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Il canto di Paloma - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS



Giovedì 7 gennaio 2010 – Scheda n. 11 (796)

 

 

 

Il canto di Paloma

 

 

 

Titolo originale: La Teta asustada.

 

Regia e sceneggiatura: Claudia Llosa.

 

 Fotografia: Natasha Brier. Montaggio: Frank Gutiérrez. Musica: Selma Mutal.

Interpreti: Magaly Solier (Fausta), Susi Sánchez (Aída),

Efraín Solís (Noé), Marino Ballón (Zio Lúcido), Antolín Prieto (Figlio di Aída),

Bárbara Lazón (Perpétua), Karla Heredia (Severina), Delci Heredia (Zia Carmela),

Anita Chaquiri (Nonna), Fernando Caycho (Melvin), Leandro Mostorino (Jonny),

María Del Pilar Guerrero (Máxima), Edward Llungo (Marco).

Produzione: Oberón Cinematográfica. Distribuzione: Archibald Enterprise.

Durata: 94’. Origine: Perù, 2009.

 

 

 

Claudia Llosa

 

Nata il 15 novembre 1976 a Lima, in Perù, Claudia Llosa ha studiato nel suo paese scienza della comunicazione, poi si è trasferita verso la fine degli anni Novanta a Madrid, dove ha studiato cinema e cominciato a scrivere la sceneggiatura del suo primo film Madeinusa, girato nel 2006 e premiato ai festival di Rotterdam e al Sundance. Il suo secondo lavoro, questo Canto di Paloma, che in originale si chiama La Teta asustada, è stato presentato al Festival di Berlino 2009 dove è stato premiato con il massimo premio, l’Orso d’oro.

 

La critica

 

Negli ultimi vent'anni del secolo scorso, il Perù ha vissuto un tragico periodo di guerra civile tra la giunta militare e i movimenti rivoluzionari che sarebbe costato, secondo i dati forniti dalla Commissione per la verità e la riconciliazione, poco meno di 70 mila morti e un numero incalcolabile di stupri e violenze. Soprattutto tra i membri delle comunità indigene. In quegli anni di violenza e di dolore, la cultura popolare ha elaborato alcune credenze per giustificare, se non proprio spiegare, i comportamenti delle persone che hanno vissuto quei momenti. Tra queste ha preso particolarmente piede la diceria della 'teta asustada' (letteralmente il seno impaurito), una 'malattia' che si trasmetterebbe col latte materno e che toglierebbe l'anima alle persone per farla nascondere sotto terra per il dolore. E proprio La teta asustada è il titolo originale del film di Claudia Llosa, che ha vinto l'Orso d'oro all'ultimo festival di Berlino e che ora esce in Italia come Il canto di Paloma. In effetti il film comincia con un canto (che sfortunatamente l'edizione italiana del film non sottotitola, impedendoci di capirne appieno il senso), il canto con cui la madre moribonda ricorda alla figlia Fausta (Magaly Solier) di essere stata allevata con il latte del dolore cui fa riferimento il titolo originale e che permette di spiegarci le paure che sembrano dominare la vita della figlia. Cresciuta nell'incubo degli stupri e nel chiuso del nucleo famigliare, Fausta è terrorizzata dagli uomini che non siano lo zio Lucido (Marino Ballón), al punto di temere anche se li incontra per strada. E come artigianale strumento di difesa contro le violenze sessuali, si è riempita la vagina con una patata, con le immaginabili conseguenze di infezioni e germogliamenti vari (che però il film tratta con il massimo pudore). Tutto questo lo scopriamo nelle prime scene del film, quando la morte della madre costringe Fausta a cercare i soldi per poterla trasportare nel suo villaggio natale e per questo ad accettare un lavoro da domestica nella casa di una ricca musicista, Aida (Susi Sánchez). Ma invece di scegliere un racconto tradizionale, dove i piccoli e grandi fatti quotidiani aiutano lo spettatore a capire la psicologia (e le paure) della protagonista, la regista sceglie un'altra strada, meno esplicita, fatta solo di allusioni, di particolari significativi. E una linea narrativa che si preoccupa soprattutto di giustapporre l'universo chiuso della villa dove Fausta presta servizio al poverissimo barrio della periferia di Lima dove invece la ragazza abita con lo zio e gli altri membri della famiglia. Così da una parte una macchina da presa abbastanza incombente cerca le paure e le angosce di Fausta dentro le azioni quotidiane del lavoro (i suoi movimenti lenti e guardinghi, la distanza che impone al mite giardiniere della villa, il bisogno di 'protezione' che la spinge a non aprire mai del tutto le imposte) mentre dall'altra inquadrature più larghe e composite inseriscono Fausta nel mondo familiare del barrio, fatto di riti stereotipati e usanze identitarie. Che la regista osserva con lo sguardo dell'antropologo, di cui conosce perfettamente il valore sociale di promozione e gratificazione (le scene di matrimonio, specialmente il 'sì collettivo' e la 'processione' dei regali), ma anche la capacità di cementare e gratificare l'unità del gruppo familiare (l'improvvisata piscina nella fossa dove lo zio voleva seppellire il corpo della defunta). Il film procede così, registrando più che veramente mettendo a confronto due mondi che faticano a comunicare, di cui non nasconde le ingenuità e le perfidie, ma che acquistano una consistenza narrativa soltanto in funzione della 'presa di coscienza' di Fausta, finalmente capace di confrontarsi con le proprie ossessioni solo quando comincia a prendere coscienza dei propri 'diritti' (almeno quelli che la sua ricca padrona vorrà all'improvviso negare). Senza voler per forza risolvere ogni cosa ma aprendo finalmente lo sguardo della sua protagonista a un sorriso di speranza. E alla fine il film non ci nasconde che le cose da fare restino gigantesche (come quella specie di arca di Noè su ruote che vediamo verso la fine del film ferma davanti a una galleria troppo piccola per farla passare) ma ci dice che almeno il tubero della patata ha cominciato a germogliare nel suo ambiente naturale, nella terra di un vaso, e ha anche saputo far nascere un fiore che non ha nulla da invidiare a gerani e rose.

PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 8 maggio 2009

 

Vincitore dell'Orso d'oro all'ultimo Festival di Berlino, "Il canto di Paloma" possiede squarci di realismo magico che caratterizzano lo sguardo della peruviana Claudia Llosa, regista al secondo lungometraggio dopo "Madeinusa" (2006). Entrambe queste pellicole sono accomunate dalle presenza come protagonista di Magaly Solier, cantante popolarissima nel suo Paese. Appena nata Fausta, una ragazza ventenne, ha contratto una malattia nota come 'Il latte del dolore'; è stata infatti allattata negli anni '80 quando le violenze e gli stupri erano all'ordine del giorno e anche sua madre ne era stata vittima. Da una parte quindi "Il canto di Paloma" è un film di denuncia sull'oscuro recente passato del Perù. Dall'altra è intriso di simbolismi (la patata nella vagina, i piccioni che volano, il sangue nel naso) e mette sicuramente in luce il talento visionario della cineasta evidente, per esempio, nelle immagini delle feste popolari o nei primi piani sul volto di Fausta, segnato dal dolore e che sembra sempre camminare con la paura addosso. Proprio per la sua densità visiva però, la pellicola appare trattenuta, forse eccessivamente carica di dettagli che rischiano di attenuarne il respiro politico.

SSimone Emiliani, Film Tv, 18 ottobre 2009

 

Orso d'oro a Berlino arriva, doppiato in italiano classico, un'ode barbara al popolo indio, una lirica dai retrogusti quechua, La Teta asustada (Il latte del dolore o Il canto della Paloma nelle traduzioni un po' edulcorate dell'Europa puritana), film peruviano ma di coproduzione catalana, diretto dall'astro nascente Claudia Llosa, giovane e dotata filmaker all'opera seconda dopo un antiimperialista esordio, Madeinusa, già adornato di premi. Fausta, giovane enigmatica india, cantante nata, è colpita da una malattia psicosomatica trasmessa via latte dalla madre (così afferma, almeno, una parte di scienza medica), stuprata durante la 'guerra sporca' peruviana (1980-2000) da un imprecisato terrorista (non si capirà mai se comunista o contras o "paramilitare", e già questo è poco fine). Sotto shock fin dallo stato embrionale (!), per porre tra sé e il mondo (maschile in particolare) una barriera, Fausta si è introdotta una patata nella vagina, in una sorta di traduzione andina e 'glocal' del bushiano scudo stellare. Alla morte della madre di Fausta (un loro duetto canoro in lingua inca, in apertura, ha la stessa forza di un prologo di Jacques Demy: 'niente sentimentalismi, solo sentimenti'), Fausta vorrebbe seppellirla in riva al mare. Ma non ha i soldi (e qui il tono si fa politicopoetico e patetico). Mentre la frastagliata famiglia è in lutto, ma anche in festa per il matrimonio parallelo di sua sorella, Fausta va a servizio da un gran dama di città, odiosa ma non ottusa concertista borghese e proprietaria di villona con giardino. Dovrà mettere in discussione la sua 'corazza sessuale' lì, col giardiniere, e anche le leggi sul copyright che vigono a Lima... Non mancano in questa opera di buon design internazionale gli ingredienti del peggiore cattivo gusto 'populista' (ovvero: quando si finge di amare un popolo idealizzandolo e sacralizzandolo, ma rendendolo così 'astrazione inerte compassionevole'): l'odissea tragica dell'orfanella derelitta da compiangere dall'alto in basso (ma l'attrice Magaly Sollier è una vera virtuosa del canto natural-etnico) che antepone l'amore filiale alla sua pericolosa situazione ginecologica; la giusta dose di pittoresco folk (nella vistosa festa kitsch di matrimonio plurimo nella favela di Lima, che fa più Cecil De Mille ovvero un po' di antropologia pasticciona, che Pasolini, Gatlif o Demme); la staffilata contro l'acida criminalità della borghesia intellettuale (che ruba la musica al popolo, perché non è furto rubare ai poveri se no Johann Sebastian Bach?); quella spruzzata superficiale di storia patria che allude (distorcendolo) al dramma di un paese controllato da lunghe dittature militari o fasciste asservite agli Usa, con violazioni ripetute e continuate dei diritti umani. (…)

RRoberto Silvestri, il Manifesto, 8 maggio 2009

 

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