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CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
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Giovedì 19 marzo 2009 – Scheda n. 21 (779)
4 mesi, 3 settimane, 2 giorni
Regia e sceneggiatura: Christian Mungiu
Titolo originale: 4 luni, 3 saptamini si 2 zile
Fotografia: Oleg Mutu. Montaggio: Dana Bunescu.
Interpreti: Anamaria Marinca (Otilia), Laura Vasiliu (Gabita), Vlad Ivanov (Sig. Bebe),
Alex Potocean (Adi), Luminita Gheorghiu (signora Radu), Adi Carauleanu (Radu),
Ioan Sabdaru (Rusu, Cristina Buburuz (Marie-Jeanne Rusu), Marioara Sterian (Adela Racoviceanu).
Produzione: A Mobra Film Production. Distribuzione: Lucky Red.
Durata: 113’. Origine: Romania, 2007.
Christian Mungiu
Il rumeno Christian Mungiu, nato a Iaşi nel 1968, appartiene a quella generazione di uomini di cultura rumeni detta “postdecembrista”, formatasi cioè dopo la rivoluzione rumena. Mungiu ha studiato letteratura inglese, ha fatto il giornalista e l’insegnante, ha studiato teatro e cinema a Bucarest e ha cominciato a lavorare come aiuto regista, anche per Train de vie di Radu Mihaileanu. Dopo alcuni corti (Mariana, Nici o intamplare, Mana lui Paulista, Zapping), dirige il primo lungometraggio, Occident, presentato a Cannes. Con questo 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, ha vinto la Palma d’oro sempre al Festival di Cannes.
La critica
È un ottimo momento per il cinema rumeno. In Italia, non è arrivato molto. Si sono visti Train de vie e Vai e vivrai di Radu Mihaileanu, classe 1958, oltre a qualche film isolato del regista di maggior spicco, Lucian Pintilie, classe 1933, ma Un’estate indimenticabile e Terminus Paradis sono degli anni Novanta, mentre non sono usciti i suoi lavori più recenti e belli, Il pomeriggio di un torturatore, passato a Venezia, Niki et Flo, visto a Cannes, e l’ultimo Tertium non datur. Tra i film delle nuove leve, è arrivato soltanto A est di Bucarest di Corneliu Porumboiu, classe 1975, miglior opera prima a Cannes 2005. Per lo spettatore italiano restano sconosciuti gli altri giovani protagonisti dell’attuale e inattesa nouvelle vague: Cristi Puiu, classe 1967, vincitore al Certain Regard, nel 2005, con lo sconvolgente La morte del signor Lazarescu; poi, Catalin Mitulescu, classe 1972, autore del bel Come ho festeggiato la fine del mondo, presentato sempre a Cannes; Radu Muntean, classe 1971, regista di Hartia va fi alabastra (La carta sarà blu) di cui si dice un gran bene, e Peter Calin Netzer, classe 1975, premiato a Locarno nel 2003 per Maria. E adesso, ecco il vincitore di Cannes 2007, Cristian Mungiu, classe 1968. Mungiu ha girato due film che non conosciamo, Occident (2002), una commedia dell’assurdo, presentata alla Quinzaine, e l’episodio Turkey Girl del collettivo Lost and Found (2005). Il suo terzo lavoro, 4 luni, 3 saptamini si 2 zile, (4 mesi, 3 settimane e 2 giorni), proiettato il primo giorno del festival, ha resistito agli assalti di tutti gli altri concorrenti e vinto, con merito, la Palma d’oro. Siamo nel 1987, al tramonto dell’era Ceausescu, due anni prima della fine di un comunismo tronfio e sfiancato, dai colori verdastri, sporchi e squallidi. L’aborto è illegale e Gabita è incinta. Il film la segue per tutto il giorno, quando abortisce. L’amica Otilia cerca di aiutarla. Per la verità, all’inizio del film ci vuole del tempo per capire chi siano le due ragazze, cosa facciano, dove si trovino. Vivono con altre giovani donne in un posto che ha l’aria di un riformatorio o di un carcere, e invece è un pensionato per studentesse. Qualcosa le preoccupa, ma non è chiaro cosa. Questa scelta del non dire corre lungo tutto il film. Un non dire che è un modo eloquente per parlare di quegli anni. Non ci sono scene che affrontino direttamente la situazione politica, il comunismo è come non ci fosse: è anzi proprio il suo apparente non esserci a certificarne la presenza, pesante e anonima, diffusa e opaca, come se bastassero i comportamenti di tutti a dimostrarne la cadente immobilità. C’è un senso diffuso di oppressione, pervasivo sì ma soprattutto fiacco e svilente, ti chiedono i documenti tanto per intimidirti, nessuno si prende cura di un altro, il pranzo di un matrimonio finisce in rissa ma anche questo scoppio di violenza è attutito e smorzato, tutto è moribondo, non c’è uno che creda in qualcosa, non c’è speranza che le cose possano cambiare, a dominare sono l’impotenza e quel servilismo che caratterizza le morenti dittature quando ognuno va avanti per inerzia a fare il servo di un padrone la cui agonia può durare non si sa quanto ancora. Scritto e girato in poche settimane, montato in tre giorni, un solo piano per ogni scena, 4 luni, 3 saptamini si 2 zile risulta essere, come dice il titolo (che si riferisce al momento cui è arrivata la gravidanza), un film dove è il tempo a imporsi, il tempo di una lunga giornata in cui si prende una decisione e la si segue scendendo di scalino in scalino. Un tempo che il regista fa sentire attraverso gli sguardi di una macchina da presa impassibile e ferma, sguardi quasi astratti, consapevoli che non si debba fare altro che guardare, senza commenti, tanto la miseria, il rancido, lo stantio, il peso delle cose e delle esistenze riescono da soli a imporsi. Questo è un film sulla gravità, ineliminabile. La protagonista non è Gabita, la ragazza incinta, sciocca, irresponsabile e spersa: protagonista è Otilia, la sua amica perplessa ma attiva, sempre un po’ a lato rispetto al momento, come se volesse starci dentro ma sentisse in qualche modo che sarebbe meglio restarne fuori, pragmatica e vagamente meccanica, come se la sua maniera di resistere alla desolazione consistesse in un continuo muoversi, fare qualcosa, affrontare in qualche modo la disgraziata situazione in cui si trovano lei e l’amica. È Otilia a darsi da fare, fino a sacrificarsi, quasi per dimostrare a se stessa, con fatica e pena, che in qualche modo sta vivendo e che vive per qualcosa. Che non è inetta come tutti gli altri. Intorno a lei, solo anime morte. Il suo ragazzo è gentile ma troppo appiccicato ai suoi per essere di qualche aiuto. Il tizio che procede all’aborto è un vergognoso esemplare d’uomo che oltre ai soldi chiede dell’altro. Nessuno si salva, tutti figli esemplari di un totalitarismo che, con ogni evidenza, li vuole così. Quegli sguardi della macchina da presa, precisi e implacabili, quel suo costringerci a tenere anche i nostri occhi sempre troppo aperti, arrivano a dire con agghiacciante e sistematica cura quanto sia impossibile scalfire questo mondo. Unica via d’uscita, il suo crollo. È in funzione di questa decisione, di mostrarci cioè l’ineliminabile squallore in cui stanno Otilia (che tenta di stare a galla) e Gabita (che è già andata a fondo), che si può capire l’immagine più esplicita e disturbante di tutto il film. Gabita è stata fatta abortire e Otilia deve portare via il feto in un asciugamano. La macchina da presa inquadra dal basso Otilia che, in ginocchio, abbassa gli occhi sul feto, fuori campo. E noi che guardiamo pensiamo che no, che la macchina da presa non deve abbassare anch’essa lo sguardo. E invece l’obiettivo scende giù, piano, fino a farci vedere. Perché si deve vedere, perché non si può non vedere, perché è lì che la vicenda si arena. Momento che lascia sgomenti, il feto mostrato come un oggetto e come una qualsiasi altra persona. Non ci sono differenze in questa società di uguali. Tutti, i vivi e i morti, ugualmente perduti. Attrici e attori molto bravi, dialoghi naturali, forza di regia. Non era facile guardare quello che il film guarda con la crudele capacità di mostrare tutto e, insieme, con un doloroso senso di sconsolata rabbia e di asciutta pietà. Senza lacrime.
BBruno Fornara, Cineforum, n. 466, luglio 2007
Due ragazze in una stanza d’albergo. Una stanza grigiastra, seriosa, ‘vecchia’. Come è grigio e opaco, sottilmente inquietante, quasi tutto quello che circonda le protagoniste, le strade della città, soprattutto ma non solo di notte, la hall e il ristorante dell’albergo, persino i corridoi del pensionato studentesco nel quale vivono. Gabita e Otilia dividono la stessa stanza, Gabita è incinta e non vuole il bambino, Otilia l’aiuta ad abortire, raccoglie i soldi, trova il ‘contatto’ giusto, prenota la camera nella quale, in silenzio, si svolgerà l’operazione, l’assiste. Il rischio è la galera: negli anni ’80 di Ceausescu l’aborto è illegale, le interruzioni di gravidanza clandestine prosperano, le donne muoiono. Ma, nonostante le strumentalizzazioni di cui è stato oggetto al momento della presentazione al Festival di Cannes (dove ha vinto la Palma d’oro), 4 mesi 3 settimane 2 giorni (l’età del feto) non è principalmente un film sull’aborto: è un film su una società poliziesca e chiusa, ingiusta e sospettosa, talmente disperata che persino un atto come un aborto finisce per perdere qualsiasi connotazione morale. Un aborto è un ‘fatto’, un intervento fisico, per svariati motivi pericoloso, descritto in un lungo, freddo piano sequenza da colui che lo attuerà, il signor Bebe (Vlad Ivanov, un attore magnifico). Infatti sono le peregrinazioni, i gesti frettolosi e segreti di Otilia (l’amica, la vera protagonista), la sua ricerca affannosa di un pacchetto di Kent (un bene prezioso, che servirà a tacitare un’inserviente), le sue dimenticanze (quel documento di identità lasciato prima in camera e poi alla reception, in un paese totalitario e poliziesco), persino le sue ansiose diversioni (poco più di un’ora trascorsa a casa del fidanzato), a rappresentare la vera traccia narrativa del film. ‘Fare’, perché non ci si può permettere il lusso di interrogarsi sulle scelte. Un’immagine, scomoda ma concreta, ci dice a che punto di alienazione disumanizzante sia arrivata la società rumena in quegli anni. Un’immagine che non va assolutamente scambiata per un giudizio morale di Cristian Mungiu (anche sceneggiatore del film) sulle sue protagoniste. 4 mesi 3 settimane 2 giorni è lucido, duro e giusto, costruito con il ritmo e la tensione di un thriller.
EEmanuela Martini, Film TV, agosto 2007
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