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Scheda pdf (173 KB)
Welcome - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALES.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 27 gennaio 2011 – Scheda n. 13 (825)

 

 

 

Welcome

 

 

Titolo originale: Welcome

 

Regia: Philippe Lioret

 

Sceneggiatura: Philippe Lioret, Emmanuel Courcol, Olivier Adam. Fotografia: Laurent Dailland.

 Montaggio: Andréa Sedlackova. Musica: Nicola Piovani, Wojciech Kilar, Armand Amar.

 

Interpreti: Vincent Lindon (Simon), Firat Ayverdi (Bilal),

 Audrey Dana (Marion), Derya Ayverdi (Mina),

Thierry Godard (Bruno), Selim Akgül (Zoran).

 

Produzione: Nord-Ouest Films. Distribuzione: Teodora Film.

Durata: 110’. Origine: Francia, 2009.

 

Philippe Lioret

 

È la giornata della memoria. Il film che avremmo voluto proiettare è L’uomo che verrà di Giorgio Diritti. La pellicola, però, non era disponibile per questa data: vedremo il film alla fine di febbraio. Il film di stasera, Welcome, è anch’esso un film che serve per non dimenticare. Per non dimenticare il presente. E per ricordare che anche nel presente, come dice il regista, il passato può ripresentarsi. Il passato del 1943, quello in cui un francese che aiutava un ebreo veniva messo in carcere dai nazisti.

Parigino, nato nel 1955, Philippe Lioret comincia come fonico. Poi scrive e realizza un corto, Tout doit disparaître, seguito nel 1993 dal suo primo lungo, Tombés du Ciel, su un gruppo di sei viaggiatori rimasti chiusi nell’aeroporto Charles de Gaulle. Il film viene premiato a San Sebastian. Del 1997 è Tenue correcte exigée. Nel 2001 esce Mademoiselle con Sandrine Bonnaire, che è ancora la protagonista di L’équipier (2004). Del 2005 sono Tue l’amour e Vache-qui-rit. Nel 2006 arriva il film che gli dà la notorietà definitiva, Je vais bien, ne t’en fais pas. Infine, nel 2009, dirige questo Welcome. Presentato al Festival di Berlino e al Torino Film Festival, Welcome è stato premiato con il Premio Lux 2009 da parte del Parlamento Europeo.

Sentiamo Lioret: «Quello che accade oggi a Calais mi ricorda ciò che è accaduto in Francia durante l’occupazione tedesca: aiutare un clandestino, infatti, è come aver nascosto un ebreo nel ’43, vuol dire rischiare il carcere. Non voglio mettere in parallelo la Shoah con le persecuzioni delle quali sono vittime gli immigrati di Calais e i volontari che tentano di aiutarli, bensì i rispettivi meccanismi repressivi che stranamente si assomigliano. L’articolo L622/1 della legge sull’immigrazione voluta da Sarkozy punisce i cittadini francesi che aiutano i clandestini con cinque anni di reclusione. Tra le conseguenze paradossali di tale articolo c’è stata anche la messa sotto inchiesta dell’organizzazione umanitaria Emmaüs, fondata dall’abbé Pierre... Il progetto di Welcome nasce dalla forte attrazione che ho provato da subito verso questo soggetto, dedicato a uomini in fuga dai propri paesi d’origine e determinati a raggiungere l’Eldorado dell’Inghilterra. Dopo un viaggio improbabile, si trovano bloccati a Calais, frustrati, maltrattati e umiliati, a poca distanza dalla costa inglese, che vedono in lontananza. Parlandone una sera con lo sceneggiatore Olivier Adam, ho capito come quel posto fosse la nostra “frontiera messicana”, sarebbe bastato scavare un po’ per ricavarne una storia di grande impatto drammatico. Siamo partiti per Calais. Durante un inverno ghiacciato, abbiamo seguito i volontari delle organizzazioni di aiuto e siamo venuti a contatto con la vita infernale dei rifugiati: la “giungla” dove trovano riparo, il racket delle estorsioni dei contrabbandieri, le infinite persecuzioni da parte della polizia, i centri di detenzione, i continui controlli dei camion dove stanno ammucchiati per riuscire a imbarcarsi sul traghetto e dove rischiano la vita per sfuggire alle ispezioni… Quello che ci ha sorpreso di più è stato l’età dei rifugiati: il più vecchio non aveva 25 anni. Molti di loro, come tentativo estremo, hanno provato ad attraversare la Manica a nuoto… Quando ho parlato del soggetto all’attore Vincent Lindon, che nel film fa l’istruttore di nuoto, mi ha detto che avrebbe fatto il film anche senza leggere la sceneggiatura... Trovare un attore per Bilal è stato come trovare un ago in un pagliaio. Neanche sapevo se un tipo del genere esistesse da qualche parte nel mondo. Abbiamo viaggiato per settimane da Berlino a Istanbul, da Londra alla Svezia, dove vivono grandi comunità di curdi. Alla fine, abbiamo scoperto Firat proprio in Francia. Non è un professionista ma ha un’intensità e un’autenticità che hanno fatto la differenza... La piscina pubblica è quasi un personaggio essa stessa e agisce da catalizzatore della storia: non solo evoca il fallimento della carriera di Simon come nuotatore, ma è anche dove Bilal impara a nuotare con la speranza di attraversare la Manica. È molto importante per me filmare nei posti dove l’azione ha luogo davvero. Quando giri in posti reali, racconti meglio: le strade di Calais, il porto gigantesco, la spiaggia di Blériot, il continuo andirivieni dei traghetti. Tutte queste atmosfere conferiscono autenticità al film».

 

La critica

 

(...) Durante la presentazione del film, lo scorso marzo, è nata una polemica intorno ad una dichiarazione di Lioret: «Quello che accade oggi a Calais mi ricorda ciò che è accaduto in Francia durante l’occupazione tedesca: aiutare un clandestino, infatti, è come aver nascosto un ebreo nel ’43, vuol dire rischiare il carcere». Eric Besson, ex socialista, recentemente convertitosi alla destra sarkoziana, ministro dell’Immigrazione e dell’identità nazionale (secondo Lioret, un’invenzione di Sarkozy «per rubare voti all’estrema destra del Front National»), ha stigmatizzato il paragone del regista che ha puntualmente replicato e ha ricevuto il sostegno di Jean-Claude Lenoir, presidente dell’associazione umanitaria Salam. Nell’Italia malata di berlusconismo e di aberrante razzismo leghista, non poteva mancare l’episodio di un critico cinematografico (Maurizio Cabona, «Il Giornale», 11 dicembre 2009) che ha avuto il coraggio di sostenere come il merito principale del film consista nel non dare torto a nessuno, in particolare ai poliziotti e ai ministri di Sarkozy, oltretutto sarcasticamente citato nel film con l’inserto di un’apparizione televisiva. La prima parte di Welcome aderisce totalmente alla condizione dei clandestini ammassati a Calais (il pagamento della tariffa al racket dei “passatori”, l’insinuarsi di nascosto in un camion, il sacchetto di plastica infilato in testa per impedire ai rilevatori di scoprire il respiro, le violenze latenti fra gli stessi clandestini e le umiliazioni inflitte dai poliziotti). È un mondo crudelmente precario, mostrato dall’interno nella concretezza di azioni e oggetti (la fotografia di Mira, la ragazza amata da Bilal, oggetto degli apprezzamenti dei poliziotti; i sacchetti di plastica nera che evocano i desaparecidos). Ma, in un clima così cupamente persecutorio, esistono anche i volontari che distribuiscono cibo nei dintorni del porto. Poi Lioret sposta la narrazione su un uomo qualunque, un maestro di nuoto, che ha alle spalle una vita di rinunce – prometteva di diventare un atleta a livello agonistico – e fallimenti nel privato – la moglie Marion, volontaria delle associazioni umanitarie, ha deciso di divorziare e Simon, per quanto ne soffra, non ha fatto nulla per impedirlo. I motivi della rottura con Marion non sono chiariti, ma si intuiscono dall’attitudine indifferente e remissiva di Simon quando assiste con lei a un episodio di brutalità poliziesca contro alcuni immigrati in un supermercato. Simon è un uomo passivo e rinunciatario, come tanti. Il suo interesse per Bilal, sulle prime, è motivato dalla volontà meschina e patetica di fare colpo sull’ex moglie, e infatti Simon ostenta con Marion i primi atti di generosità compiuti verso il ragazzo (atti che, all’inizio, non sono privi di insofferenze e sospetti, anche fondati, verso i clandestini). La trasformazione di Simon, da esponente della maggioranza silenziosa a individuo cosciente dell’iniquità della legge, avviene lungo il crescendo del suo confronto con l’audacia adolescenziale di un giovane che rischia la vita per una passione. Un confronto che, come Lioret lascia intravedere con efficacia, offre anche un affetto sostitutivo a un uomo che potrebbe essere il padre di Bilal e che soffre la solitudine dell’abbandono. Gli scompensi privati rendono al tempo stesso Simon più vulnerabile e, quindi, più disponibile ad avventurarsi in una scelta difficile e rischiosa com’è quella di infrangere la legge. Questa dinamica è anch’essa calata dal regista in dinamiche concrete, e non nello psicologismo: in luoghi eloquenti, come l’appartamento vuoto di Simon (attorniato da vicini dal buon senso pacificamente razzista, con l’ipocrisia della scritta «Welcome» sullo zerbino), la piscina come palestra di una pedagogia inutile, il porto come frontiera inaccessibile, la spiaggia di Blériot come spazio aperto su un’illusione ingenua e suicida. Alla brutale ottusità delle repressioni poliziesche corrisponde, come un’eco, l’intransigenza disumana del padre di Mina e il clima plumbeo di quella casa povera e coatta, a Londra, rotto da telefonate furtive della ragazza a Bilal. Lioret, però, non ha voluto scadere nel manicheismo e mostra il volto del tenente di polizia come una maschera dove la stanchezza e la nausea si sono confuse nell’obbedienza. L’immagine che, da sola, condensa il senso del film, è quella funebre distesa di mare scuro e gelido dove Bilal nuota, fasciato nella sua muta nera. Il mare è una presenza ricorrente nel cinema di Lioret (dal faro in miniatura di Mademoiselle alle coste bretoni di L’équipier, fino alla spiaggia di Saint-Aubin-sur-Mer in Je vais bien, ne t’en fais pas). Ma in Welcome il mare diviene un’immagine tragica, una dimensione di inabissamento e cancellazione.

RRoberto Chiesi, Cineforum, n. 491, gennaio – febbraio 2010

 

 

 

 

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