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Giovedì 1 dicembre 2011 – Scheda n. 8 (847)
American Life
Titolo originale: Away We Go.
Regia: Sam Mendes.
Sceneggiatura: Vendela Vida, Dave Eggers. Fotografia: Ellen Kuras.
Montaggio: Sarah Flack. Musica: Alexi Murdoch.
Interpreti: John Krasinski (Burt Farlander), Maya Rudolph (Verona De Tessant),
Carmen Ejogo (Grace De Tessant), Catherine O’Hara (Gloria Farlander),
Jeff Daniels (Jerry Farlander), Allison Janney (Lily),
Jim Gaffigan (Lowell), Samantha Pryor (Ashley).
Produzione: Big Beach Films. Distribuzione: Bim.
Durata: 98’. Origine: Usa, 2009.
Sam Mendes
Samuel Alexander Mendes è nato in Inghilterra, a Reading, nel 1965. Lavora come regista teatrale poi passa al cinema quando si trasferisce negli Usa. Esordisce col botto: American Beauty (2000) trionfa al botteghino, viene acclamato dai critici, Mendes vince l’Oscar come miglior regista, più altri quattro Oscar al film. Nel 2002 dirige Era mio padre, che riceve 6 nomination e vince un Oscar. Nel 2005 arriva Jarhead, film ambientato durante la Guerra del Golfo del 1991, seguito nel 2008 da Revolutionary Road, visto al Cineforum, con Leonardo DiCaprio e Kate Winslet. Infine, ecco Away we go, presentato in Italia come American Life. Notare che la sceneggiatura del film è stata scritta dal romanziere Dave Eggers (con Vendela Vida, sua moglie, scrittrice anche lei).
Mendes, a proposito del suo film: «Una delle cose che ho amato della sceneggiatura è che i protagonisti parlano in una lingua segreta tutta loro. Sono due individui che gli sceneggiatori trattano come una singola unità. Non scelgo di proposito dei temi costanti nei miei film, ma in effetti, se ci pensate, Kevin Spacey in American Beauty, Jake Gyllenhaal in Jarhead, o le coppie di Revolutionary Road e American Life sono tutte persone che si mettono in viaggio verso una speranza di vita migliore, o più vicina a ciò che vogliono veramente. Sia in Revolutionary Road che in American Life le coppie cercano una via di fuga, che può finire in commedia o in tragedia. La cosa strana è che io, personalmente, non credo che siamo tutti condannati a livello di relazioni amorose. Questo film è stato un grande sfogo, dopo il tragico Revolutionary Road. Volevo lavorare su un materiale più flessibile, più divertente e che mi consentisse di improvvisare di più. Mi ha aiutato lavorare con un attore come John Krasinski e un’attrice come Maya Rudolph, entrambi esperti di ruoli eccentrici e al limite della caricatura... Sentivo l’esigenza di girare un film lasciandomi guidare dallo sceneggiatore. Il copione di Dave Eggers e Vendela Vida era fantastico, e aveva il pregio di conservare una sua leggerezza pur affrontando temi seri e delicati. Leggendolo, ho anche riso parecchio. Nella loro sceneggiatura, Dave and Vendela hanno raccontato che cosa succede a una coppia che sta per entrare in una nuova fase della sua vita, con tutte le speranze le paure e l’eccitazione dell’arrivo di un figlio. Come genitore, mi ci sono riconosciuto... Arrivavo sul set senza troppe idee prestabilite. Volevo che fossero l’atmosfera, le condizioni climatiche e le caratteristiche della location a determinare l’andamento della scena. Quindi, cercavo di non dare troppe indicazioni preliminari. Per la musica, avevo deciso di affidare la colonna musicale a un cantautore. Prima di iniziare le riprese ho scoperto Alexi Murdoch e sapevo che avrei usato diversi pezzi del suo album. Ma alla fine lui stesso ha contribuito alla realizzazione di tutta la colonna sonora, scrivendo anche alcune nuove canzoni per il film. Ci siamo ispirati a film come Harold e Maude e Magnolia, che hanno avuto colonne sonore composte da cantautori. In fase di montaggio, abbiamo poi scoperto che le scene venivano montate un po’ diversamente dal previsto, per seguire la musica. La musica ha dato un nuovo ritmo al film.»
La critica
Va in fuga da se stesso il cinema di Sam Mendes. Lo fa mantenendo in uno stadio di perenne fragilità la dimensione teatrale (l’uso degli interni e i dialoghi) che ha spesso caratterizzato la sua opera, la quale però, in precedenza, si arricchiva poi di una claustrofobia opprimente che lasciava i suoi personaggi a galleggiare nel vuoto, come nel caso della famiglia di American Beauty o dell’infelice coppia di Revolutionary Road. Rispetto a quest’ultimo film, Parigi non è più una meta irraggiungibile. Ma se al posto della coppia formata da April e Frank Wheeler (con la simbiosi tra Kate Winslet e Leonardo Di Caprio ai massimi livelli) ci fossero stati Burt e Verona, forse la metropoli francese sarebbe stata solo attraversata, raggiunta e poi oltrepassata. Non c’è più la ricerca di quell’equilibrio tra stabilità e felicità poi inghiottita e negata dalla monotona quotidianità. Forse in American Life – anche se l’originale Away We Go rende in maniera più compiuta l’idea di un nervoso movimento – si possono ritrovare tracce di un certo nomadismo del cinema degli anni Settanta, mescolate però con le ansie e le difficoltà del presente. A un primo impatto, il film di Mendes potrebbe essere una specie di ritratto generazionale, l’analisi di una coppia che ha superato i trent’anni ed è in attesa di una figlia. Sono, però, come disorientati, quasi spaventati dal futuro, da ciò che li attende. Vanno così alla ricerca di quelle sicurezze, di quei riferimenti che credono stabili e, invece, si frantumano davanti ai loro occhi. Per certi aspetti, lo spirito da cinema indipendente sconfina in quelle inquietudini da cinema da camera tipo John and Mary di Peter Yates, ma anche nell’energia improvvisa e amara dell’opera di Rob Reiner, tra Harry ti presento Sally e Storia di noi due. Non si tratta ovviamente, per Mendes, di punti di riferimento, ma soltanto di altri attraversamenti, anche fugaci, anche confusi, forse alla ricerca di un approdo nuovo, di un cinema che mai come stavolta stravolge e rimette in gioco se stesso. American Life riparte dallo spazio domestico di American Beauty e Revolutionary Road. L’inquadratura fissa, prima dei titoli di testa, con la scena di sesso già trasmette un senso di disagio e impedimento. Non è, però, l’immagine di una coppia in crisi. Mendes, già in questo inizio, riesce in maniera esemplare a mostrare proprio alcuni momenti della vita di Burt e Verona come flash istantanei, senza soffermarcisi più del dovuto, ma anche senza oltrepassarli fugacemente. Il film li guida in questo viaggio alla ricerca di se stessi; e, seppur in uno spirito indie, da film indipendente, non appare comunque mai pesantemente esistenzialista, ma piuttosto mostra le strade che la coppia percorre alla ricerca della (loro) felicità. «Non siamo un fallimento», dice a un certo punto il ragazzo alla sua compagna. Già qui mettono in luce molto più i dubbi che le certezze, molto più l’immagine piena di sfumature di una coppia piuttosto che l’analisi di una generazione. Burt e Verona sono una coppia come tante altre, ma sono pure unici, e il loro entusiasmo nella ricerca di una propria strada contagia e porta a essere vicini, anzi accanto a loro. Ci sono esperienze comuni (l’ecografia), momenti apparentemente normali dove invece s’insidia la tensione (Verona che scende dall’auto mentre Burt urla al telefonino), ma anche istanti di complicità assoluta. Separate, poi, ci sono forse visioni future della vita che desiderano, come quella rappresentata dal momento in cui, in un negozio, Verona e la sorella entrano in una vasca da bagno e lei finge di lavarle i capelli: che in qualche modo ne riproduce uno simile – di un futuro desiderato e poi negato – presente nella bella commedia (500) giorni insieme di Marc Webb. Malgrado le apparenze, Sam Mendes è un regista che agisce sempre sottotraccia. Suo malgrado, i suoi film sono più sconvolgenti ed esplosivi di quello che appaiono inizialmente, proprio per quanta vita condensata c’è dentro. Certo, i tempi delle battute hanno un’importanza fondamentale, e anche la sceneggiatura scritta da Dave Eggers (che ha già collaborato con Spike Jonze in Nel paese delle creature selvagge) e Vendela Vida contribuisce in modo determinante a creare la struttura drammaturgica. Nel caso di American Life è costruita con estrema precisione ma dà anche l’idea dell’improvvisazione e di continui “venti di libertà”, come se le situazioni si fossero create spontaneamente proprio nell’atto stesso in cui hanno preso forma. (...) È trascinante American Life. L’impianto narrativo del cinema di Mendes si ribalta con dialoghi e situazioni degni di una commedia della Hollywood classica. Ma dietro c’è anche uno stravolgente ritratto di una solitudine. Burt e Verona appaiono isolati da tutto e da tutti. Sono quasi degli estranei rispetto alle situazioni che si trovano a vivere, con l’uomo che mostra i suoi tentativi impossibili di adeguarsi e integrarsi al contesto del momento, dove il disagio è espresso alla perfezione dal volto del protagonista John Krasinski. Con la sua partner, interpretata da Maya Rudolph, si avverte spesso una leggera ma comunque evidente distanza, un qualcosa che li pone in uno stato di dislivello. Poi, però, la loro complicità scatta all’improvviso, come nell’irresistibile momento della “ribellione del passeggino” o in quelle vibranti promesse nella notte. Se in Revolutionary Road si assiste al lento deteriorarsi nel rapporto dei due protagonisti, qui invece c’è un progressivo avvicinamento. In ogni caso, Mendes non mostra solo i disagi, i disequilibri della coppia, ma sembra vivere e farci vivere accanto a loro. Si sentono insieme l’entusiasmo e la paura dell’arrivo del bambino. Si è trascinati dentro questo rapporto: del resto il suo cinema ingloba spesso dentro le sue famiglie come era avvenuto anche con Era mio padre. In American Life lo fa con meravigliosa leggerezza, con insolito pudore. Forse è per questo che si sentono ancora di più i brividi addosso.
SSimone Emiliani, Cineforum, n. 501, gennaio – febbraio 2011
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