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Il bambino con il pigiama a righe - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS



Giovedì 28 gennaio 2010 – Scheda n. 14 (799)

 

 

Il bambino con il pigiama a righe

 

 

 

Titolo originale: The Boy in the Striped Pyjamas.

 

Regia e sceneggiatura: Mark Herman.

 

 Fotografia: Benoît Delhomme. Montaggio: Michael Ellis. Musica: James Horner.

Interpreti: Asa Butterfield (Bruno), Jack Scanlon (Shmuel),

Amber Beattie (Gretel), David Thewlis (padre), Vera Farmiga (madre),

Richard Johnson (nonno), Sheila Hancock (nonna), Rupert Friend (tenente Kotler).

Produzione: Heyday Films, Miramax, BBC. Distribuzione: Walt Disney.

Durata: 100’. Origine: Gran Bretagna, Usa, 2008.

 

 

 

Mark Herman

 

Sceneggiatore e regista inglese, Mark Herman esordisce nel cinema con Tutta colpa del fattorino (1992). Il successo internazionale arriva con Grazie, signora Thatcher (1996), commedia con forti connotazioni politiche che segue le peripezie di una banda musicale formata da minatori senza lavoro e riflette sulle conseguenze sociali delle politiche liberiste thatcheriane nell’Inghilterra degli anni ’80. Dirige poi altri due film, Little Voice - È nata una stella (1998) e Prenditi un sogno (2000), prima di questo film sulla Shoah vista con gli occhi di un bambino tedesco, figlio di un ufficiale nazista. Il film è tratto da un libro per ragazzi dello scrittore irlandese John Boyne. Sentiamo il regista: «Quando ho letto il libro, mi sono subito immaginato un film. Ma sapevo anche che sarebbe stato molto difficile realizzarlo, a causa della natura estremamente delicata del soggetto. Uno dei personaggi di un romanzo di Graham Greene sostiene che l’odio è il fallimento dell’immaginazione. Io credo fermamente in questo, così come ritengo che l’enormità dell’Olocausto, le dimensioni di questa barbarie, il numero dei morti e dei rifugiati, oltre che, a livello esponenziale, delle vite distrutte, lo renda impossibile da concepire, perché le cifre ti lasciano esterrefatto. Se si tenta di presentare ad un bambino questo periodo non troppo distante nel tempo, queste cifre lo spaventano. Penso che John Boyne abbia trovato un modo decisamente emozionante ed efficace di avvicinarci a questo tema, concentrando la sua storia su due ragazzi e una famiglia… Sono attirato dalle storie umane e questo è soprattutto un racconto umano. Anche se si tratta di una storia sull’Olocausto, ambientata nella Germania del 1940, per me non ha tempo. Con tutti i conflitti che ci sono attualmente, in Ruanda, Somalia, Palestina, Israele, nel Darfur o in Zimbabwe, questa storia mi sembra attuale ancora oggi, così come in qualsiasi periodo storico. Mi parla direttamente e ha toccato migliaia di lettori nel mondo. I ragazzi hanno le potenzialità e le capacità di superare le differenze culturali e di identità, mentre le persone possono andare d’accordo se non vengono incoraggiate a odiare, anche se i governi, le istituzioni e i mass media possono (e in effetti lo fanno) coltivare il conflitto e la sfiducia… Il premio Nobel Elie Wiesel sostiene che se non c’eri, non ne dovresti parlare. In un certo senso, io sono d’accordo, ma allo stesso tempo, ci viene detto di non dimenticare mai. Quindi, sono convinto che, mentre passano i decenni, gli artisti hanno il compito di trovare nuovi modi di raccontare questa storia e di ricordare al mondo i morti».

 

La critica

 

Il bambino con il pigiama a righe racconta l'olocausto con gli occhi di un piccolo ariano, mimando i valori nazisti. E forse anche i nostri. È una porta chiusa l'immagine su cui termina Il bambino con il pigiama a righe. Che cosa accada dall'altra parte, nell'inferno che sta al di là, è questione che riguarda l'immaginazione inorridita dello spettatore. Il cinema lo ha condotto fino a quel limite, e ora lo lascia solo con la sua coscienza. Tratto da un libro dell'irlandese John Boyne, il film scritto e girato dall'inglese Mark Herman racconta la più irraccontabile delle storie. I suoi protagonisti sono l'odio e l'obbedienza, la burocrazia e la macchina della morte, la razza e lo sterminio. In una parola, racconta la Shoah, e con essa racconta l'innocenza degli assassini, per usare l'ossimoro coniato quasi 60 anni fa da Albert Camus, nell'Uomo in rivolta. Innocente è sicuro d'essere Walter (David Thewlis), il padre del piccolo Bruno (Asa Butterfield). Ufficiale delle SS, è promosso a un ruolo che il nazismo considera decisivo per il futuro della Germania: il comando di un lager. Quello cui è destinato non è un campo di sterminio - dove le vittime transitano per non più di qualche ora, ossia per il tempo tecnico della loro eliminazione -, ma un campo di lavoro. O meglio: un campo nel quale la morte di massa è 'amministrata' mediante il lavoro, e non direttamente con le camere a gas. Ai suoi occhi, si tratta di un compito storico, che richiede coraggio morale e abnegazione adeguata. 'Sovrumanamente inumani', così appunto in quei giorni (attorno al '43) Heinrich Himmler esorta a essere i burocrati e gli aguzzini che si occupano della soluzione finale. Gli ebrei, meglio l'Ebreo è il veleno del mondo, il responsabile d'ogni crimine e d'ogni decadenza. Eliminarlo significa dunque salvarlo, il mondo. Insomma, al pari di tanti che gli somigliano, Walter amministra la morte degli Untermenschen, dei sottouomini, non in nome di un Male assoluto, ma proprio di un Bene assoluto: il futuro dell'Uomo, cioè dell'Ariano. Anche la madre di Bruno coltiva questa visione del mondo. La donna (Vera Farmiga) non partecipa attivamente al 'compito'. Tuttavia, condivide la fede trionfante nella sua necessità storica. Perciò, affida se stessa e i due figli - Bruno e Gretel (Amber Beattie) - alle decisioni del marito, compresa quella di trasferirsi da Berlino in 'campagna', nei pressi del lager. Questa è l'innocenza degli assassini, questa certezza d'avere il diritto, e anzi il dovere di uccidere. Come la si può conoscere, quest'innocenza, se non mettendosi dalla sua parte? Se si resta dall'altra, da quella delle vittime, se ne ricava un orrore tanto profondo quanto muto. Quello che si vede è mostruoso, del tutto incomprensibile. Di per sé, il Male assoluto è opaco. Si fa invece trasparente quando lo si indaga in 'controcampo', come conseguenza od ombra di quello che il persecutore considera il Bene assoluto. Così fa il film di Herman: capovolge il punto di vista più ovvio e, almeno all'inizio, guarda con gli occhi dei persecutori. E poi, dentro questo capovolgimento, ne attua ancora un altro. È di Bruno, non degli adulti, lo sguardo che smaschera l'orrore. Portato via da Berlino e dai suoi piccoli amici, il bambino osserva il mondo sconosciuto in cui dovrà vivere. Nella grande casa che sta vicino a quella che pensa sia una fattoria cerca di ritrovare un senso, una normalità. Dunque, lo esplora, quello strano mondo. E molti suoi particolari lo stupiscono. Perché Pavel (David Hayman) indossa in pieno giorno un pigiama a righe? Che cosa c'è al di là della finestra della sua camera? Perché il padre l'ha fatta oscurare? Perché, ancora, l'istitutore suo e della sorella li costringe a leggere libri noiosi che raccontano dell'Ebreo e dei suoi crimini? E poi, anche Pavel è ebreo. E che male ha potuto mai fare, per essere costretto a servire in cucina, lui che è medico? È dall'interno della visione del mondo dominante che Bruno parte per la sua 'esplorazione'. E quel che scopre è doloroso. Forse, il padre non è l'ufficiale valoroso e buono che dice di essere. Forse, all'istitutore non si deve prestare fiducia. Forse, dietro la casa non c'è una fattoria. Ed è qui, dietro la casa, che Bruno incontra un nuovo piccolo amico: sta oltre una linea di filo spinato, e porta lo stesso pigiama di Pavel. Diventano amici, l'ariano e l'ebreo. Quel che poi accade lo lasciamo allo spettatore, e al suo sguardo pieno di sofferenza, proprio come il film fa con la porta su cui termina. Suggeriamo però che, al di là di quel limite, c'è il cuore nero di questa storia irraccontabile, un cuore che ci riguarda tutti, ogni volta che nutriamo la nostra innocenza di odio: di odio per l'Ebreo, o per il Nero, o per il Rom, o per...

RRoberto Escobar, Il Sole 24 Ore, 4 gennaio 2009

 

Un film sull'Olocausto prodotto dalla Disney, diretto da Mark Herman (quello di Grazie, signora Thatcher) e interpretato da due bambini di otto anni: Samuel è ebreo e vive rinchiuso dietro il filo spinato di un campo di concentramento; Bruno è figlio di un ufficiale nazista che si occupa dell'organizzazione della 'soluzione finale' e che si trasferisce con tutta la famiglia in una casa adiacente a un campo di lavoro. Le premesse non erano buone. Una confezione patinata, la musica avvolgente, un'elegante ricostruzione storica, una narrazione iscritta nei canoni di una pacata rappresentazione, dove ci si sdegna nella giusta misura per i crimini degli uomini e la crudeltà della Storia. La storia di un'amicizia tra due bambini divisi dalla guerra ma che si riscoprono simili poteva risolversi nel solito drammone strappalacrime alla cui fine brilla la luce della speranza, la possibilità della riconciliazione. Come in La vita è bella abbiamo un bambino a cui tutti, in primo luogo la famiglia, raccontano la favola della guerra. Gli adulti dicono bugie sulla vera natura del campo di concentramento e Bruno vive in una dimensione incantata dove la fantasia contraddice e incrina i segni del reale. Ma al contrario rispetto al film di Benigni, il bambino decide di entrare nella costruzione fantastica e di dare corpo ai propri fantasmi. Il viaggio di Bruno è un'esplorazione dentro il buio assoluto della menzogna per cercare di verificarne la tenuta con i propri occhi. Tratto da un libro dello scrittore irlandese John Boyne, Il bambino con il pigiama a righe non arretra di fronte alla radicalità delle proprie premesse: isolare l'infanzia in una dimensione immaginaria con la speranza di salvare la parte migliore di noi stessi non serve a nulla. Non ci sarà nessuna redenzione dalla colpa.

SSilvia Colombo, Film TV, dicembre 2008

 

 

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