CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA
in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
PREMIO GRINZANE CINEMA
Giovedì 27 marzo 2008 – scheda n. 23 (753)
Dopo il matrimonio
Titolo originale: Efter brylluppet
Regia: Susanne Bier
Sceneggiatura: Anders Thomas Jensen. Fotografia: Marten Søborg.
Montaggio: Pemille Bech Christensen. Scenografia: Søren Skiaer. Musica: Johan Söderqvist.
Interpreti: Mads Mikklsen (Jacob), Rolf Lassgård (Jørgen),
Sidse Babett Knudsen (Helene), Stine Fischer Christensen (Anna),
Christian Tafdrup (Christian), Frederil Gullit Ernst (Martin).
Produzione: Zentropa. Distribuzione: Teodora Film.
Durata: 112’. Origine: Danimarca, 2006.
La regista
Susanne Bier è danese, nata a Copenaghen nel 1960. Se Lars Von Trier è il regista danese più conosciuto, lei è la regista danese (e più in generale scandinava) più conosciuta in giro per il mondo. I suoi titoli sono: Freud’s Leaving Home (1990), Family Matters (1993), Like It Never Was Before (1995), e The One and Only (1999) che ha vinto numerosi premi. In seguito ha diretto Once in a Lifetime (2000) e il grande successo Dogma Open Hearts (2002) che ha vinto 5 premi Robert e 3 premi Bodil di cui uno per il miglior film danese. Nel 2004 Susanne ha festeggiato un altro grande successo in patria con il film Non desiderare la donna d’altri, che al Sundance Film Festival ha vinto il premio per il miglior film straniero. Con questo Dopo il matrimonio è arrivata al successo di critica anche in Italia. Il suo ultimo film, girato negli Usa, è Oltre il fuoco (2007).
Ecco qualche dichiarazione della regista: «Nei miei ultimi film ho posto spesso un confronto tra la Danimarca e altre realtà delle parti più povere del mondo. I paesi scandinavi si sono considerati per molto tempo una realtà a parte, una sorta di isola felice. Dopo l’undici settembre anche da noi si è cominciata ad affermare l’impressione che si faccia parte di un mondo molto più ampio. Questo nuovo modo di sentire ha avuto ripercussioni nei miei film, tanto in Non desiderare la donna d’altri che in Dopo il matrimonio. Ma non come contrapposizione tra un mondo bello e uno brutto, al contrario. Verso la fine di Dopo il matrimonio va posta attenzione all’interrogativo che pone il bambino indiano, dopo aver ascoltato la generosa proposta di Jacob. Non mi permetto certo di giudicare chi adotta bambini in paesi lontani, ma voglio dire che a volte c’è superficialità, nel dare per scontato che un bimbo nato in un paese del terzo mondo si troverà meglio a vivere in un paese occidentale... A proposito del personaggio di Jørgen, un grande magnate, non penso affatto che possa essere preso a simbolo del capitalismo. Non mi interessava fare il ritratto di un ricco benefattore, si trattava piuttosto di accennare a quel mondo particolare, e cioè a una società molto ricca, senza lasciarsi condizionare dai pregiudizi che noi tutti possiamo avere, me compresa. Cercando inoltre di superare le resistenze del pubblico, che potrebbero essere anche le mie, di fronte ad un simile personaggio... Quanto invece all’esperienza del Dogma, cioè quel modo di filmare con la macchina da presa a mano, lanciato (e poi rinnegato) da Lars von Trier, penso che il cinema debba veicolare innanzitutto sincerità, a livello di mezzi e di racconto. Quello che ho fatto ora non è un film Dogma, ma anni fa ne avevo realizzato uno, Open Hearts, che secondo me ha rappresentato una lezione importante, fornendo regole che mi sono state utili successivamente per concentrarmi davvero sulla storia, sui personaggi, sui sentimenti; e non ad esempio sulle scenografie, o sui costumi. Così anche gli attori hanno la possibilità di essere più realistici, più sinceri... La parola d’ordine era, in questo Dopo il matrimonio, che gli attori fossero onesti, e che mantenessero sempre il senso dell’umorismo. Non penso ci siano regole assolute per guidare il loro lavoro, ma di solito insisto molto sulle prove, prima delle riprese. Ripeto: perché un attore sia credibile è necessario che sia onesto nel proprio modo di rapportarsi al personaggio... In questo film c’è un difficile rapporto tra gli uomini, che prendono decisioni forti, pur esibendo in altri momenti la propria fragilità, e le donne che queste decisioni le subiscono. Non penso, però, che in questo sia rappresentata una vera e propria guerra dei sessi, come sostiene ad esempio chi ha accostato il mio film, un po’ arbitrariamente, alle opere di Ibsen e Strindberg. Per quanto possa sentirmi onorata dal paragone, non è così evidente. Vero è soltanto che in Dopo il matrimonio ci sono due personaggi maschili portati a prendere decisioni, mentre le donne sono figure resistenti, ma che agiscono poco... Il cinema danese prende di petto la questione della famiglia. È un tema a cui mi sento molto vicina, e che rappresenta parte di me; temo anzi che se provassi ad escludere da un film certi temi, mi bloccherei con estrema facilità. Ritengo infatti che sia importante interrogarsi sul valore attuale della famiglia, che sempre di più sta diventando famiglia allargata, inglobando ad esempio i figli di precedenti matrimoni; i quali poi finiscono per ritrovarsi tutti insieme in qualche cerimonia, o in altre situazioni con cui occorre prima o poi confrontarsi. Forse nei paesi mediterranei vi è una resistenza maggiore, nell’accettare l’idea e i confini di questa famiglia allargata, ma è un atteggiamento anacronistico, perché quella è la direzione che si sta prendendo».
La critica
Il cinema danese, soprattutto il movimento Dogma, ci ha introdotto in famiglie apparentemente ordinate, in realtà in equilibrio piuttosto instabile (basti pensare ai film di Thomas Vinterberg). In Dopo il matrimonio di Susanne Bier da oggi nelle sale torniamo nel pieno di un dramma familiare, prendendo un po' di distanza a causa dell'incipit ambientato in India. Cosa sono i problemi nell'Europa del Nord rispetto ai bisogni primari di buona parte del genere umano che vive nel Sud del mondo? sembra dirci il film. Jacob, un volontario al servizio del poveri (Mads Mikkelsen, superstar danese, il prete in Le mele di Adamo di Anders Thomas Jensen, sceneggiatore di questo film) agisce in solitudine, cercando di trovare i mezzi di sussistenza per gli orfani in un'India di cui non si intuisce l'economia rampante. Ha tagliato i ponti con il suo paese nordico che disprezza, ma l'occidente opulento e il Sud del mondo stanno per incontrarsi nuovamente quando lo chiama il magnate (Rolf Lassgard) per offrirgli una possibilità di finanziamento, a patto che torni in Danimarca e partecipi al matrimonio della figlia. Susanne Bier, che nel 2004 ha diretto Non desiderare la donna d'altri, ha preso anche lei le distanze da Dogma (come del resto il fondatore Lars von Trier) dopo aver firmato un film in linea, Open Hearts (2001) e sta raggiungendo interessanti traguardi internazionali, anzi mira all'Oscar come migliore film in lingua straniera e stranamente con un film che racchiude i due elementi principali del cinema americano, l'individuo solitario e la famiglia unita, qui espressi in un unico film. Inoltre ha appena terminato le riprese del suo primo film a Hollywood Things we lost in the fire, con Halle Berry e Benicio del Toro. L'eccentricità di Dopo il matrimonio, in fondo basato su una composta geometria, è il suo lato selvaggio, evidenziato non a caso da alcuni primissimi piani come si fa nei documentari sugli animali per scoprirne i comportamenti. Sono due anime che convivono: mentre seguiamo gli sguardi da capo branco di un interprete, scorgiamo all'orizzonte un altro che potrebbe soppiantarlo e qui si scatena un altro tipo di lotta per la sopravvivenza, con altri codici, accompagnato da una sceneggiatura spiazzante, costruita per mantenere alta la suspense. Anche se siamo ben lontani da Dogma è rimasta impigliata nel film un'ossessione tipica del gruppo. Quella che era riconoscibile come «sincerità» di tipo tecnico (niente artifici di luce, di suono, oggetti costruiti dagli attori, niente colonna sonora ecc.) qui prende corpo nei comportamenti, quando vediamo che sono tutti presi da una smania di sapere la verità sui fatti, far chiarezza a tutti i costi, cosa alquanto disdicevole in società. L'ipocrisia come base di un sano matrimonio è messa alle strette, in un'ansia di confessione totale, come le pubbliche confessioni nelle chiese protestanti. Si direbbe che circola nel film l'etica protestante e lo spirito del capitalismo come ce lo raccontava Max Weber e lo si percepisce quando si pensa che i miliardi devoluti in beneficenza serviranno pure a scaricare le tasse, come muovere capitali in India potrebbe essere in prospettiva un buon investimento, come del resto i profitti del buon magnate sembrano essere accompagnati dal favore divino. Come il protagonista idealista non è buono solo per il fatto di essere povero. Il film insomma ci mette di fronte ai nostri personali pregiudizi, agita personalità forti e forti sentimenti e li mette al servizio di un intreccio non prevedibile. Oggi l'intero incasso del film sarà devoluto da Teodora a Save the Children, l'organizzazione che lavora per difendere i diritti dei minori, soprattutto quello di una scuola di qualità, nelle zone di guerra e che ha voluto associare il suo nome al film perché «per la prima volta parla del lavoro umanitario per quello che è».
Silvana Silvestri, il manifesto, 23 dicembre 2006
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