in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
Giovedì 22 gennaio 2009 – Scheda n. 13 (771)
Onora il padre e la madre
Regia: Sidney Lumet.
Titolo originale: Before the Devil Knows You Are Dead.
Sceneggiatura: Kelly Masterson. Fotografia: Ron Fortunato.
Montaggio: Tom Swartwout. Musica: Carter Burwell.
Interpreti: Philip Seymour Hoffman (Andy), Ethan Hawke
(Hank),
Albert
Finney (Charles), Marisa Tomei (Gina), Aleksa Palladino (Chris),
Michael
Shannon (Dex), Amy Ryan (Martha), Sarah Livingston (Danielle),
Brian
F. O'Byrne (Bobby), Rosemary Harris (Nanette).
Produzione: Linsefillm, Michael Cerenzie Productions. Distribuzione: Medusa.
Durata: 105’. Origine: Usa, 2007.
Sidney Lumet
Lumet è un veterano di Hollywood ancora in servizio effettivo. È un
regista dalla lunga storia, uno che ha parlato dell’America, ne ha messo in
cinema difetti e guasti, problemi e speranze. Nato il 25 giugno 1924 a
Filadelfia, è figlio di Baruch Lumet, attore, regista e produttore dello
Yiddish Theatre, e della ballerina e attrice Eugenia Wermus. Il piccolo Sidney
debutta in palcoscenico a soli 4 anni. Poi studia, continua a recitare a
Broadway, si iscrive all’Actor's Studio e fa l’attore cinematografico in Quartiere
maledetto (1939). Nel 1942, va in guerra. Al ritorno, diventa regista
televisivo. Il suo primo film come regista è il famoso La parola ai giurati (1957)
con Henry Fonda. Vengono poi Fascino del palcoscenico (1958), Quel
tipo di donna (1959) con Sophia Loren, Pelle di serpente (1959), con
Anna Magnani e Marlon Brando. Nel 1964 dirige A prova di errore, poi L’uomo
del banco dei pegni (1965), La collina del disonore (1965) e Chiamata
per il morto (1966). E ancora: Il gabbiano (1968) da Cechov, Spirale
d’odio (1972), Rapina record a New York (1972), Riflessi in un
occhio scuro (1973), e i suoi due maggiori successi, cioè Serpico (1973)
e Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975), entrambi con Al Pacino. Quinto
potere (1975) è una dura critica della tv. Seguono parecchi altri film meno
memorabili. Nel 2005, gli viene consegnato l’Oscar alla carriera. Questo Onora
il padre e la madre segna il suo ritorno alla ribalta internazionale.
La critica
È un grandissimo film Onora il
padre e la madre, presentato fuori concorso alla Festa di Roma, di quelli,
però, che non concedono nulla allo spettatore e gli negano il consueto balsamo
consolatorio. Il veterano Sidney Lumet, ottantadue anni e un Oscar alla
carriera, torna infatti sugli schermi con un thriller scabro, spietato,
claustrofobico e a tratti d’insostenibile, benché strategica, sgradevolezza
cadenzato sulle ore e i giorni precedenti e seguenti un’assurda rapina
organizzata, ai danni della gioielleria dei propri genitori, da due
sciaguratissimi fratelli. Sia Philip Seymour Hoffman (Capote) che Ethan
Hawke (Training Day) entrano nel ruolo con un virtuosismo che lascerà a
bocca aperta il pubblico competente, anche perché l’irresponsabilità, il vizio,
la violenza e soprattutto un’abissale quanto comunissima mediocrità sociale ed
esistenziale li pervadono da capo a piedi, finendo col perderli in un climax d’agghiacciante
deriva etica. Il racconto della rapina, che solo sulla carta dovrebbe
risolversi in un gioco da ragazzi, è destrutturato in un sapiente andirivieni
nei tempi e nelle angolazioni di ripresa; ma il bello è che l’espediente
virtuosistico del montaggio non serve solo a sottolineare con beffardo cinismo
gli errori, le idiozie e gli sbandamenti che caratterizzano il piano, ma più
ancora a significare nei gesti (anziché negli invadenti psicologismi cari al
cinema di sotto casa) di quanta abiezione e quanta solitudine si nutrano i
protagonisti. Non a caso Philip ruba dalle casse della sua azienda e si fa di
eroina, mentre Ethan va a letto ogni giovedì con la moglie del fratello (Marisa
Tomei): a fattaccio compiuto, quando la nemesi inizia a incombere su una New
York anonima, grigia e periferica, si ritroveranno a fianco dell’inconsapevole
padre padrone (Albert Finney) in un crescendo di rabbie, rancori e orrori che
non possono né sanno arrestare proprio come se fossero personaggi di una
tragedia greca o dello Shakespeare noir e cattivista. La qualità del film va
quindi ricercata nella raggiunta fusione di uno stile classico, appunto
lumettiano, con l’andatura nevrotica tipica del cinema contemporaneo, adeguata
a una visione del mondo disillusa, rabbiosa e nichilistica. Non c’è spazio per
effetti estetizzanti o spiegazioni didascaliche perché Lumet pone un’attenzione
spasmodica alle sfumature, agli scarti, al ‘non detto’ che sono riconoscibili
nelle pieghe di ogni vita e possono, ahinoi, innescare l’inarrestabile banalità
del Male.
VValerio Caprara, Il Mattino, 15 marzo 2008
Di fronte all’ultimo film di Sidney
Lumet, i generi tradizionali del cinema rivelano tutta la loro inadeguatezza
catalogatoria. Non funziona ‘giallo’ anche se tutto parte da un furto e da un
omicidio, non funziona ‘noir’ nonostante lo scontro di passioni e tormenti che
agita l’animo dei protagonisti e ‘dramma’ è decisamente troppo generico. Solo
una definizione sembra calzare al film, ed è tragedia. Una tragedia quotidiana,
ambientata in una New York senza smalto né appeal, interpretata da personaggi
anonimi, ‘piccoli’ borghesi con il problema degli alimenti da pagare alla
moglie o di una routine matrimoniale da risvegliare. L’angoscia per l’incombere
del destino o la pulsione per un qualsivoglia dovere morale non entrano mai
nell’orizzonte delle azioni, ma anche parlare di banalità del male vorrebbe
dire attribuire alle azioni dei fratelli Hanson una qualche dimensione etica: Onora
il padre e la madre è la tragedia della mediocrità e della immoralità, il
ritratto senza speranza di un mondo che ha perso ogni possibile dignità e che,
come dice un proverbio irlandese citato per metà dal titolo originale (Before
the Devil Knows You’re Dead), spera solo di ‘arrivare in paradiso mezz’ora
prima che il diavolo si accorga che sei morto’. Trenta minuti (forse) di
felicità prima del castigo eterno... La strada per quella ‘felicità’ la propone
Andy (Philip Seymour Hoffman) al fratello minore Hank (Ethan Hawke): svaligiare
la gioielleria degli anziani genitori. Conoscono perfettamente il locale e i
suoi allarmi avendoci entrambi lavorato, una pistola giocattolo basterà per
impaurire l’anziana commessa e l’assicurazione si occuperà di risarcire i
proprietari. Mentre la refurtiva consentirà allo squattrinato Hank di mantenere
i suoi impegni con l’ex consorte e Andy potrà fuggire con la moglie Gina
(Marisa Tomei) verso quella Rio che nella primissima scena li aveva visti
ritrovare per una volta la passione sessuale. Naturalmente niente va come
dovrebbe: Hank non ha il coraggio di fare il colpo da solo e ingaggia un
balordo che ‘per entrare nella parte’ usa una vera pistola. Invece della commessa
semicieca nel negozio c’è la madre (Rosemary Harris) e la rapina si conclude
con due corpi sul pavimento: il balordo ucciso e la madre trasportata in coma
all’ospedale. Dove i due fratelli si ritrovano fianco a fianco a un padre
(Albert Finney) che non si capacita dell’accaduto. E dove, come è facile
intuire, i veri problemi sono appena cominciati. Quello che abbiamo finora
riassunto in maniera lineare, però, il film ce lo mostra in tutt’altro modo,
partendo dalla rapina (su cui tornerà anche in seguito) e poi zigzagando nel
tempo, prima e dopo l’assalto alla gioielleria. Una ‘trovata’ di sceneggiatura
come ne abbiamo viste molte ma a cui lo scrittore Kelly Masterson affida un
compito meno scolastico e più complesso: illustrare non tanto i meccanismi
della storia e gli intoppi che la fanno deragliare ma piuttosto svelare l’abiezione
e la pochezza dei vari personaggi. In questo modo la tragedia non nasce dal
susseguirsi degli eventi, coinvolgendo lo spettatore in un meccanismo narrativo
incalzante, ma piuttosto dalla scoperta dell’inumanità dei vari personaggi,
delle loro debolezze e piccolezze. Invece di farci appassionare ai ‘sassolini’
che dovrebbero bloccare gli ingranaggi ben oliati di una rapina, il film (e una
sceneggiatura costruita così) ci aprono gli occhi sul lato oscuro delle persone
che incrociamo tutti i giorni, capaci di tradire il fratello con sua moglie (lo
fa Hank con Gina tutti i giovedì) o di falsificare la contabilità dell’ufficio
per pagarsi periodiche iniezioni di eroina (lo fa Andy). E che non si tratti
solo di ‘luoghi comuni’ sul Male ma di qualche cosa di più squallido e insieme
ordinario lo rivelano piccole preziosità dei dialoghi, come il bisogno che ha
Hank di nobilitare la sua relazione con giustificazioni romantiche (mentre Gina
ha ben presente che tutto si basa sull’attrazione sessuale) o come le
confessioni esistenziali che Andy snocciola ogni volta che si fa bucare dal suo
raffinato spacciatore (che con inevitabile cinismo gli consiglia di rivolgersi
a uno psicoanalista). In questo modo la tragedia del sangue (che naturalmente
non si limiterà a quello versato in gioielleria) diventa la tragedia della
mediocrità imperante, dove la vita perde ogni significato perché non ne hanno
più parole come morale o amore filiale o rispetto altrui. E se Non è un
paese per vecchi dei fratelli Coen si limitava, in qualche modo a prendere
atto dell’irruzione della violenza nella vita di tutti i giorni, il film di
Lumet ci dice che quella violenza non viene dall’esterno, ma è la conseguenza
inevitabile di un mondo dove il miraggio di pochi soldi (il guadagno della
rapina avrebbe dovuto essere di 60 mila dollari, da dividere in due) ha
cancellato ogni altra forma di valore. Lasciando campo libero solo all’odio e alla
ferocia, come ci ricorda l’ultima indimenticabile, agghiacciante scena tra
padre e figlio.
PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 14 marzo 2008
Home
Calendario delle proiezioni