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Giovedì 10 febbraio 2011 – Scheda n. 15 (827)
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Gli amori folli
Titolo originale: Les herbes folles
Regia: Alain Resnais
Soggetto: dal romanzo «L’incident» di Christian Gailly.
Sceneggiatura: Alex Réval, Laurent Herbiet. Fotografia: Eric Gautier.
Montaggio: Hervé de Luze. Musica: Mark Snow.
Interpreti: André Dussollier (Georges Palet), Sabine Azéma (Marguerite Muir),
Anne Consigny (Suzanne Palet), Emmanuelle Devos (Josepha),
Mathieu Amalric (Bernard de Bordeaux), Michel Vuillermoz (Lucien d’Orange).
Produzione: F Comme Film. Distribuzione: Bim.
Durata: 104’. Origine: Francia/Italia, 2009.
Alain Resnais
Quante volte abbiamo parlato di Alain Resnais su queste schede. Il grande regista francese ci ha accompagnati fin dai primissimi anni del Cineforum. Occhi azzurri vivaci, capelli bianchi, volto sbarazzino: Resnais è una delle figure fondamentali di quel movimento che trasformò il cinema negli anni sessanta, la Nouvelle Vague francese, quella di Godard, Malle, Chabrol, Truffaut, Rivette. Origini bretoni, nato a Vannes nel 1922, figlio di un farmacista, famiglia borghese e agiata, bambino con problemi di salute, crisi d’asma, frequenta irregolarmente la scuola, è sua madre a interessarlo alla musica classica, alla fotografia, al fumetto e alla letteratura, divora libri nell’adolescenza, si abbona al giornalino settimanale italiano “L’avventuroso”, sogna Mandrake e Flash Gordon, a tredici anni gli regalano una cinepresa 8mm e gira il suo primo cortometraggio L’aventure de Guy, ispirato alle avventure di Fantomas, a vent’anni incontra a Parigi il grande Marcel Carné che lo sceglie come comparsa per il suo film L’amore e il diavolo, rimane affascinato dal cinema, si iscrive alla appena fondata scuola francese di cinema, l’IDHEC, le lezioni non lo appassionano, lascia l’istituto, dirige Ouvert pour cause d’inventaire con Gérard Philipe, fa l’aiuto regista, gira una ventina di documentari, dirige in coppia con il grande Chris Marker Anche le statue muoiono, documentario sequestrato dalla censura. Del 1956 è Notte e nebbia, uno dei primi documentari sulla Shoah e il più doloroso, girato ad Auschwitz. Resnais diventa ancor più celebre dopo il suo primo lungometraggio, tappa fondamentale nella storia del cinema, Hiroshima mon amour, scritto da Marguerite Duras. Poi, è tutto un susseguirsi di titoli importanti, molti dei quali presentati al nostro Cineforum: 1961, L’anno scorso a Marienbad, Leone d’Oro a Venezia; 1966, La guerra è finita; 1974, Stavisky il grande truffatore; 1977: Providence; 1980, Mon oncle d’Amérique; 1989, Voglio tornare a casa!; 1983, La vita è un romanzo; 1993, Smoking No Smoking; 1997, Parole, parole, parole; 2006, Cuori; fino a questo Les herbes folles che in Italia è diventato Gli amori folli. Autore colto, raffinato, elegante, originale: grazie a Resnais per i tanti magnifici film che ci ha regalato.
La critica
Gli amori folli sono, nell’originale, Les Herbes folles (2009, premio speciale della giuria a Cannes): sono le indomabili erbacce matte e selvatiche che spuntano dall’asfalto, che bucano il cemento. Sempre più libertario, sempre più sperimentale, nel senso che alle regole sostituisce altre sue regole, nel senso che alle imposizioni contrappone altre decisioni, Resnais parte dalla chiara metafora dell’erba ribelle per dimostrare un altro dei suoi teoremi, quello sulla imprevedibilità di ogni azione umana, per piccola che sia, sulla indecidibilità di ogni casuale accadimento come quello che capita a Sabine Azéma, non più giovane, nubile, capigliatura rossa indomabile, decappottabile gialla, collezionista di scarpe di marca, dentista e pilota di Spitfire, e al povero André Dussollier che è soltanto un pensionato casalingo di periferia. Uno il contrario dell’altra. Lei viene scippata della borsa, lui ritrova il portafoglio, lei telefona per ringraziarlo, lui vorrebbe incontrarla... e siamo dentro ancora al piccolo labirinto dei desideri e delle paure, e cominciamo a inoltrarci ancora una volta lungo un sentiero dove potremmo incontrare il melodramma amoroso oppure una qualche perversione, o anche la sospensione dei giochi, o la scoperta di qualche zona d’ombra nel passato di lui o di lei, oltre a tutte le strane domande che la parte iniziale del film ci suggerisce e alle quali Resnais si diverte a non dare risposte. Gli amori sono folli perché non hanno niente a che fare con l’evidenza e con le consuetudini: Georges, quando trova il portafoglio con i documenti, sembra già innamorato della proprietaria Marguerite. Da qui, da questo stacco, derivano peripezie strampalate su peripezie assurde. Basta cominciare e il meccanismo non si ferma. Fino a quel memorabile e del tutto imprevedibile finale dove, dopo un percorso volante della macchina da presa per giardini, scogli e cieli, c’è una bambina che chiede alla mamma se potrà mangiare i croccantini nel caso diventasse mai un gatto... Finale bizzarro, scelto tra tutti i più bizzarri finali possibili e impossibili, che nasconde il finale che non si può dire né vedere, quello in cui tutto finisce davvero, nel buio e nel silenzio. È stato detto, benissimo (Jacques Mandelbaum, Le Monde, 3.11.09), che questo film, folle per eleganza e sconcertante per serenità, ha un piede nello stupore dell’infanzia e l’altro nell’oscurità della tomba. Resnais, mago, imbroglione, sperimentatore, insaziabile narratore e inventore, il primo Resnais come questo ultimo, finisce sempre per arrivare là da dove era partito. La sua esplorazione del mondo, delle vite e del cinema ritorna, come diceva il T. S. Eliot dei Quattro quartetti, al punto di partenza: torna lì e conosce il posto per la prima volta. È sempre una prima volta, ogni film di Resnais. On connaît la chanson (che è il titolo originale di Parole, parole, parole). Si sa bene che il vero sperimentatore rifà rifà rifà il suo esperimento, con lievi variazioni. Rifare fino allo sfinimento. Rifare e rifinire. Rifinire, cioè finire di nuovo ma con maggior cura per le rifiniture. Tra il primo e l’ultimo Resnais stanno un bel numero di perfetti esperimenti, mai finiti, uguali e sorprendenti, labirintici e dritti, logici e fantasiosi, distruttivi e creativi. Danzanti e coscienti che la gravità è sempre in agguato. Pieni di grazia, capaci di bucare ogni scorza di asfalto e cemento.
BBruno Fornara, L'ultimo Resnais, in Alain Resnais, Il tempo e la memoria, 2010
Mentre leggeva alcuni testi teatrali alla ricerca di un soggetto per un film, Alain Resnais scoprì un romanzo di Christian Gailly e rimase affascinato dalla sua prosa ambigua e suadente, dal respiro musicale del suo raccontare, costellato di sospensioni, variazioni e contraddizioni. Così, per la prima volta, ha deciso di ispirarsi ad un testo di narrativa preesistente, «L’Incident» (1996). Il direttore della fotografia Éric Gautier – che aveva già lavorato con Resnais per il precedente Cuori – racconta che il regista ha preso una copia del romanzo di Gailly, ha ritagliato con le forbici i dialoghi che voleva inserire nel film e li ha incollati sulla carta, impostando un primo, sommario découpage. Poi ha chiesto ai suoi sceneggiatori di lavorare all’adattamento a partire dai brani selezionati, che sono stati mantenuti fedelmente nel film. La scelta delle parole, dei dialoghi e dei silenzi di Gailly, è diventata la matrice da cui hanno preso vita i due personaggi di questa storia lunare e il piccolo mondo concreto e irreale che li circonda. Le parole di Georges Palet, Marguerite Muir (e in una certa misura anche del narratore Édouard Baer) sono incerte, contraddittorie e imprevedibili, come le azioni e le reazioni di un uomo e una donna non più giovani, divisi dalle correnti alterne di sentimenti che non obbediscono agli stessi tempi nell’uno e nell’altra e sono dominati dall’irrazionale. Le “herbes folles” del titolo originale sono appunto le erbe matte che crescono negli interstizi del selciato o delle pietre, grazie ai semi trasportati casualmente dal vento. Sono le erbe che avevamo visto invadere lo spazio dell’orrore e della morte nell’ultima sequenza di Notte e nebbia, o quelle che si erano ostinate a crescere nel suolo malato di Hiroshima, come i muschi e alle ginestre che si abbarbicavano sulle rocce o gli scogli all’inizio di Mon Oncle d’Amérique. La loro immagine, che ricorre nel film come un refrain (con una funzione analoga alle meduse di Parole, parole, parole, in originale On connaît la chanson), si riferisce all’irruzione selvaggia e inattesa di queste forme che sembrano rivendicare l’irriducibilità della natura. È anche un’immagine del disordine della vita che s’insinua nell’assetto artificiale voluto dall’uomo per sabotarlo lentamente ma inesorabilmente, operando un’usura surrettizia che ricorda quella del tempo. È soprattutto un’immagine dell’irrazionalità, che è la dimensione dominante di Les herbes folles. (...) L’ironia stralunata che percorre il respiro del film, si condensa nell’unico elemento che unisca Marguerite a Georges: la passione per il volo. Una passione che li condurrà al loro unico incontro amoroso nel corridoio dell’aereoporto (sottolineato ironicamente dalla musica canonica della 20th Century Fox). E alla morte: infatti in seguito a circostanze che alludono burlescamente alla sessualità, l’aereo inizia una serie di sospette acrobazie. Resnais evita di mostrare lo schianto ma fa seguire un’eloquente successione di inquadrature delle rocce, dei campi e delle lapidi di un camposanto. Ma chiude con un’immagine enigmatica come un rebus: una bambina che chiede alla mamma se, quando sarà un gatto (ossia beneficerà finalmente della reincarnazione) potrà mangiare i croccantini. È uno scherzo che racchiude il segreto, irriducibile ottimismo dell’autore.
RRoberto Chiesi, Cineforum, n. 495, giugno 2010
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