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Giovedì 13 ottobre 2011 – Scheda n. 1 (840)
We Want Sex
Titolo originale: Made in Dagenham.
Regia: Nigel Cole.
Sceneggiatura: William Ivory. Fotografia: John de Borman.
Montaggio: Michael Parker. Musica: David Arnold.
Interpreti: Sally Hawkins (Rota O'Grady), Bob Hoskins (Albert Passingham),
John Sessions (Harold Wilson).
Produzione: Number 9 Films, BBC. Distribuzione: Lucky Red.
Durata: 113’. Origine: Gran Bretagna, 2010.
Nigel Cole
Nato in Inghilterra nel 1959, Cole ha cominciato a lavorare in tv e in teatro negli anni Ottanta, dirigendo telefilm, serie e documentari. Il suo esordio nel cinema è con un piccolo film che ottiene un grande successo mondiale e un premio al Sundance Film Festival, L’erba di Grace, nel 2000. Poi è venuto Calendar Girls (2003), quindi il deludente trasferimento negli Usa per Sballati d’amore (2005) e $5 a Day (2008). Cole ritorna in Inghilterra e dirige questo We Want Sex (2010). Si noterà come il titolo - in inglese! - dell’edizione italiana c’entra con il film (si capirà come), ma non ha niente a che fare con il titolo originale, Made in Dagenham, che si riferisce invece al luogo dove è avvenuta la vicenda che ha ispirato il film.
Sentiamo Cole: «L’idea di girare We Want Sex viene da un programma di Radio 4 chiamato ‘The Reunion’. Veniva riunito un gruppo di persone coinvolte nel passato in qualcosa di speciale. A una puntata dello show parteciparono alcune donne coinvolte in uno sciopero avvenuto nel 1968 nello stabilimento della Ford a Dagenham. Lavoravano in condizioni tremende nella fabbrica. Ma, siccome rappresentavano solo una piccola percentuale della manodopera, la Ford ignorava le loro richieste. Così, le operaie decisero di combattere. Sono rimasto affascinato dalla storia, in particolare dalla loro innocenza e dal loro scarso senso della politica: il solo obiettivo che si ponevano era il raggiungimento di un accordo civile. Si trattava più di buonsenso che di strategia politica... Sono nato nella zona di Dagenham proprio nel periodo dello sciopero, conoscevo bene il tipo di persone che avremmo raccontato. Quando mi hanno chiesto di dirigere il film ho capito subito che si trattava del mio genere di storia. Contiene quel giusto mix di humour, commedia e dramma che ho sempre cercato. Io non faccio commedie pure perché mi piace aggiungere contenuti forti ai miei film. Ma neppure mi oriento sul dramma: mi piace mescolarlo col calore della commedia. Per questo sono più interessato alle storie di donne che a quelle di uomini.. L’idea di fondo è quella di un gruppo di donne qualunque che intraprendono qualcosa di straordinario, più grande di loro. Crescono e imparano a gestire gli eventi che trascendono la quotidianità... La fabbrica è la spina dorsale del film. Quel tipo di edifici, a Dagenham, è scomparso, però abbiamo trovato una vecchia fabbrica della Hoover, in Galles: abbandonata, quindi perfetta per le riprese. L’effetto di questa chiusura sulla comunità locale è simile a quello mostrato nel film. Migliaia di operai sono rimasti senza lavoro, rafforzando in noi la convinzione che la storia di We Want Sex dovesse essere raccontata. Filmare nella fabbrica è stato utile perché ha fatto capire a tutta la troupe cosa significasse lavorare in ambienti del genere. Abbiamo tentato di ingaggiare quante più comparse locali possibili e ci sono almeno 50 operaie del luogo che figurano tra le scioperanti del film. Le abbiamo anche portate a Londra per le scene a Westminster: si sono divertite molto...».
La critica
We want sex equality, vogliamo la parità dei sessi, diventa, nella commedia operaia di Nigel Cole semplicemente We want sex, quando uno striscione rimane in parte arrotolato e l’effetto, se si vuole ammiccante, fa divertire i passanti. Uno spunto un po’ da macchietta, come tutta la storia raccontata da questo film inglese contemporaneamente commerciale e proletario. Ma, per carità, va bene così e se questo porterà più gente al cinema, dunque ad appassionarsi alla vicenda delle 187 di Dagenham, ben venga anche il doppio e il triplo senso. Del resto il regista è uno specialista del settore, già autore di discreti successi come L’erba di Grace e Calendar girls. Siamo nel 1968 ma nello stabilimento Ford si respira un’atmosfera tutt’altro che swinging. Il sessismo impera, come in tutto il mondo industriale. Le donne, a parità d’impiego, guadagnano meno e lavorano in condizioni peggiori, relegate in capannone umido e fatiscente a cucire i sedili delle auto, in reggiseno e vestaglietta per contrastare il caldo. In più le hanno appena degradate a operaie non specializzate, con ulteriore taglio dei compensi. All’inizio timidamente, sobillate dal sindacalista Bob Hoskins, allevato da una madre single che gli ha trasmesso un gran rispetto del quotidiano eroismo femminile, poi sempre più convinte, anche grazie all’impegno della mingherlina ma tenace Rita O’Grady, un’operaia che si improvvisò sindacalista dando filo da torcere a tutti, padroni e boss dei sindacati. Le 187 lavoratrici decisero uno sciopero a oltranza che finì per fermare l’intera produzione britannica di auto Ford (senza sedili, niente prodotto finito) e lasciare anche i mariti a casa senza stipendio. Una lotta pionieristica che arrivò fino al governo, con la deputata Barbara Castle (Miranda Richardson), detta la rossa sia per il colore dei capelli che per le tendenze politiche, che in qualità di ministro dell’occupazione si oppose al premier, Harold Wilson, laburista ma pur sempre maschio, e finì per ottenere una legge sulla parità salariale poi varata nel 1970. Del resto, il film mostra con dovizia di situazioni e dettagli umani quanto gli atteggiamenti patriarcali siano duri a morire, anche tra gli uomini più progressisti e politicizzati. Così il marito di Rita, quando la moglie smette di occuparsi dell’economia domestica per stare sulle barricate, non reagisce certo bene, anzi quasi la lascia. Ma Rita è comunque più fortunata di Lisa, la moglie del dirigente Ford che, nonostante la sua laurea in storia moderna e le sue opinioni intelligenti e informate, viene interpellata solo per portare in tavola il formaggio. Non perdetevi i titoli di coda, con le immagini delle vere operaie, oggi piuttosto avanti negli anni: viene voglia di un bel documentario sullo stesso argomento.
Marcella Perugini, Vivilcinema, giugno 2010
Dagenham, stabilimento della Ford, 1968. All’entrata della fabbrica sfilano in parata una dopo l’altra diverse donne: colori, rumore, risa, strizzate d’occhio, allegri sfottò. Nello stanzone fatiscente dove inizia il turno di lavoro vediamo queste fanciulle liberarsi del giogo dei vestiti e mostrare ognuna il proprio gusto in fatto di biancheria intima, e di stile. C’è la botticelliana che mostra le sue grazie con fierezza e disinvoltura, quella che viene al lavoro con l’acconciatura intatta, la biondina sensuale con modi da pin up, quella più matura e composta che le altre guardano con rispetto. E c’è lei, Rita O’Grady, minuta, vestita in modo semplice, occhietti vispi che non smettono di muoversi, alla ricerca di chissà che cosa. L’inizio di We want sex (Made in Dagenham, nell’originale, ma così, riprendendo un misunderstanding all’interno della trama, è senz’altro più ammiccante) sembra l’entrata in scena di una commedia teatrale, con scalinata trionfale inclusa percorsa a ruota da tutte le interpreti. Abbiamo appena il tempo di renderci conto dove ci troviamo, in che epoca siamo, di cosa stiamo parlando che un sindacalista impacciato (Bob Hoskins), con occhiali spessi, inizia ad arringare la folla: questa volta non si scherza, si sciopera e basta. Grida di gioia, stupore, eccitazione (...).
Elisa Baldini, Cineforum, n. 500, dicembre 2010
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