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Locandina del film
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Non per soldi... ma per denaro - Scheda del film

CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA

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in collaborazione con:

CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

PREMIO GRINZANE CINEMA

 

Giovedì  3 aprile 2008 – scheda n. 24 (754)


 

Non per soldi... ma per denaro

 

Titolo originale: The Fortune Cookie

Regia: Billy Wilder

Sceneggiatura: Billy Wilder, I.A.L. Diamond. Fotografia: Joseph LaShelle.

Montaggio: Daniel Mandell. Scenografia: Robert Luthard. Musica: André Previn.

Interpreti: Jack Lemon (Harry Hinkle), Walter Matthau (Willie Gingrich),

Ron Rich (Luther “Boom Boom” Jackson),

Judi West (Sandy Hinkle), Cliff Osmond (Purkey).

Produzione: The Mirisch Corporation. Distribuzione: Lab80 Film.

Durata: 125’. Origine: Usa, 1966.

 

Il regista

 

Di Billy Wilder abbiamo parlato a lungo nella scheda di La fiamma del peccato. Chi volesse vederlo di persona mentre parla del suo cinema e di tante altre cose, può prendere il dvd, edito da Feltrinelli, intitolato Billy, ma come hai fatto?.  Nel dvd ci sono due dischi, uno con La fiamma del peccato; l'altro, con una lunga intervista di ben 170 minuti che il regista Volker Schlöndorff ha fatto a Wilder nel 1992 (e in più c’è anche una intervista a Goffredo Fofi). Molti soci chiedono come si fanno a trovare i dvd come questo o come quelli dei film che presentiamo al cineforum. Nei negozi qui in zona, di solito, non ci sono. Allora: o si va a Milano, alla FNAC di via Torino, o ancora meglio alle Messaggerie Musicali in corso Vittorio Emanuele; oppure si ordinano su internet, per esempio sul sito www.ibs.it/ che va oggi per la maggiore. In quest'ultimo caso, si possono pagare sul sito stesso con carta di credito e poi arrivano a casa per corriere.  (Gli italiani sono ancora molto diffidenti sia con le carte di credito che, ancora di più!, con gli acquisti in internet. Noi compriamo da anni e tutto è sempre filato liscio e tranquillo. Buone visioni, dunque.)

Ecco qualche brano da interviste di Wilder: «In ufficio, ho delle scatole da scarpe piene di annotazioni, una scena qui, un’idea là, una battuta di dialogo... Io lavoro così. I dilettanti credono che fare un film significhi mettersi a tavolino e costruire una struttura. Non è affatto così. Si inizia con milioni di idee, che poi vengono concentrate in un milione, poi in mille e così via. C’è sempre troppo materiale e si deve dargli una forma, fare in modo, come si suol dire, che possa stare sotto un cappello. Si cerca di organizzare, di definire. È come giocare a football in un grande campo e poi, un po’ per volta, disegnarne i limiti, alzare la rete, stabilire delle regole. Bisogna eliminare, semplificare, concentrare, creare un ordine e darsi degli obblighi. Poi, si possono anche aggiungere nuove idee, ma generalmente il novanta per cento di ciò che si è scritto finisce nel cestino. Una donne delle pulizie, se è abbastanza intelligente, può diventare ricca impossessandosi del cestino giusto... Se un film non dà delle sensazioni, allora il regista ha fallito. A Hollywood, ogni volta che scrivo una sceneggiatura, i produttori mi chiedono di condensare il tema in una frase. Allora dico una cosa qualsiasi che possa andare loro bene, del tipo “La guerra è un inferno”, o “Non si può prendere il brodo con la forchetta”, o “Nessun uomo è un’isola”, oppure una frase zen, qualcosa, insomma, che possa dare un’idea di profondità. Con questo voglio dire che non si può commentare il proprio film, sarebbe come aggiungere un coro a un’opera sinfonica, e sappiamo che ognuno reagisce in maniera diversa alla musica. L’artista deve stimolare il pubblico, distrarlo, impedirgli di dormire e porgli delle buone domande. Chi crede di avere le risposte, secondo me, non solo non è un artista, ma è anche un imbecille.»

 

La critica

 

Il titolo originale del film, The Fortune Cookie [cioè: il biscottino della fortuna], richiama i motti stampati sui bigliettini contenuti nell’involucro dei cosiddetti “biscotti della fortuna” cinesi. Nel film, sul bigliettino ammonitore c’è scritto: «Per qualche tempo potrete anche ingannare tutti e potrete anche ingannare qualcuno per sempre, ma non potrete mai ingannare tutti per sempre». Frase che Harry ha appena finito di ascoltare in televisione, pronunciata da Abramo Lincoln, e che per lui risulta particolarmente bruciante proprio perché si sta arrendendo a svolgere la parte principale nel piano truffaldino messo a punto dal cognato avvocato.   L’episodio si svolge nel quinto capitolo, dei sedici in cui è suddiviso il film: “Il pranzo cinese”. Anche la scelta di organizzare la materia narrativa per capitoli esplicitamente indicati sottolinea come Wilder ci voglia porre davanti a un percorso da seguire con la nostra coscienza di spettatori, perfettamente informati sul punto in cui siamo e sempre all’erta. L’intervento esterno, il punto di vista del narratore diventano determinanti. Non avremmo alibi, nel caso in cui ci rifiutassimo di considerare il film per quello che è: un ammonimento a meditare sulle trappole che costellano la nostra vita, cadendo nelle quali non possiamo che perdere di vista il rispetto di noi stessi, e a riflettere, di conseguenza, sulla necessità di scelte radicali per uscirne limitando i danni, anche a scapito del buon andamento delle nostre “relazioni sociali”. Intorno a Harry prende forma un quadro di rapporti interpersonali determinati (quasi) tutti da funzioni e aspirazioni collegate al dominio del denaro nelle espressioni della vita quotidiana. Portatori di questa coazione sono sicuramente Willie, il cognato, e Sandy, l'ex moglie. Per loro, Harry diventa da un momento all’altro la classica gallina dalle uova d’oro; il loro principale obiettivo è quello di assicurarsene il consenso nella messa a punto dell’inganno.  [...] Proprio Boom Boom, il giocatore di football americano, insieme ad Harry, è portatore dell’antidoto alla malattia del denaro che sembra non risparmiare nessuno. Questo antidoto possiamo chiamarlo “coscienza della colpa”, ammissione di responsabilità personale, apertura verso rapporti interpersonali non basati sul mero interesse, economico ma sulla speranza, innanzitutto, nella sincerità altrui. Non mi pare fuori luogo richiamare l’attenzione sul fatto che Boom Boom è un nero: siamo nel 1966, periodo in cui le rivendicazioni provenienti da questa minoranza sociale si arricchirono, grazie anche al carisma del loro portavoce (che di secondo nome faceva Luther, lo stesso del nostro eroe...) di un evidente afflato escatologico più generale, ben recepito dalla parte più progressista della maggioranza bianca.

Harry è il vertice di un triangolo, di una doppia coppia imperfetta i cui due altri componenti sono Sandy e Luther e sulla quale Willie ha mire da gran burattinaio. Il rapporto che Harry ha con la ex moglie è fatto di attrazione/repulsione: l’uomo non sa darsi pace per come è stato abbandonato da lei un anno prima, fuggita con un batterista in cerca di carriera nel mondo della canzone e dello spettacolo; la considera una poco di buono, ma ne è ancora affascinato. Quando Sandy (che è fatta della stessa pasta di Willie, l’avvocato) ricompare in scena dopo aver letto dell’incidente subito da Harry e dopo averne di conseguenza subodorato i possibili vantaggi economici, sarà proprio lei l’elemento determinante per indurlo a partecipare alla truffa. Sono sufficienti due telefonate e Harry è pronto a dimenticare tutto pur di riaverla vicino a sé, autoconvincendosi che il suo ritorno sia dettato da un sentimento sincero. È la voce di lei al telefono a compiere il miracolo: che cosa penserebbe Harry se potesse vedere (come invece, spietatamente, Wilder permette allo spettatore di fare) il ‘contorno’, lo squallido monolocale, il corpo dell’amante che fa da sfondo, sdraiato sul letto o dietro il vetro della doccia, a quelle frasi sussurrate con maestria professionale e totale assenza di scrupoli? Sandy è l’alter ego, la complice (imprevista?) di Willie Gingrich: per entrambi conta soltanto il denaro che potranno spremere da questo affare. Ne è conferma la breve scena sulle scale, nel corso della quale la donna si rivela all’ex cognato come consapevole della sostanza truffaldina dell’operazione, e che si conclude con una tastata valutatrice da parte dell’uomo e una battuta a proposito dei tre chili messi su da lei, che non possono non ingenerare sospetti sui loro rapporti anche prima che lei fuggisse a New York in cerca di fortuna. [...] The Fortune Cookie si chiude nello stadio dove tutto aveva preso il via. Ma il luogo appare del tutto diverso: è notte, gli spalti sono vuoti, niente partite in corso, due sole persone si incontrano sul terreno di gioco, Harry e Boom Boom. E –  soprattutto, verrebbe da dire – niente televisione a far da tramite fra i due. Qui prende senso ciò che nella prima sequenza si era presentato come scontro, trauma: tutto ciò non era che un incontro, la premessa a quello che si sarebbe rivelato, nel corso delle peripezie successive, come un riconoscimento reciproco, affinità elettiva, preambolo necessario a un’amicizia a lungo ostacolata dalle menzogne cui Harry sarebbe stato costretto. Queste due persone ora si riconoscono nella loro predisposizione all’onestà, alla sincerità, alla generosità. Su queste basi può ripartire un rapporto che sembrava definitivamente compromesso, e non a caso tutto riprende da una simulazione agonistica che appare però subito come un gioco, così come potrebbe svolgersi tra due bambini, tra due ragazzini ancora ignari delle richieste che la vita ha in serbo per loro. Uniche testimoni di quel gioco sono le donne delle pulizie [...]. Questa che sembra la celebrazione di un riscatto di Harry e Boom Boom dalla miseria del loro contesto (sociale, familiare, sportivo), è però, in realtà, anche il riconoscimento della loro effettiva emarginazione rispetto a quel contesto. Harry e Boom Boom sono, di fatto, due asociali, se misurati secondo i parametri vigenti, poiché non tengono conto in nessun conto i “valori” che concretamente regolano i rapporti tra gli individui e ne motivano le scelte e i progetti quotidiani. [...] Harry e Boom Boom sono, di fatto, soli: due loser.

AAdriano Piccardi, La coscienza in gioco, in Un tocco di Wilder, Bergamo 2007

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