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Il canto delle spose - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALES.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 20 gennaio 2011 – Scheda n. 12 (824)

 

 

 

 

Il canto delle spose

 

 

Titolo originale: Le chant des mariées

 

Regia e sceneggiatura: Karin Albou

 

Fotografia: Laurent Brunet. Montaggio: Camille Cotte. Musica: François Eudes.

 

Interpreti: Lizzie Brocheré (Myriam), Olympe Borval (Nour),

Najib Oudghiri (Khaled), Simon Abkarian (Raoul), Karin Albou (Tita).

 

Produzione: Gloria Films. Distribuzione: Archibald.

Durata: 100’. Origine: Francia/Tunisia, 2008.

 

Karin Albou

 

Nata nel 1968, la regista Karin Albou ha studiato cinema, arte drammatica, danza e letteratura araba a Parigi. Il suo primo corto Chut (1992) ha vinto il premio per la miglior opera prima di Cinécinéma. Dopo il documentario, Mon pays m’a quitté (1995), ha scelto di parlare dell'Algeria, paese di origine del padre, nella sua seconda opera, Aïd El Kebir. La petite Jérusalem, suo primo lungometraggio, è stato premiato alla Settimana della Critica del Festival di Cannes nel 2005. Il canto delle spose è il suo secondo film.

Karin Albou: «Ho scritto questo film perché mi è capitato di allontanarmi dalle mie amiche più intime dopo che si sono sposate loro, nel momento in cui mi sono sposata io. Non la vivo certo come una fatalità, ma mi ha portato a riflettere sulla forza delle amicizie d’infanzia, caratterizzate da un desiderio incosciente, un amore esclusivo, un bisogno pressante d’identificazione. Ho scelto di ambientare questa storia tra Nour e Myriam durante la seconda guerra mondiale, perché si tratta di un momento storico poco noto, che non è limpido e si rivela pieno di ambiguità e asperità. Queste ambiguità sono state esplorate in letteratura (da Mohammed Dib, tra gli altri), ma non nel cinema. Molti film parlano della seconda guerra mondiale, ma sono tutti ambientati in Europa. Nessuno di loro ha narrato il modo in cui questa guerra è stata vissuta nelle colonie e nei protettorati. Desideravo descrivere le ripercussioni dell’occupazione tedesca sui personaggi: il modo in cui ognuno di loro, in una situazione estrema, gettato nella guerra, si confronta con la propria crudeltà. All’inizio del film, durante il fidanzamento di Nour, le due ragazze sono letteralmente fuse l’una con l’altra, ritratte insieme in ogni inquadratura. L’unica separazione è quella tra uomini e donne, che non condividono mai lo stesso spazio e non hanno accesso agli stessi oggetti di piacere. Poi, quando la guerra s’infiltra nel quotidiano di Nour e Myriam, ognuna viene gettata suo malgrado nella propria identità, costretta a condividere il destino della propria comunità. Il desiderio d’identificazione, tipico dell’adolescenza, viene infranto. Per fortuna, sussiste una profonda tenerezza: Nour, sola, trasportata da questo amore assoluto, salva Myriam respingendo l’oggetto di propaganda e separazione (il volantino) e mette coraggiosamente fine alla rottura imposta. Proseguo anche con la mia esplorazione cinematografica del rapporto intimo dei personaggi con il loro corpo e la loro sensualità. È un film sulla femminilità, la scoperta dell’erotismo, il rapporto con l’altro. Questi temi mi sono molto cari. L’ultimo punto a cui tenevo, era mostrare che le due ragazze sono sottomesse alla stessa condizione femminile: più la guerra le separa e le porta verso identità diverse, più si riuniscono nel dolore della loro condizione di essere donna. Questo non esclude la violenza dei rapporti tra donne: le madri replicano gli stessi schemi arcaici nei confronti delle figlie, e sono in parte responsabili della persistenza di questa organizzazione sociale tradizionale».

 

La critica

 

Ci sono molti elementi in Il canto delle spose della regista franco-algerina Karin Albou. Il rapporto tra “grande storia” e “piccola storia”, per esempio: l’amicizia tra due adolescenti, una araba una ebrea, nella Tunisi del novembre ’42, quando le forze dell’Asse avevano occupato il Paese e imposto la politica antisemita coniugandola con le promesse di liberazione dalla presenza coloniale francese sul territorio. Il razzismo, quindi, che viene instillato dalla propaganda nazista più che essere qualcosa di “sentito” dalla popolazione, in un luogo in cui fino a quel momento ebrei e arabi avevano convissuto armonicamente. L’amicizia in adolescenza, l’amicizia femminile che dura dall’infanzia e che a una certa età, l’età in cui si diventa donne, significa scoperta del proprio corpo e del corpo dell’“altro”, insieme. Il “romanzo di formazione”, il diventare donne, adulte, “spose” e i riti di iniziazione a questo connessi. E “il corpo delle donne”, per citare il titolo di un documentario di cui si è molto parlato in questa fine d’anno: il corpo delle donne su cui fatalmente si riversano contingenze e atmosfere storico-politico-sociali oltre che culturali, che oggi nel mondo occidentale viene mostrato dai media in un certo modo (Videocracy…) e che nella Tunisia degli anni Quaranta era mero oggetto dell’attenzione maschile, del desiderio maschile. Temi e spunti non sempre ben gestiti dalla regista e sceneggiatrice: dopo mezz’ora di film ci si chiede ancora quale sia il fulcro, quale sia il cuore “emotivo” dello stesso, cosa ci farà vibrare, cosa catturerà davvero il nostro interesse di spettatori. Come se il film non riuscisse a essere incisivo, come se i molti temi restassero in superficie e non penetrassero nella carne e nel sangue di chi guarda (e di carne e di sangue qui ce n’è, in realtà). A fine film ci si rende conto che un elemento di interesse c’è e che è quello che “tiene insieme” l’opera, ed è lo sguardo. Lo sguardo della regista è delicato, sottile. Femminile, se vogliamo. Un po’ come la Faucher in Le ricamatrici, parla di donne in maniera impressionistica, simbolica, per metafore e non direttamente, utilizzando per esempio i luoghi chiusi quali l’hammam e la casa delle protagoniste per suggerire chiusura ma anche protezione e legame (sono luoghi infatti in cui ci si può spogliare, “mettere a nudo”) e i luoghi aperti quali la terrazza degli incontri segreti o le strade e la stazione della capitale a segnare l’incontro con l’altro a tutti i livelli, che è un incontro che fa paura (lo dice Nour a proposito del bacio, quindi dell’incontro con il maschile; è più immediato se pensiamo all’occupante tedesco e alla guerra in corso). Le finestre poi, le grate da cui Myriam e Nour guardano il mondo (la strada in cui passeggiano solo uomini prima, e soldati poi), come a dire di esistenze negate, murate. I luoghi quindi ma anche gli oggetti, come il bracciale che Raoul regala a Myriam e che questa regala poi a Nour, che lo toglie nel momento in cui si allontana dall’amica per riprenderlo nel momento in cui comprende che la loro amicizia va al di là delle contingenze storiche e dei condizionamenti sentimentali (nel suo caso) e culturali. E i corpi appunto, nella loro nudità e bellezza; il corpo di Myriam che si deve “preparare” all’incontro con Raoul e quello di Nour che deve subire la “prova” della prima notte di nozze, e i volti e gli sguardi: le due amiche sono spesso inquadrate in primo piano, vicine; nella scena della depilazione i loro corpi sembrano fondersi, così come nell’abbraccio della scena finale; e anche quando sono in presenza di uomini l’inquadratura privilegia loro, la loro fisicità, il loro sguardo impaurito e attento, comunque. Un film di atmosfera quindi, con una fotografia curatissima così come lo sono i costumi e le scene, imperniati tutti sui toni del bianco e del blu e dell’azzurro… A parte il fuoco che compare dopo la prima notte di nozze di Nour e Khaled, in cui il rosso del sangue sul lenzuolo ha rotto già la delicatezza generale dei toni, come la folla dei corpi che attende fuori dalla stanza… Il calore che chiude il film con il ritrovo, nel rifugio, delle nostre due ragazze… Perché l’amicizia femminile è più forte di qualunque uomo e di qualunque guerra, questo il messaggio che la regista vuole portare, nonostante il canto del titolo, che fa da leit-motiv al film, sembri suggerire il contrario.

PPaola Brunetta, Cineforum, n. 491, gennaio – febbraio 2010

 

Come si racconta la grande Storia in un piccolo film (“piccolo” in senso produttivo, s’intende)? Scegliendo un punto di vista insolito. E quello de Il canto delle spose è insolito tre volte. Perché siamo nella Tunisi del 1942, e non sono molti i film che rievocano la Seconda Guerra mondiale con gli occhi delle colonie o dei protettorati. Perché le protagoniste sono due ragazze, più attente al loro destino individuale che al futuro del mondo. Perché Myriam e Nour, amiche per la pelle come succede solo a 16 anni, vivono nello stesso cortile ma appartengono a mondi che oggi diremmo lontani e che allora erano vicini. (...)

La Francia collaborazionista del maresciallo Pétain dà prova di zelo anche in colonia, e la radio annuncia pesanti sanzioni per gli ebrei, “colpevoli” di aver scatenato la guerra, dunque condannati a pagare i danni inflitti dalle bombe alleate in denaro o in lavoro. Basterebbe questo sguardo così inconsueto su una tragedia vista quasi sempre con occhi europei a dire l’interesse eccezionale del secondo film della franco-algerina Karin Albou (anche attrice, è lei la madre di Myriam). La Albou infatti è bravissima a rievocare un’intera epoca in pochi scorci (un aereo tedesco che lancia volantini, la propaganda alla radio, una battuta razzista lasciata cadere fra le donne nude, arabe ed ebree insieme, nell’hammam...). Sottolineando, a volte un poco didascalicamente, le contraddizioni più sanguinose: come il fidanzato collaborazionista di Nour; o lo zio ricco che smista gli ebrei destinati ai lavori forzati, come se non fosse ebreo anche lui, in ossequio a una direttiva della comunità ("difendere l’élite"). Ma al centro di tutto resta sempre il corpo e in particolare il corpo delle donne, corteggiato, controllato, manipolato (c’è una scena di depilazione intima dal verismo a dir poco impressionante). E in fin dei conti destinato a concentrare su di sé tutte le crudeltà della Storia. Con una precisione e un’immediatezza che solo il cinema può rendere con tanta fedeltà.

FFabio Ferzetti, Il Messaggero, 18 dicembre 2009

 

 

 

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