondo troppo diverse dalle scarpe messe in serie nei quadri di un Warhol. Se non altro come ultima (e forse inutile) chance di riscatto concessa alle cose nella trappola di un meccanismo di produzione e consumo ormai fine a se stesso (e certo giunto alla fine). Di “trappola” infatti si tratta, anche nel caso della biografia di Maria Antonietta. Come del resto nelle altre pellicole della Coppola: il cinema della regista mette sempre in scena il particolare destino di una adolescente che vive sulla sua pelle un senso di esclusione dal mondo, il suo ultimo – anche se non del tutto consapevole – impeto di rivolta. [...] Con un’efficacia che raggiunge il suo apice in una delle più belle scene del film, quando cioè la regina si affaccia dal suo balcone, e vede, per la prima volta, il mondo e la Storia, la folla urlante della rivoluzione. Splendida e ambigua sequenza: dove la ragazza accoglie finalmente il corso del tempo, della realtà (e della morte) come una liberazione; ma dove anche la “prima attrice” in costume si inchina al pubblico dopo la sua performance più grande, mentre cala il sipario sulla scena dell’ultimo spettacolo.

MMichele Fadda, Cineforum, n. 456, luglio 2006

 


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