CINEFORUM ARCIFIC OMEGNA
in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
PREMIO GRINZANE CINEMA
Giovedì 18 ottobre 2007 – scheda n. 3 (733)
Diario di uno scandalo
Titolo originale: Notes on a Scandal
Regia: Richard Eyre
Sceneggiatura: Patrick Marber. Fotografia: Chris Menges.
Montaggio: Antonia van Drimmelen, John Bloom. Musica: Philip Glass. Scenografia: Tim Hatley.
Interpreti: Cate Blanchett (Sheba Hart), Judi Dench (Barbara Covett), Bill Nighy (Richard Hart),
Andrew Simpson (Steven Connelly), Max Lewis (Ben Hart).
Produzione: Scott Rudin Productions. Distribuzione: 20th Century Fox.
Durata: 92’. Origine: GB, 2006.
Il regista
L’inglese Richard Eyre, classe 1943, è stato direttore del Royal National Theatre e come regista teatrale ha vinto numerosi premi. Per il cinema ha diretto L’ambizione di James Penfield (1983, presentato al Cineforum), Loose Connections (1983) e Il giorno delle oche (1984, visto al Cineforum). Sembrava pronto a diventare un eccellente regista cinematografico e invece è scomparso, passando alla tv per tornare al cinema solo nel 2001 con Iris, storia della scrittrice Iris Murdoch. Per questo Diario di uno scandalo, Cate Blanchett e Judi Dench sono state entrambe candidate all’Oscar come migliori interpreti femminili.
La critica
È liscia la pelle di Sheba Hart. Così annota Barbara Covet, e così dice la sua voce fuori campo in una delle prime sequenze di Diario di uno scandalo. Sembra non ci siano dubbi: è attrazione sessuale, quella che induce la matura insegnante di storia a irretire la giovane collega. Eppure, nel film c'è qualcosa che disturba questa lettura: qualcosa che inquieta, e che l'eros non spiega. Il film inizia nello stesso luogo dove fluirà: in cima a una collina da cui, lontano e in basso, si intravede un quartiere di Londra. Barbara siede su una panchina, sola. Nei suoi occhi, nel suo sguardo irrigidito e difeso da mura impenetrabili, si leggono rabbia fredda e presunzione. La mia solitudine, così sembra voler dire, non è debolezza, ma superiorità. Certo, nel corso del film più volte Barbara mostra di soffrirne. Eppure, sempre elude il proprio dolore capovolgendolo, e facendone un segno di nobiltà interiore, quasi un'eroica necessità morale. In una pagina del diario, peraltro, questa sua difesa almeno per un attimo cade. Sono così sola, scrive, che un contatto casuale e minimo con il conduttore di un autobus basta a scatenare in me un'esplosione di desiderio. Forse a partire da qui, dal desiderio che la invade e la domina, può essere compresa la sua rigidità emotiva, e la sua spietata ricerca di un “oggetto” su cui avventarsi. E a noi pare non si tratti di un desiderio erotico, ma di una tensione più profonda e più devastante, che nell'eros certo si manifesta, ma che all'eros non si limita. Quando Diario di uno scandalo inizia, la sceneggiatura si preoccupa di raccontare Barbara all'interno della scuola in cui insegna. È disprezzo quello che vive in lei e la guida, tanto nei confronti dei colleghi quanto nei confronti degli studenti. I primi le appaiono nella loro goffaggine e nella loro pochezza, frustrati da anni di umiliazioni, rassegnati alla burocrazia, ridotti a carcerieri di adolescenti che non riescono, ma forse neppure vogliono educare. Ed essi, gli studenti, sono per lei nemici, e anzi proprio degli inferiori (anche socialmente), che meritano solo d'esser tenuti lontani e dominati. È questo il segreto della sua solitudine, questa “presunzione” di non partecipare alla miseria umana da cui si sente circondata, e rispetto alla quale fantastica di una sua vaga superiorità, che peraltro mai cerca di mettere alla prova. Dunque si irrigidisce, Barbara, si chiude e si difende. Certo, agli studenti non riesce a perdonare d'esser così apertamente, scandalosamente giovani. Quanto ai suoi colleghi, non può riconoscere d'essere fallita proprio come loro. Insomma, non può accettare di vedersi per quel che è, o per quel che è diventata: un'insegnante senza passione, una donna invecchiata e grigia. Ma forse la sua miseria non è opera del tempo. Forse, così è sempre vissuta, chiusa e presuntuosa. Forse, la sua realtà è sempre stata dolorosamente inadeguata alle sue illusioni. Forse, ancora, quel che l'ha mossa e la muove è odio: un odio che si alimenta di sorda, disperata invidia. Non è nessuno, Barbara. E per così dire “vuota d'essere”, ma non può ammetterlo. Per questo si costringe a disprezzare quelli che le sono più vicini e più le somigliano: per non vedersi specchiata in loro e nella loro nullità. Per lo stesso motivo è tentata di insinuarsi nella vita di chi, invece, le appaia colmo di valore e di superiorità. Così le sembra Sheba: morbida trentenne, figlia di un economista famoso, sposata con un professore universitario raffinato. Quando la scorge, in lei vede una preda di cui la sua immagine fantasticata può alimentarsi. Non conta che Sheba sia piena di insicurezze: sposata con un uomo troppo vecchio, insoddisfatta, schiacciata dal ricordo del padre, tanto debole da lasciarsi amare da un quindicenne. «Sono una buona moglie e una madre mediocre», così Sheba dice di sé. È davvero troppo poco, per invidiarla. D'altra parte, come per lo più accade, l'invidia raccontata da Eyre e Marber non bada alla realtà, ma insegue un fantasma. La Sheba che Barbara vede non è la stessa che vediamo noi. Nell'illusione della sua pelle morbida, per lei Sheba è solo un surrogato della propria immagine di sé. Io e te siamo uguali, le urla. Ed è come se provasse ad appropriarsene, a incorporarla, a cibare della sua giovinezza e della sua fantasticata “pienezza d'essere” la sua realissima miseria. Non c'è eros, al centro di Diario di uno scandalo. Il desiderio che lo attraversa somiglia invece a un freddo, feroce cannibalismo dell'anima.
Roberto Escobar, Il Sole-24 Ore, 4 marzo 2007
Judi Dench è un'anziana insegnante arcigna, severissima, autoritaria, la più temuta ma anche l'unica rispettata in una scuola superiore londinese degradata. Ed è una donna solitaria, circondata da qualche impalpabile mistero. Il romanzo omonimo di Zoe Heller su cui si fonda il film di Richard Eyre (fu uno dei nomi di punta della nouvelle vague britannica degli anni 80) è scritto in forma di diario, il diario dell'anziana insegnante, e dunque è tutto narrato secondo il suo punto di vista. Il film trattiene solo in parte questo profilo attraverso la sua voce narrante. L'apparizione della nuova insegnante d'arte (Cate Blanchett) porta una ventata di gioventù, bellezza, entusiasmo, informale complicità con i ragazzi. Ma la giovane non sa far fronte alla violenza e la soccorre la protezione autorevole dell'anziana. Questa, da parte sua, dimostra un crescente attaccamento alla nuova collega e amica. Si fa però presto a capire che la loro non è una relazione limpida. L'anziana scopre prima di tutti la scandalosa relazione tra la giovane e un alunno adolescente, e il precipitare nell'incubo del ricatto è dietro l'angolo. Reciproco, perché in cambio della complicità l'anziana reclama e implora un legame esclusivo, ossessivo. Non si parla di omosessualità, l'equilibrio di questo anomalo thriller si regge sulle sottigliezze del non detto, su sfumature affidate alla statura superlativa di due grandi interpreti. Incluse entrambe nella rosa delle candidature all'imminente Oscar.
Paolo D'Agostini, La Repubblica, 23 febbraio 2007
È un'attrazione fatalissima quella che spinge, in un liceo alla periferia di Londra, mai così grigia e triste, l'anziana prof. di storia, il cui diario dà la voce narrante, verso la bella collega d'arte, madre e moglie inquieta, con un figlio down, che lei denuncia per morbosa gelosia. Ed è fatalissima l'attrazione di quest'ultima verso un ragazzotto di 15 anni sfrontato e lentigginoso che fa debuttare nel sesso con uno scandalo che coinvolge genitori e scuola. Così nessuno vince e tutti perdono, ma la vecchia single ci riproverà a vincere in ogni modo la sua solitudine. Cronaca d'un rapporto amoroso virtuale ma violento, è una escalation ossessiva che trova piena risposta nella prova magistrale, ambigua e sottile di Dame Judi Dench, forse Oscar, magnifica anima nera abituata a pagare di persona, un ruolo da perfida con bocchino per cui Bette Davis si rivolta nella tomba. È il suo sguardo, che ci apre un baratro di inconscio, a trascinarci nella storia in cui Cate Blanchett è vittima designata in un pasticcio di calunnie e sentimenti di famiglia, con traslochi affettivi sempre in atto. Se lo scandalo col ragazzino ci riporta alla cronaca quotidiana dei videotelefonini di aule a luci rosa e il diario offre una patina letteraria vecchio stile, il film ha un' anima viva e pregnante di puro cinema (un William Wyler del 2000), incalzante e cupo dramma in progress. Optional di lusso: la fotografia di Chris Menges riesce a riprendere il senso di colpa e la musica di Philip Glass dà il cronometro a un intreccio di sentimenti che la bella sceneggiatura di Patrick Marber (non a caso quello di Closer) cerca invano di risolvere, regalandoci consapevole un film bellissimo e denso, un pugno chiuso, emozioni forti ma per palati fini.
MMaurizio Porro, Il Corriere della Sera, 23 febbraio 2007
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