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Hereafter - Scheda del film

 

 

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 10 novembre 2011 – Scheda n. 5 (844)

 

 

 

 

 

Hereafter

 

 

Titolo originale: Hereafter

 

Regia e musica: Clint Eastwood

 

Sceneggiatura: Peter Morgan. Fotografia: Tom Stern.

Montaggio: Joel Cox, Gary D. Roach.

 

Interpreti: Matt Damon (George Lonegan), Cécile de France (Marie Lelay),

 Frankie McLaren (Marcus), George McLaren (Jason),

Thierry Neuvic (Didier), Jay Mohr (Billy),

Bryce Dallas Howard (Melanie), Marthe Keller (la dottoressa Rousseau).

 

Produzione: Malpaso Productions. Distribuzione: Warner Bros.

Durata: 129’. Origine: Usa, 2010.

 

 

 

Clint Eastwood

 

Nato nel 1930 a San Francisco, figlio di un operaio dell’acciaio e di una casalinga. Studia economia. Si arruola come soldato, poi fa il boscaiolo, il guardiano notturno, il bagnino, il camionista, l’impiegato, il pianista e il trombettista jazz. Provino per la Universal nel 1954, contratto da 75 dollari a settimana per b-movie horror come La vendetta del mostro e Tarantola di un maestro del genere, Jack Arnold, si ritrova protagonista del telefilm Rawhide (1958-59), infine lo scoprono Sergio Leone e Donald Siegel: così Clint Eastwood diventa Clint Eastwood. Fonda subito la sua casa di produzione, la Malpaso, con la quale farà tutti i suoi film a cominciare, nel 1971, dal primo corto, The Beguiled: The Storyteller, e dal primo lungo, Brivido nella notte. Diventa, film dopo film, il continuatore della tradizione narrativa e stilistica del cinema classico americano. Non si contano i suoi grandi film (al Cineforum ne abbiamo visti tanti). Ne citiamo alcuni: Lo straniero senza nome (1973), Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976), Honkytonk Man (1982), Bird (1988), Gli spietati (1992), Un mondo perfetto (1993), I ponti di Madison County (1995), Potere assoluto (1997), Mystic River (2003), Million Dollar Baby (2004), Flags of Our Fathers (2006), Lettere da Iwo Jima (2006), Changeling (2008), Gran Torino (2008) e questo Hereafter (2010). Eastwood ha già terminato un altro film, J. Edgar, sulla vita di J. Edgar Hoover, per molti anni capo (molto chiacchierato...) dell’FBI.

 

La critica

 

L’aldilà: questo significa la parola hereafter. Ovvero quello che c’è (se c’è) after here, dopo qui. Ma here e after, in sequenza, dicono il contrario, indicano prima il qui e poi il dopo: e va detto subito che Eastwood è molto più interessato al qui che non al dopo. Perché è di questo, della vita e non del dopo vita, che parla il suo ennesimo grande film. Tante vite, spezzate da uno tsunami o da un attentato nel metrò. E tante altre vite, quelle dei sopravvissuti, di chi è stato travolto e risputato fuori dalla valanga d’acqua, di chi non è salito, per via di un cappellino, su quel vagone del metrò, di chi si ritrova a vivere da solo dopo aver perduto una persona cara, un fratello gemello, una moglie o un padre (violento). Di chi continua faticosamente a vivere con sul cuore il ricordo e il peso di una persona che se n’è andata. Le vite dei sopravvissuti sono al centro di Hereafter. L’aldilà dei morti c’entra poco: è visto in maniera confusa e soffusa, con ombre inafferrabili e vaganti, sommerse da una luce troppo bianca come in un’Ade accecante, forse pacificato ma individuale, dove ogni ombra non ha rapporti con le altre. L’aldilà che i quasimorti intravedono e che appare come in un lampo a George quando stringe o anche soltanto sfiora le mani di una persona, questo aldilà così incerto, uguale ed eterno (monotono per l’eternità?), non sta al centro del film. Al centro, c’è il dolore per la perdita di qualcuno che si amava, o anche l’impossibilità di dimenticare chi, quand’era in vita, ti ha ferito nel profondo. Si intrecciano esistenze in Hereafter. Marie, conduttrice televisiva francese, viene sommersa dal mare che si abbatte sulla riva, si avvicina alla soglia di quell’aldilà luminoso e triste, ricomincia a respirare, torna a vivere qui. Due ragazzini gemelli vivono in simbiosi, amano e aiutano la loro madre squinternata e quando uno dei due, Jason, se ne va, l’altro, Marcus, resta silenzioso e chiuso in se stesso, però coraggioso e pronto a tutto pur di ‘ritrovare’ il fratello. Ci sono anche un greco che ha perso la moglie e Melanie, incontrata a un corso di cucina italiana (grandi elogi al barbaresco...), che scompare quando George risveglia dal passato di lei un orribile trauma nascosto. Perché questa è la maledizione di George (e questo è il cuore del film): non tanto l’entrare in contatto con il futuro dei morti, quanto piuttosto il ‘vedere’ il loro passato. Vedervi anche ciò che è inconfessabile. Non è l’aldilà che interessa a Eastwood, quanto ciò che del passato pesa sui personaggi e non permette loro di vivere. George vuole guarire dalla sua maledizione, non vuole più ‘vedere’. Eastwood, umanissimo narratore, glielo concede. Potrà stringere una mano senza venir proiettato dentro le storie di un passato opprimente. Quando George comincerà a voler bene a qualcuno, allora potrà vivere, in pace e qui, una sua storia. Hereafter è un invito a vivere dentro l’adesso, dentro ciò che succede in questo tempo, nel mondo che è il nostro. Nel film, c’è un filo rosso che unisce i molti momenti in cui ci si rifà a Charles Dickens. Prima di addormentarsi, George si lascia cullare da una voce che legge Dickens, poi va in pellegrinaggio alla casa del grande narratore, quindi incontra alla fiera del libro il signore la cui voce gli ha letto Dickens ogni sera. Lì, tra i libri, le storie di George, Marie e Marcus si intrecciano in un finale dickensiano in cui si racconta che per vivere la nostra storia è necessario far scivolare via il dolore dalle spalle, togliersi di testa un cappellino, baciarsi, lasciare i morti nella loro luce accecante e vivere noi nella nostra quieta luce di ogni giorno. È come se Eastwood dicesse, con uno di quei suoi film così semplici, scorrevoli, attraenti e dolcemente umani anche quando parlano di dolore e di morte, che l’importante è vivere di qua e non guardare oltre, ricordare chi ci ha lasciato senza restare aggrappati a lui, senza volerlo trattenere. Avere, ancora e sempre, una storia da vivere, è questo che ci fa vivere davvero. Solo in questa esistenza viviamo delle storie. Nella troppa luce di un aldilà immobile non ci saranno più storie. Eastwood fa qualcosa di più: fa dell’ironia. Ci dice che molte storie possiamo viverle nei libri; aggiunge che ci sono narratori e scrittori che le storie le sanno raccontare; suggerisce che ci sono altri narratori cui manca questo dono. Dickens è lo scrittore consigliato apertamente. Anche il nome di Rousseau compare nel film: così si chiama una dottoressa che sa ascoltare le storie di chi non ha ancora abbandonato la vita, dottoressa che vive immersa nella natura tra le montagne (forse quelle stesse svizzere di Jean-Jacques). Eastwood aggiunge un terzo nome a questo gioco letterario che si nasconde tra le pieghe del film, quello di Joyce, attribuendolo a una sensitiva fasulla e imbrogliona. Domanda: non è che il classicissimo narratore Clint Eastwood e il suo ottimo sceneggiatore Peter Morgan (The Queen, Frost/Nixon, I due presidenti) hanno voluto dirci che una buona storia alla Dickens e un sereno atteggiamento alla Rousseau sono guide e medicine sagge e utili per vivere qui e adesso (aggiungendo anche, sottovoce, che Dickens funziona meglio di Joyce)?

BBruno Fornara, Film.doc, n. 91, gennaio – febbraio 2011

 

Come Invictus, Hereafter manifesta l’intenzione di Eastwood di fare i conti con la storia recente. Lo tsunami che ha devastato il Sud Est asiatico alla fine del 2004 e gli attentati terroristi a Londra nel luglio 2005 non sono il centro del film, ma non sono nemmeno un pretesto: attraversano la vita dei personaggi, e in varia misura la cambiano. Sono lo sfondo su cui Eastwood imposta un discorso che, come dice eloquentemente il titolo inglese (non così immediatamente decodificabile per lo spettatore italiano), si riferisce all’aldilà. La strategia della sceneggiatura di Peter Morgan è chiara: partire dalle tragedie contemporanee, che siano causate dalla natura o dall’uomo, per riflettere su ciò che ci aspetta dopo la morte. Analogamente all’italiano “al di là”, l’inglese “hereafter” nasce come avverbio prima di diventare nome. E come avverbio, non ha un significato metafisico: significa solo “da qui in poi”. Il concetto è ancora più laico che in italiano, dove l’espressione “al di là”, prima di diventare un sostantivo, allude comunque a un superamento, a qualcosa di ulteriore. “Hereafter”, invece, “da qui in poi”, o “d’ora in poi”, è qualcosa di molto più prosaico. In effetti, nel film, lo stesso medium George, che comunica da anni con i defunti, dice di non saperne molto su ciò che effettivamente ci aspetta “dopo”. C’è un dopo, ma cosa lo riempia non si sa. Malgrado ciò, il rischio di una deriva new age, usiamo pure questo termine sintomo di obbrobrio, era certo possibile, nel momento in cui le tragedie contingenti della Storia fossero state messe nella prospettiva dell’eternità che tutto relativizza. Merito dello sceneggiatore Peter Morgan, di Eastwood o di entrambi, ciò nel film non avviene. Il rapporto tra “aldiquà” e “dopo”, se non altro, è sempre filtrato da una prospettiva strettamente individuale e individualista, mai trascendente. Qui si vede molto bene (come si vedeva in Invictus) la mentalità americana, che esalta l’eccezionalità del singolo che emerge dalla Storia. Ma questa scelta di umanesimo radicale, antistorico e a-sociale, trae valore etico nel fatto che del singolo Eastwood sottolinea la fragilità e la finitezza. Il singolo (che è anche solitario: George da tempo è solo, Marie e Marcus lo diventano), posto sul crinale tra la Storia e “ciò che c’è dopo”, rivela la sua vulnerabilità, la sua mancanza di difese. Hereafter, più che un film su ciò che è designato dal titolo, è un film sul dolore, sulla finitezza. In questo senso è coerente e necessario nell’evoluzione del cinema di Eastwood, e aggiunge anche qualcosa di bello e di toccante ai suoi ultimi film che, come Gran Torino (id., 2008), sembrano vette oltre le quali è difficile immaginare un seguito (...).

AAlberto Pezzotta, Cineforum, n. 501, gennaio – febbraio 2011

 

 

 

 

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