in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
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Giovedì 14 gennaio 2010 – Scheda n. 12 (797)
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Vincere
Regia: Marco Bellocchio.
Sceneggiatura: Marco Bellocchio, Daniela Caselli. Fotografia: Daniele Ciprì.
Montaggio: Francesca Calvelli. Musica: Carlo Crivelli.
Interpreti: Giovanna Mezzogiorno (Ida Dalser), Filippo Timi (Benito Mussolini),
Fausto Russo Alesi (Riccardo Paicher), Michela Cescon (Rachele Guidi),
Pier Giorgio Bellocchio (Pietro Fedele).
Produzione: OffSide, Rai Cinema. Distribuzione: 01 Distribution.
Durata: 128’. Origine: Italia, 2009.
Marco Bellocchio
Nato nel novembre del 1939, a Bobbio, in provincia di Piacenza, Marco Bellocchio è uno dei più importanti e anticonformisti registi italiani, a partire da quel suo esordio, I pugni in tasca, che segnò una svolta nella nostra cinematografia. Dopo aver frequentato il Centro sperimentale di cinematografia di Roma, Bellocchio esordisce appunto nel 1965 e si impone subito come autore dotato di grandi capacità linguistiche, di gusto estetico e di rabbiosa forza di denuncia. I pugni in tasca è crudele, sfrontato e distruttivo. Del 1967 è La Cina è vicina, film di contestazione della politica di quegli anni e della corruzione pubblica e familiare. Dopo la partecipazione al collettivo Amore e rabbia (1969), dirige Sbatti il mostro in prima pagina (1972), sul mondo del giornalismo. Vengono poi Nel nome del padre (1972), il magnifico documentario Matti da slegare (1975), Marcia trionfale (1976), Il gabbiano (1977, da Cechov), Salto nel vuoto (1980), Gli occhi, la bocca (1982) e tutta una serie di film girati in sodalizio (molto discusso) con lo psicanalista Massimo Fagioli, come Diavolo in corpo (1986), La visione del Sabba (1988), La condanna (1991), Il sogno della farfalla (1994). Con Il principe di Homburg (1997, da Kleist) torna ai suoi temi più sentiti e all’incisività dei primi film. I successivi La balia (1999), lo splendido documentario Addio del passato (2000), sui melomani appassionati di Giuseppe Verdi, il perfetto L'ora di religione (2002), quindi Buongiorno, notte, sugli anni di piombo e il sequestro Moro,poi Il regista di matrimoni e Vincere riportano Bellocchio bene in vista nel panorama internazionale.
La critica
Il film di Marco Bellocchio Vincere racconta, più che il presunto matrimonio religioso del duce, la buia ascesa di un uomo che approfittò della Grande guerra per smania di dominio. Dal buio emergono indistinte figure 'in marcia'. Intanto, rivolto a Ida Dalser (Giovanna Mezzogiorno), Benito Mussolini (Filippo Timi) fantastica sul proprio futuro, sicuro di una grandezza che oscurerà Napoleone. C'è fanatico amore di sé, nei suoi occhi. E c'è rapimento affascinato in quelli della sua amante (più tardi diventata sua moglie). Poi la macchina da presa torna sulle figure in marcia: sono ciechi guidati da ciechi. Bastano queste immagini a dirci quel che non è, Vincere. Non è una storia d'amore, come qualche distratto suppone. Certo, Marco Bellocchio racconta l'amore e il desiderio fra il capo del fascismo e la sarta di Trento. E racconta come la loro relazione, con il figlio che ne venne, fu nascosta dalla complicità vile di ministri, prefetti, medici, religiose. Ma è la marcia nel buio che Bellocchio davvero racconta, e che davvero fa riemergere dalle ombre del passato. E da ombre Vincere è di continuo percorso. Ombre sono i ciechi che si affidano a ciechi. Ombre è il bianco e nero di cinegiornali e film che passa sgranato sulle immagini a colori, spaesante come un fantasma che la coscienza non abbia voluto dissolvere. E ombra è la memoria sbiadita di quegli anni. Della memoria, alla fine, racconta il film: di una memoria perduta in immagini che nel tempo si son fatte mute.
Chi è il giovane verboso che approfitta della Grande guerra per la sua sete di dominio? Chi è l'uomo che esibisce una virilità di cui oggi (forse) si ride? Chi è l'oratore che torce la bocca in slogan di morte? Tutto è troppo visto e insieme troppo dimenticato, per non passarci davanti senza lasciar traccia. Ogni crimine è ormai fantasma. Ma nel film, nel suo racconto di due vite distrutte, il fantasma riprende corpo. Le carni e il sangue di Ida e del figlio diventano il luogo - molto materiale, molto 'evidente' - in cui la Storia torna a parlarci, obbligandoci a prender posizione. Ida non è antifascista, e non lo è il figlio. Anzi, sull'una e sull'altro il capo del fascismo esercita un fascino almeno pari a quello che esercita sulla gran maggioranza degli italiani. Ed è questo che li condanna: da lui vogliono un amore impossibile, e per loro dunque mortale. 'Questo è il tempo del silenzio, il tempo degli attori', consiglia a Ida un medico. Il Paese è muto e sordo, compatto nell'annullamento d'ogni libertà e pietà. Conviene aspettare. Conviene nascondersi. Ma come può nascondersi chi voglia esser riconosciuto e insieme voglia servire? A lui tocca una sorte di morte, come a Ida e a suo figlio. E agli altri? Agli altri tocca la sorte dei ciechi che s'affidano a un cieco. Lo testimoniano le immagini che chiudono Vincere: una città nera del buio della notte e accesa dal bagliore delle bombe.
RRoberto Escobar, Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2009
Due Mussolini, uno vero e uno finto, ma spesso sorprendente grazie a un Filippo Timi sulfureo e perfino simpatico. Due parti, una dedicata alla 'preistoria' del duce, prima e durante la Prima guerra mondiale, una al tiranno trionfante. Due vittime, Ida Dalser e suo figlio Benito Albino Mussolini, il figlio avuto dal Duce, prima riconosciuto poi disconosciuto, perseguitati, cancellati, internati in manicomio fino alla morte, lei nel 1937, lui nel 1942. E naturalmente due epoche: quella narrata dal film e la nostra, che scorre in filigrana dietro i riferimenti e le citazioni dirette dall'arte, dal cinema, dalla propaganda degli anni Dieci e Venti. Se ogni film in costume parla anche e soprattutto del momento storico che lo ha visto nascere, "Vincere" porta questo procedimento all'estremo. Ogni immagine (la foto sapientissima è di Daniele Ciprì) è densa e stratificata come una pittura che nasconde e accoglie altre stesure. Ma non è gusto della citazione o della rilettura di un'epoca attraverso i segni del tempo, procedimento che potrebbe perfino essere accademico.
È confronto, ricerca, officina formale, analisi storica e politica. Come se la vicenda così esemplare ma fino a ieri dimenticata di Ida Dalser, ricostruita con andatura quasi a strappi dalla sceneggiatura antinaturalistica di Bellocchio e Daniela Ceselli, riflettesse in qualche modo la parabola di una nazione intera. Non la storia 'ufficiale', ma quella sotterranea di un paese che non si ama e ha il culto cattolicissimo del proibito, del clandestino, nel pubblico come nel privato. Quindi è pronto a farsi sedurre, a perdonarsi e a dimenticare, come un bambino che sostituisce la fantasia alla realtà, la promessa del piacere alla certezza del dovere. E magari passa la vita a illudersi, salvo svegliarsi quando è troppo tardi. Vecchia storia, si dirà, che però non abbiamo ancora metabolizzato e che Vincere ripropone mettendo al centro di tutto una donna, il suo piacere, la sua 'follia' (bellissime le scene d'amore fra Giovanna Mezzogiorno, tutta rapimento e abbandono, e Filippo Timi, che anche nell'amplesso sbarra lo sguardo verso chissà dove). E intorno, italianamente, tutta una serie di famiglie, oppressive e inevitabili, provvide e castranti. La famiglia di Ida, che cerca di proteggerla dal suo sogno impossibile. Quella ufficiale di Mussolini, tirapiedi compresi, che sbarra il passo all'amante respinta. Quelle dei medici, delle infermiere, delle altre matte, che sono tutto ciò che resta alla povera Dalser nei suoi anni di internamento. Mentre fuori, nel mondo reale, Mussolini abbindola un'intera nazione con le pose grottesche del suo virilismo guerriero. Sarebbe stato facile trarre da questa storia un melodramma rotondo e straziante, insistendo sulla spaventosa persecuzione subita dalla Dalser e da suo figlio. Bellocchio ne fa qualcosa di più maturo e scomodo. Uno scavo, un confronto, forse una genealogia.
FFabio Ferzetti, Il Messaggero, 22 maggio 2009
Benito Mussolini piaceva a un certo tipo di italiota anche perché aveva fama di stallone infaticabile. Marco Bellocchio ne ha riscoperto il profilo erotico e lo presenta nel film Vincere, in programma la prossima settimana a Cannes e in sala. È la storia, con duplice risvolto tragico, della meschina Ida Dalser, che a furia di tampinare il Duce, amante fedifrago, fu imprigionata e morì in manicomio seguita poco dopo da Benitino, figlio della colpa. Brutta faccenda, riesumata per primo da Alfredo Pieroni in 'Il figlio segreto del Duce'; ma ce ne sono altre meno tragiche fra le quali naviga Bruno Vespa nel suo fortunato 'Amori dei potenti' (Mondadori). Lo scrittore si rivela così esperto in materia che non si è salvato dalla chiacchiera di essere lui stesso un figlio naturale del dittatore: sarà proprio per il cranio, l'occhio basedowiano, il tratto deciso. Ma le date non corrispondono, la supposizione è finita nel ridicolo. Ricordo, al contrario, che nell'era mussoliniana molti si fregiavano, a torto o a ragione, di una parentela 'fuori dal nido' con l'uomo di Predappio. Vedi Asvero Gravelli, poligrafo, autore del soggetto di Giarabub (1942), il quale fece carriera fra una strizzata d'occhio e l'altra. È curioso che intorno a Hitler o Franco non c'è mai stato nessun pettegolezzo del genere. Non per niente il casanovismo è una specialità nostrana; e sugli amori duceschi c'è ancora spazio per un film magari basato sulle spassose 'Memorie del cameriere di Mussolini' scritte anonimamente per Longanesi nel dopoguerra chi dice da Montanelli e chi da Steno.
TTullio Kezich, Il Corriere della Sera, 14 maggio 2009
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