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Giovedì 17 febbraio 2011 – Scheda n. 16 (828)
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Il segreto dei suoi occhi
Titolo originale: El secreto de sus ojos,
dal romanzo omonimo di Eduardo Sacheri
Regia e montaggio: Juan José Campanella
Sceneggiatura: Juan José Campanella, Eduardo Sacheri. Fotografia: Félix Monti.
Musica: Federico Jusid, Emilio Kauderer.
Interpreti: Ricardo Darín (Benjamín Esposito), Soledad Villamil (Irene Menéndez Hastings),
Pablo Rago (Ricardo Morales), Javier Godino (Isidoro Gómez),
Guillermo Francella (Pablo Sandoval), José Luis Gioia (l’ispettore Báez),
Carla Quevedo (Liliana Coloto).
Produzione: 100 Bares, Haddock Films. Distribuzione: Lucky Red.
Durata: 127’. Origine: Argentina, Spagna, 2009.
Juan José Campanella
Nato nel 1959 a Buenos Aires, Juan José Campanella ha lavorato nelle tv degli Stati Uniti per molte serie, come Law & Order e Dr. House. Sceneggiatore oltre che regista, con questo suo ultimo film, Il segreto dei suoi occhi, ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero. I suoi film precedenti sono: Bad Boy, il ragazzo che gridava (1991), Una notte per caso (1997), El mismo amor, la misma lluvia (1999), Il figlio della sposa (2001), Luna de Avellaneda (2004).
Sul suo film ha detto: «Un vecchio che mangia da solo. È stata questa immagine a catturarmi e, alla fine, a farmi prendere in considerazione il romanzo. Non il crimine. O la suspense. O il genere. Il vecchio che mangia da solo. Come fa una persona a ritrovarsi sola nella vita? Quel vecchio si chiede come è finito a mangiare solo in un bar senza nessuno accanto? Lo si può ignorare, dimenticare o nascondere per un po’, ma il passato finisce per ripresentarsi. Forse durante il secondo atto della sua vita il vecchio è riuscito ad ignorare cosa aveva fatto nel primo atto, ma se vuole riuscire ad arrivare bene al terzo atto, dovrà affrontare tutto ciò che ha lasciato in sospeso... Non lo considero un “film noir”. Il “piatto forte”, le forze motrici di questo film sono un amore non dichiarato durato anni, la frustrazione e il vuoto percepito dai personaggi principali. Il genere “noir” è solo il vassoio sul quale la pietanza principale viene servita... La memoria mi affascina. Il modo in cui le decisioni che abbiamo preso venti o trent’anni fa possono condizionare la nostra vita presente. Questo discorso vale anche per la memoria di una nazione. Riesaminando la storia del nostro Paese negli anni ’70, oggi sappiamo che quell’orrore ha avuto inizio prima della dittatura militare. La storia si svolge in un’Argentina in cui l’atmosfera cominciava ad incupirsi, a intorbidirsi, finendo coll’avvolgere anche i protagonisti».
La critica
(...) Il segreto dei suoi occhi, che si è aggiudicato, facendo storcere molti nasi, il premio Oscar come miglior film straniero sbaragliando una così preziosa concorrenza (Il nastro bianco di Haneke e Il profeta di Audiard), gioca con la memoria e il tempo, o meglio, si serve della prima per dipanare il secondo. Al presente degli anni Duemila si contrappongono gli anni Settanta, in una alternanza ininterrotta che prende avvio da un libro-pretesto che va scritto non per ricordare, ma per ripartire direttamente da dove la storia sembrava finita, riprenderne le redini e reinventarne l’epilogo. Benjamín, un fantastico Riccardo Darín, è un uomo solo, ha conosciuto la vita, l’amore, il dolore. Adesso che non deve più lavorare per vivere, vuole vivere senza fantasmi, e, mentre si volta indietro, come una persona ragionevole che riesamina i suoi passi, si rende conto che quegli occhi, quello sguardo, non hanno mai smesso di supplicarlo. Di insinuargli il dubbio sugli esiti, le occasioni perdute, la vacuità di alcune non scelte. E allora che fa? Non può fare altrimenti: riprende in mano le carte, accorcia le distanze. Uno dei pregi di questo film sinceramente riuscito è quello di non far percepire gli scarti: tra il passato e il presente non ci sono passaggi bruschi, l’attualità ha la stessa luce soffusa e pastellata del ricordo, lo stesso invecchiamento dei personaggi appare come una deriva naturalissima e quasi impercettibile. E la stessa cosa succede con i generi: il poliziesco si inserisce perfettamente nel melodramma e viceversa, come anche le scene comiche, di vaghissimo odore kaurismäkiano, sono parte del riuscito intarsio. Un’opera di scrittura fine, con una regia accurata, mai insistita, delicata come un giallo che appassiona ma non confonde. È evidente fin da subito che Campanella non ha nessun interesse a raccontare in modo didascalico l’Argentina del 1974: il periodo storico di incubazione della dittatura, infatti, dopo la morte di Perón e la salita al potere della moglie Isabelita che delega la responsabilità al segretario López Rega, non viene contestualizzato, anche se si percepisce chiaramente tra le maglie della vicenda quel clima da genesi di soffocamento che caratterizzerà gli anni successivi con la dittatura militare, le uccisioni diffuse, le miriadi di desaparecidos. Il segreto dei suoi occhi non ha niente di politico: è un film sull’anarchia e il controllo della mente umana. Dentro i paletti di una sceneggiatura senza la minima sbavatura si muovono personaggi che, come mosche imprigionate in un bicchiere di vetro, non riescono a trovare la via d’uscita verso la risoluzione: che sia quella di un caso giudiziario, di una vendetta privata, di un amore platonico. Il film regala loro una seconda possibilità: quella di rivedere i percorsi, riscrivere delle pagine prima che il tempo le abbia consumate del tutto. Benjamín non vuole dimenticare, ma soprattutto ha un disperato bisogno, per risolvere la sua vita, di credere che l’amore puro, infinito, esista. (...) L’attaccamento di Benjamin al caso Morales è così viscerale perché egli sente che l’amore di questi coniugi deve essere rispettato come una cosa sacra: il marito affranto, spezzato da un dolore composto ma implacabile, che passa le ore nelle diverse stazioni di Buenos Aires con la speranza di incrociare l’assassino dell’amata, è una figura quasi epica, un cavaliere errante che protegge con la spada il Sentimento, così prezioso e raro forse perché imprigionato negli occhi di chi ha vissuto troppo poco per vederlo anche minimamente sfiorire. È questo che tormenta Benjamin, che per venticinque anni lo ha accompagnato nelle notti insonni: la certezza di non aver mai più rivisto tanta dedizione, e di aver sprecato una vita a dimenticare che possa esistere. Nel film, a differenza che nel romanzo di Eduardo Sacheri da cui è tratto (edito in Italia dalla Bur), viene dato infatti ampio risalto alla storia d’amore mancata tra Benjamín e Irene, la collega che all’epoca era il suo superiore e che lo aiuterà a rimettere le mani sul caso Morales anni dopo. Dicevamo che il film parla di anarchia e di controllo: su questi due poli si muove il sentimento che lega Benjamin ed Irene, incapaci di bloccare gli eventi che li allontanano e lasciarsi andare all’attrazione che li spinge l’uno nelle braccia dell’altro. È come se all’impossibilità di amare stroncata da un omicidio terribile si affiancasse un’altra impossibilità, speculare e contraria, questa volta stroncata dalla ragione, da un’ansia di tenere la propria vita sotto controllo che gli anni riveleranno fallimentare e frustrante. E così la riapertura metaforica del caso è una riapertura dello scrigno delle possibilità. (...) Il segreto dei suoi occhi è un film riuscito anche perché inchioda alla poltrona, usando la suspense attraverso scelte registiche intelligenti: memorabile il piano sequenza con la macchina a mano che isola l’assassino nella folla esultante allo stadio e marca stretta l’inseguimento dello stesso, come il “tragitto” in ascensore di Irene e Benjamín in compagnia dell’assassino, liberato per buona condotta e adesso guardia del corpo al servizio del governo, che tira fuori la pistola di fianco a coloro che lo hanno fatto incarcerare, la lucida e carica, per poi, arrivato al piano, proseguire sulla sua strada lasciando loro (e noi) agghiacciati dal terrore. Ma se il film usa l’espediente per indurre la reazione, non lo fa assolutamente con la sfacciataggine smaccatamente spettacolare tipica delle produzioni hollywoodiane: lo fa con uno stile d’altri tempi, pacato anche nei (pochi) momenti concitati. Ha il sapore, raro, di un bel libro, l’odore di un bel giallo, con le pagine un po’ muffite, spiegazzate, ma sanamente avvincente. E come tutti i gialli che si rispettino, ha un finale con colpo di scena. Non si tratta qui di chi ha ucciso chi, visto che l’assassino, inchiodato dalla foto di un vecchio compleanno di adolescenti e un interrogatorio che suscita il machismo attraverso la psicologia, è svelato a metà film; ma di come ha fatto Morales, uomo moderato ma determinato nell’esigere la pena peggiore – una vita “vuota” protratta, l’ergastolo –, a dimenticare, a perdonare, a lasciare che l’assassino consumi i suoi giorni come vuole, a piede libero. È con la speranza di trovare un uomo ancora arrabbiato che Benjamín arriva dal vedovo, per poi scoprire che si è accontentato egli stesso di una vita vuota, senza misteri: impiego in banca, a letto presto la sera, storie occasionali che non cancellano certo l’unico ricordo che vale la pena conservare come un cimelio sulla libreria, e cioè il sorriso immenso di Liliana, ma che ormai sembra risvegliare solamente una nostalgia pacificata. Benjamín è deluso: l’amore puro che aveva intravisto in quell’uomo reso non medio dal Sentimento non ha retto agli anni, alle pagine sfogliate, ai capelli caduti. Si allontana dalla sua casa isolata e borghesemente normale con la sensazione di aver sprecato una vita a rimpiangere una perfezione che alla fine si è esaurita col tempo. Ma l’indagine non è ancora (mai) finita, come non può e non deve esserlo un amore così ben imbalsamato, agghiacciato nell’orrore di un non futuro. Ed ecco allora che la pena più grande è perpetuata: una vita sempre uguale a se stessa, una prigionia lenta e inesorabile, che non esige nemmeno più la liberazione, si accontenterebbe anche solo di una parola.
EElisa Baldini, Cineforum, n. 496, luglio 2010
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