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Scheda pdf (198 KB)
Corpo celeste - Scheda del film

 

 

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 24 novembre 2011 – Scheda n. 7 (846)

 

 

 

 

Corpo celeste

 

 

 

Regia e sceneggiatura: Alice Rohrwacher.

 

Fotografia: Hélène Louvart. Montaggio: Marco Spoletini.

Musica: Piero Crucitti.

 

Interpreti: Yile Vianello (Marta), Salvatore Cantalupo (don Mario),

Pasqualina Scuncia (Santa), Anita Caprioli (Rita),

Renato Carpentieri (don Lorenzo), Paola Lavini (Fortunata).

 

Produzione: Tempesta. Distribuzione: Cinecittà Luce.

Durata: 98’. Origine: Italia, 2011.

 

 

 

Alice Rohrwacher

 

Sorella dell’attrice Alba, protagonista di molti film italiani degli ultimi anni, Alice Rohrwacher è nata trent’anni fa a Fiesole, ha studiato lettere a Torino, poi ha seguito un master di cinema a Lisbona e un altro alla Scuola Holden di Torino. Comincia a girare documentari, Un piccolo spettacolo insieme a Paolo Giarolo, poi Vila Morena a Lisbona, partecipa nel 2006 al film collettivo Checosamanca. Fa la montatrice per altri registi di documentari. Il primo film a soggetto è questo Corpo celeste, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs, al Festival di Cannes 2011. Ecco qualche sua dichiarazione: «La scrittura di Corpo celeste è nata dall’incontro con Carlo Cresto-Dina, che ha prodotto il film. In quel periodo mi stavo occupando di documentari e montaggio, ero piena di domande sulla realtà e sulla visione ma non avevo mai pensato di scrivere un film. Carlo inaspettatamente mi chiamò, mi disse che era appena nata la sua casa di produzione Tempesta e mi chiese se avevo voglia di scrivere (non disse esplicitamente “scrivere una sceneggiatura”, forse per non spaventarmi). Decidemmo di non lavorare su un progetto già esistente o su una storia chiusa, ma di partire da un mondo, un contesto che secondo noi andavano indagati, e dopo diversi incontri e confronti io scelsi quello che forse meno mi riguardava ma più risvegliava la mia attenzione: la chiesa. Spalancai subito gli occhi, come avrei fatto per un documentario: ero a Reggio Calabria in quel periodo, quindi iniziai da lì, desiderosa di entrare dalla finestra più piccola e vicina alla vita di tutti i giorni, quella delle attività di parrocchia e del catechismo. Lezioni, riunioni, manuali come “Saranno Testimoni” e “Katekismo 2000”, quiz e giochi di socializzazione attraverso chiese così grandi e vuote che parevano palazzetti in cui correre. Iniziai a mettermi dei limiti, come regole di un gioco. I limiti erano quelli di un luogo, Reggio Calabria. Quelli di un tempo, contemporaneo. Quello di un mondo, la vita di una chiesa alla periferia d’Italia. Ma mi chiedevo quale fosse il mio posto? Ero dentro quel mondo o non lo sarei mai stata? Aveva senso fingere un’appartenenza oppure dovevo dichiarare il mio stupore, la mia estraneità? Poi un giorno arrivò una delle prime vere emozioni visive del film, proprio dalla lettura di Corpo Celeste di Anna Maria Ortese, anche se la storia di Marta non ha direttamente nulla a che fare con il suo libro. Nelle prime pagine del libro l’Ortese descrive il meraviglioso spaesamento dello scoprirsi abitanti di un corpo sospeso nello spazio, del tutto simile come incanto a quelle luci lontane che si vedono in cielo. Quelle parole all’improvviso mi sembrarono un segno e così comparve Marta: una creatura terrestre, un’adolescente che cammina attraverso una città sconosciuta, una ragazzina che deve cercare la sua via attraverso il mondo più che quella al di là del mondo. Da questa impressione è nata la storia di Marta come una piccola canzone... Marta è appena tornata a vivere in un luogo che non conosce, ma a cui in qualche modo appartiene: è la città di sua madre, Reggio Calabria, dove anche lei è nata. Il ritorno al Sud è un fenomeno molto comune ultimamente, tanto che si può parlare di una sorta di “emigrazione di ritorno”: abbandonate le prospettive di una vita migliore a nord, dove le fabbriche chiudono e il lavoro sparisce, molte famiglie hanno preferito rientrare alla terra d’origine, dove almeno possono essere aiutate e sostenute da parenti e amici. Ma a riceverla Marta non trova quei colori e quell’affetto comunitario che popolano i ricordi familiari, quanto piuttosto un’immensa periferia dove il senso di abbandono e solitudine sembrano amplificarsi. Palazzi in costruzione che si ripetono all’infinito e il mare, in fondo, una linea celeste e quasi irraggiungibile. Marta osserva tutto: è per me una piccola principessa senza regno, né piccola né grande, in bilico con i suoi passi storti e la sua voce scura in un corpo fragilissimo. Sotto casa di Marta c’è il letto di un fiume che a lei sembra come una cicatrice nel ventre della città: è lì che tutte le persone buttano le cose che non servono più per poterne avere altre. Sono molte le “fiumare” che tagliano la città, questi spazi larghi e quasi sempre asciutti che si spalancano all’improvviso tra le case. A guardarle bene quelle terre di nessuno appaiono piene di vita: spazzatura, resti di cose, ma anche giardini, orti segreti, baracche. È un posto in cui la natura si manifesta nella sua forza e nella sua contraddizione. Nella fiumara giocano dei bambini, lontanissimi, sono quasi dei punti all’orizzonte. Eppure le loro azioni microscopiche la affascinano più di quelle che dominano il suo primo piano quotidiano. Abitano un luogo magnetico e in continua trasformazione. Un luogo possibile per una come Marta».

 

La critica

 

A Cannes non c'erano solo i film di Moretti e Sorrentino. All’interno di una Quinzaine des Réalisateurs quest’anno meno stimolante del solito, c’era anche il film d’esordio di Alice Rohrwacher, sorella minore dell’attrice Alba: si intitola Corpo celeste ed è, a memoria non solo mia, il più bell’esordio cinematografico di una regista italiana. Racconta il contrastato ritorno di una tredicenne a Reggio Calabria insieme alla madre, dopo dieci anni e più passati da emigrante in Svizzera. Un ritorno subìto più che voluto (e già questa è una novità per il nostro cinema: il tema degli emigranti di ritorno, e delle emigranti donne, sempre più numerose per la crisi) che qui si trasforma in meccanismo narrativo. Lo sguardo ‘innocente’ di una ragazza costringe lo spettatore a osservare con occhi diversi quello a cui forse non faremmo molto caso: le ritualità collettive, il corrompimento messo in atto dalla modernizzazione (televisiva e non solo), l’intreccio tra ‘sacro’ e ‘profano’, tra ‘alto’ e ‘basso’. Alice Rohrwacher usa così gli occhi dell’adolescente Marta (Yile Vianello) come gli strumenti per una ‘spontanea’ indagine antropologica, non ancora soffocata da certezze o teorie preconcette. Guarda con sorpresa ma anche con amore e soprattutto innocenza chi dovrebbe diventare la sua nuova ‘famiglia’, il suo nuovo ‘gruppo’, a cominciare da quello dei cresimandi a cui Marta viene iscritta ‘perché è il modo migliore per farsi nuove amiche’. E proprio per conservare integra la forza di questo sguardo non ci viene detto niente di davvero concreto sulle ragioni del suo ritorno a Reggio, non ci spiegano i legami con la comunità, le necessità economiche (la madre lavora in un panificio), persino le coordinate geografiche restano vaghe (è Reggio ma potrebbe essere ovunque nel Sud). Dobbiamo limitarci a immaginare. Quello che interessa alla regista e al film è il modo in cui le persone interagiscono tra di loro, si pongono rispetto ai fatti concreti della vita quotidiana: la parrocchia più che la Chiesa, il catechismo più che la Religione, il voto più che la Politica. È qui, sulle cose di tutti i giorni, che si posa lo sguardo di Marta e con lei quello dello spettatore, alla scoperta di una mutazione che dall’interno non saremmo probabilmente capaci di osservare ma che agli occhi di un ‘alieno’ (come in effetti è Marta) appare chiara e incontrovertibile. Nessuno altrimenti si scandalizzerebbe del fatto che la preparazione alla cresima avvenga per quiz multiple choice, che il ‘ballo delle vergini’ (per accogliere il vescovo) scimmiotti quello di qualsiasi siparietto televisivo, che la fede dei catecumeni si possa esprimere cantando ‘Mi sintonizzo con Dio / è la frequenza giusta / mi sintonizzo proprio io / e lo faccio apposta’ oppure che don Mario sia più preoccupato di assicurare l’adesione dei parrocchiani al candidato della Curia (ci sono in vista delle elezioni regionali) che di verificare la religiosità dei ragazzi... Corpo celeste (che nel titolo cita un libro di Anna Maria Ortese, ma per affinità di sentire, non per qualche tipo di ispirazione narrativa) diventa così il ritratto di una piccola comunità umana e dei suoi mutamenti antropologici e culturali, raccontati più per contrasti che per accadimenti romanzeschi. La parrocchia e le lezioni di religione con la loro fasulla modernità si contrappongono al degrado delle periferie che Marta osserva dal terrazzo di casa; il calore e la concretezza materna (affidati a Anita Caprioli) risaltano ancora di più di fronte alla scoperta fragilità dell’insegnante e perpetua Santa (l’attrice dilettante Pasqualina Scuncia, un’autentica rivelazione); la religione come carriera e professione di don Mario (Salvatore Cantalupo) finiscono inevitabilmente per entrare in conflitto con la spiritualità ruvida ma sincera di don Lorenzo (Renato Carpentieri). Così che alla fine il percorso di Marta non può essere che quello di un progressivo ‘allontanamento’, verso un mondo meno contaminato anche se più sporco e povero (la fiumara e i ragazzi che vi giocano è citazione diretta del precedente lavoro della regista, il corto che faceva parte di Checosamanca) ma anche di un avvicinamento istintivo e urgente verso una spiritualità vissuta e non imposta (l’attraversamento finale della pozza d’acqua sembra rimandare al battesimo nel Giordano degli apostoli). Un percorso che la Rohrwacher filma con un pudore pari alla maturità dello stile, con una macchina da presa molto mobile ma mai gratuitamente ondivaga e che scegliendo con istinto sicuro quello che è veramente importante da inquadrare obbliga lo spettatore a prendere una posizione di fronte alle cose. Come fanno gli occhi di Marta e come dovrebbe fare sempre il cinema.

PPaolo Mereghetti, Corriere della Sera, 26 maggio 2011

 

 

 

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