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Scheda pdf (169 KB)
Le quattro volte - Scheda del film

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALES.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 17 marzo 2011 – Scheda n. 20 (832)

 

 

 

 

 

Le quattro volte

 

 

Regia e sceneggiatura: Michelangelo Frammartino

 

Fotografia: Andrea Locatelli. Montaggio: Benni Atria, Maurizio Grillo.

 

Interpreti: un pastore, le capre, i carbonai, un albero, un filo di fumo,

gente di Caulonia e di Alessandria del Carretto, il cane Vuk.

 

Produzione: Vivo Film. Distribuzione: Cinecittà Luce.

Durata: 88’. Origine: Italia, 2010.

 

 

Michelangelo Frammartino

 

Nato a Milano nel 1968 da genitori calabresi, studia alla Civica Scuola di Cinema. Gira corti, esordisce con Il dono (2003), poi è a Cannes con Le quattro volte (2010), film premiato da un successo mondiale. Frammartino: «Il mio è un film in togliere: comincia tradizionalmente, fissandosi sull’uomo, poi sposta il centro dell’attenzione su tutto ciò che gli sta intorno (e che di solito è poco più che uno sfondo) fino a privare lo spettatore di ogni punto di riferimento. Ovviamente, in questa perdita progressiva del protagonista, si vorrebbe che fosse contenuta anche una scoperta, la scoperta di una pari dignità fra l’umano e gli altri regni. La Calabria, prima che una terra dal fascino arcaico, ancora sede di mestieri ancestrali come quello del carbonaio, che lavora con fumi, forme e materie risalenti alle origini del tempo, è il luogo in cui il sapere popolare, fortemente influenzato dalla scuola pitagorica, mi ha abituato a vedere oltre le cose, a immaginare la sopravvivenza di qualcosa che transita da un involucro a un altro. Si può liberare il cinema dalla tirannia dell’umano, che è un privilegio ma anche una condanna alla solitudine? Le quattro volte incoraggia questo percorso di liberazione dello sguardo».

 

La critica

 

A scanso di equivoci, prima diciamo quello che nel film non c’è. Non c’è quella che in tanti chiamano ‘poesia’, la ‘poesia’ cinematografica, tra virgolette, che non ha niente a che fare con la poesia, quella buona, quella dei poeti, ma che è la ‘poesia’ di certo cinema che vuole essere ‘poetico’ ed è soltanto illustrativo, emotivamente corruttore e vuoto. Non ci sono neppure momenti di ammirazione estatica della natura. Quindi, nel film non c’è un’estetica dell’estasi, quell’estasi che fa venire nostalgia delle cose di una volta, estasi che piace tanto ai misoneisti, a quelli che pensano che nella natura e nel ritorno alla natura ci siano le soluzioni ai nostri problemi. Quindi, il film non è estatico, e tanto meno è statico: nella mente di quegli amanti della natura che la natura non la conoscono, l’estasi ‘poetica’ e il rimirare la natura presuppongono il fermarsi, lo stare immobili a guardare, pensando che in tale posizione, bloccandola nell’ammirazione, la natura si riveli e si mostri finalmente a noi nella sua essenza profonda, salvifica, rigenerante. Secondo questa visione del mondo, un film ‘poetico’ dev’essere estatico e statico, immobile. Il film di Frammartino non ha di questi vizi. Non è ‘poetico’, non è passatista e non è statico. Non è neppure pauperista. Non è panteista. Neanche sta a fare l’elogio della vita semplice. Non piagnucola sulla perdita del mondo di una volta dove si stava a contatto con la natura, con gli animali, con le piante, con tutto, con il tutto. È invece un film sulla presenza e sulla persistenza di alcune forze, queste sì naturali. Fisiche. È un film in qualche modo animista: ma solo se, per anima, si intende una forza fisica che sta dentro ogni cosa, bestie piante minerali e uomini compresi. La forza di gravità, per esempio. Nelle immagini in cui si vede da lontano il paese, si scorge bene il serbatoio dell’acqua che sta più in alto delle case. Tutte le cose scendono giù, sono attratte verso il basso, l’acqua come un camioncino. La gravità regola il mondo, costringe all’obbedienza tutti i regni in cui abbiamo diviso il mondo secondo un criterio fortemente antropocentrico. L’uomo in alto, poi scendendo: gli animali, le piante, i minerali inerti (ma non del tutto). Comoda divisione, tanto per sentirci in cima. La gravità rimette le cose alla pari: chi sta in alto non può che scivolare giù e, alla fine, ritrovarsi scomposto negli elementi comuni, nelle sue componenti elementari(...). Anche Le quattro volte è retto dalla forza di gravità e dall’entropia. Si scende, si passa da un mondo all’altro, quei mondi che si imparavano a scuola, umano animale vegetale minerale. Solo che il passaggio non è segnato da una qualche perdita, come verrebbe comodo pensare a noi uomini che ci siamo messi sullo scalino più alto. Il passaggio avviene senza perdita di bellezza, di valore, di presenza. Frammartino dispone i quattro regni su un tavolato, allo stesso livello. La storia del pastore trapassa in quella di un suo capretto, poi nell’altra di un altissimo albero e, punto di arrivo, in quella del carbone che, bruciato nella stufa, finisce in fumo. La differenza tra il punto d’inizio, l’uomo pastore, e il punto di arrivo, il fumo dal camino, non comporta dislivelli né cadute. Il percorso è tranquillamente pianeggiante, senza scossoni né sbalzi, né salti di qualità. Tra uomo e fumo il procedere è fluido e costante. Questo mondo, nei suoi quattro spazi, è segnato da un’unica, fortunata caratteristica, quella dell’esserci. L’esserci dell’uomo vale quanto l’esserci del carbone che prima era albero sotto cui andava ad avvolgersi il capretto che si era perduto. Per questo non c’è bisogno di ‘poesia’: perché basta la consapevolezza della condivisione dell’esistere. È l’esistere che fa essere presente il carbone così come il pastore. Le quattro volte si fonda su una semplice, dimenticata, constatazione: che lo stupore per l’esserci, per l’essere qui, vale tanto per il pastore quanto per le sue capre, quanto per l’albero che per il carbone. L’essere qui ci fa uguali. Non c’è neppure bisogno, nel film, di porsi la domanda, fatale!, sul perché ci sia qualcosa invece che il niente. Le immagini prendono atto, senza porsi quella domanda, che le cose ci sono, che il pastore è lì con loro. Le immagini partono da questa constatazione, non retrocedono all’indietro. Prendono come punto di partenza questo dato di fondo che diventa fondamento del discorso e cercano di vedere cosa fanno le persone e le cose, come funzionino le une e le altre, quali siano i movimenti che avvengono in questo universo dove tutto, come si sa, scorre (verso il basso). Si arriva allora a scoprire la meccanica dello scorrere. Che può essere del tutto casuale e involontaria, come nella perfetta dimostrazione, un teorema!, che ne viene data nella scena della processione del venerdì santo, del cane, del camioncino e delle capre. Scena in cui il divenire e l’abbassarsi delle cose avviene per pura forza di gravità con l’intervento iniziale del caso, colpo di pollice che dà il via e asseconda il cambiamento del mondo. La singolarità, come dicono gli astrofisici, il punto di partenza scatenante, è il cane che toglie il fermo alla ruota del camioncino mentre intorno ci sono le capre nel chiuso, gli uomini e le donne che si sono allontanati verso il Golgota e il pastore a letto, morente, cui vanno a far visita le sue bestie. È in questa specie di gag portentosa che si riassumono i movimenti del film, gag che può funzionare solo perché la gravità tira ogni cosa verso il basso. Ed è in questo lungo momento che la macchina da presa diventa, nel suo volgersi a guardare da una parte, poi dall’altra, per tornare indietro a guardare di nuovo, la testimone, anch’essa muta, dell’avviarsi e poi dello svolgersi obbligato di una storia. Film di scivolamenti verso il basso e di trasformazioni meccaniche, dunque. L’altissimo albero viene trascinato giù verso il paese per essere squadrato, innalzato di nuovo e riabbattuto, segato e venduto, con la legna impilata ad arte fino a farne una  carbonaia che sbuffa e brucia. Le capre fanno latte e formaggio, il pastore viene sostituito da un altro pastore, le capre figliano piccolini che, nell’ovile, giocano e litigano come bambini all’asilo (e sembrano attrici e attori provetti, dove si dimostra che non è necessario essere esseri umani per recitare bene la propria parte); persino la polvere raccolta in chiesa viene buona, magicamente, per curare i malanni (e quando il pastore esce la notte e bussa invano alla porta della chiesa, allora la malattia ha la meglio). Le quattro volte è pieno di storie. Anche in questo suo essere racconto, nel suo essere tanti racconti, non è un film vuotamente ‘poetico’. A ogni mondo, a ognuno dei quattro mondi che sono un unico mondo, viene regalato un racconto e ogni racconto trapassa in quello che viene dopo. Il vecchio pastore con la tosse viene accompagnato a morire attorniato dalle sue capre liberate dal camioncino che il cane ha rimesso in moto. Il capretto intraprendente non riesce a superare un piccolo fossato, si perde nel bosco, si accuccia sotto il grande albero con cui la gente fa festa, la festa della Pita, festa di primavera, di resurrezione e di conquista, festa che rimonta indietro nel tempo fino alle sue origini longobarde. Anche alla legna viene regalato il racconto di come i carbonai costruiscono magistralmente la carbonaia: e i tronchi accatastati coprono del tutto l’immagine fino a farla diventare oscura e nera, per uscire poi di nuovo alla luce, fino al fil di fumo conclusivo che, unico a riuscirci, sfida la gravità e si perde per l’aria. Il percorso entropico finisce qui, o meglio: dopo tutta la discesa verso il basso, di regno in regno, controllata dalla gravità, adesso quel che resta di tutte le trasformazioni se ne va via volando, inconsistente, verso altri posti, altre storie. Anche in questo, nel contenere ciascuno un racconto, i quattro regni sono messi uno accanto all’altro, alla pari. Non c’è gerarchia tra loro. Le narrazioni li uniscono, un filo li percorre, basta saperli osservare e ognuno racconta storie e storie. La festa della Pita si svolge in primavera, a fine aprile e inizio maggio, ad Alessandria del Carretto, provincia di Cosenza, ai margini del Parco del Pollino, sul versante ionico, sopra il mare di Trebisacce. Viene innalzato nella piazza un grande abete, dal tronco lisciato, con sulla cima un ciuffo di rami ai quali vengono appesi dei doni. Un tempo, sul tronco erano attaccate delle capre che venivano prese di mira dai colpi dei cacciatori e il sangue colava sulla gente. Questa barbara e pagana usanza è stata abbandonata.

BBruno Fornara, Cineforum, n. 495, giugno 2010

 

 

 

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