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CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
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Giovedì 12 gennaio 2012 – Scheda n. 10 (849)
Another Year
Titolo originale: Another Year.
Regia e sceneggiatura: Mike Leigh.
Fotografia: Dick Pope. Montaggio: Jon Gregory. Musica: Gary Yershon.
Scenografia: Simon Beresford. Costumi: Jacqueline Durran.
Interpreti: Jim Broadbent (Tom), Ruth Sheen (Gerri),
Oliver Maltman (Joe), Lesley Manville (Mary),
Peter Wright (Ken), David Bradley (Ronnie),
Martin Savage (Carl), Karina Fernandez (Katie),
Michele Austin (Tanya), Philip Davis (Jack), Imelda Staunton (Janet).
Produzione: Thin Man Films. Distribuzione: Bim.
Durata: 129’. Origine: Gran Bretagna, 2010.
Mike Leigh
Nato a Salford, vicino a Manchester, nel 1943, Mike Leigh è, insieme a Ken Loach, il più importante regista britannico. Molti suoi film hanno ricevuto premi e riconoscimenti internazionali. Mentre Loach ha un approccio più ‘politico’ a temi e personaggi, Leigh privilegia piuttosto la descrizione della gente comune (che è ‘normale’ ma anche eccentrica e bizzarra, anarchica e viva), l’approfondimento degli aspetti della vita quotidiana e delle difficoltà dello stare al mondo giorno dopo giorno. Il nonno di Leigh, emigrato russo di religione ebraica, era amante della fotografia: da qui parte l’inclinazione di Leigh per tutto ciò che ha a che fare con la rappresentazione. Il suo primo interesse è il teatro. A Londra frequenta la Royal Academy of Dramatic Arts e la London Film School, studia disegno, pittura, scenografia e recitazione, entra a far parte di diverse compagnie teatrali, attività che lo occupa fino a tutti gli anni Sessanta. Nel 1971 realizza il primo lungometraggio, Bleak Moments, che viene premiato al Festival di Locarno. Leigh gira quindi molti cortometraggi per la televisione. Solo nel 1983 ritorna al cinema con Belle speranze. Da qui in poi diventa un regista di riferimento del cinema inglese con film come Dolce è la vita (1990), Naked (1993), Segreti e bugie, premiato con la Palma d’oro a Cannes (1996), Ragazze (1997), Topsy-Turvy (1999), Tutto o niente (2001), Il segreto di Vera Drake, premiato con il Leone d’oro a Venezia (2004) e La felicità porta fortuna (2008), fino a questo Another Year. Molti suoi film sono stati presentati al nostro Cineforum.
Sentiamo Leigh: «Mi viene facile sentirmi vicino ai miei personaggi. Vengo dal proletariato. Mi sono occasionalmente avventurato nell’alta società ma mi è abbastanza estranea. La classe operaia è il mio universo naturale. Come regista, visto che non realizzo film autobiografici, ho la responsabilità di osservare il mondo, di imparare e di mostrare le persone che lo abitano. Se sono della classe media, il “mio mondo” parlerà di loro. Nel film il fratello di Tom è un vero proletario come lo era Tom. L’accento di Gerri tradisce la sua origine operaia. Ma ormai sono diventati classe media. Per rispondere alla domanda, più che di fedeltà ad un mondo parlerei di fiducia nello “specchio del mondo”, in senso shakespeariano. Il mondo in cui viviamo… Da sempre curo moltissimo la fase di preparazione del film prima delle riprese. E per questo film ho impiegato ancora più tempo di quello che mi ci vuole di solito. Abbiamo trascorso mesi e mesi per creare, improvvisare ed elaborare l’universo del film. Poi abbiamo provato le scene negli ambienti e alla fine abbiamo cominciato a girare. Sul set poi, lavoriamo sulla stessa scena un giorno o una settimana a seconda della sua difficoltà. È un lungo processo prima di arrivare a qualcosa di preciso: il film di fatto nasce da queste impegnative sessioni di prove… I miei film possono sembrare procedere sereni e tranquilli, poi cominciano le increspature o magari arrivano anche delle aperture umoristiche. Lo humour è fondamentale per me ma non lo cerco consapevolmente. Mi preoccupo dei problemi dei personaggi e della trama drammaturgica. L’umorismo o il dramma irrompono piuttosto naturalmente perché la vita è comica e tragica, seria e ridicola, triste e gioiosa allo stesso tempo. Questo l’ho imparato, è un fatto».
La critica
Ma quanto è bravo Mike Leigh? Questo l’hanno pensato tutti (tutti in fondo lo pensavano già) fin dalla prima visione di Cannes 2010. Direzione degli attori impressionante, regia pulita e arguta, dialoghi che sembrano zampillare dalla vita vera di quelle persone che sono i personaggi del film. In molti, però (quasi tutti), si sono fermati lì. Alla naturalezza. Alla sensibilità. A quella splendida coppia in là con gli anni che ti fa venire voglia di innamorarti e di credere nella vita, qualsiasi cosa accada, nella gioia e nel dolore, finché non ci separi la fine del secondo tempo (per il terzo, rivolgersi a Hereafter di Clint Eastwood). Eppure, se osservi bene (se gratti via il primo strato di parole, se stai attento ai gesti e agli sguardi – sottolineati dagli stacchi o camuffati dentro l’inquadratura – se dai il giusto peso alla solitudine in cui sono fisicamente confinati gli amici infelici e i parenti perdenti anche e soprattutto quando sono in gruppo), ti accorgi di quanto sia complessa e raffinata e ambigua questa apparente lineare semplicità. Another Year non è un apologo dolceamaro sulla fatica e la gioia di vivere, con due protagonisti solari in cui identificarsi (per consolarsi) e una selva lunare di personaggi minori a cui spetta stratificare il racconto e moltiplicare le tonalità. Non è così banale. Tom e Gerri, nella loro sincera generosità, con la loro intelligenza sociale e apertura mentale, oltre a essere gli amorevoli-ammirevoli protagonisti, la “pietra angolare” della storia, sono anche la “pietra dello scandalo”, il termine di paragone dell’infelicità altrui, la dimostrazione di quanto sia infame la vita quando distribuisce fortune e talenti. Viene il fondato sospetto che la loro felicità abbia bisogno delle disgrazie degli altri. Non è una perfidia evidente, una cattiveria tematizzata dal film. È un’umanissima debolezza, che non hanno il coraggio di confessarsi, di cui probabilmente non sono neppure consapevoli, e che scorre sottotraccia nel film, emergendo più chiaramente negli snodi narrativi. Eccoli abbracciati su un letto o in cucina, nella loro grande e bella casa, dopo che hanno incontrato e consolato, dopo che hanno coltivato il loro orticello, in pace con se stessi. Simpatici. Dolci. Spietati? Perché mai dovrebbero fare più di così? Come possono cambiare la vita di quella segretaria che fatica a comprarsi un’auto e non ha nessuna possibilità di trovare l’uomo che desidera? Cosa fare con l’amico anziano, depresso e sovrappeso, se non qualche bevuta in ricordo dei vecchi tempi e un barbecue in giardino? E il fratello di Tom? In che modo l’hanno aiutato fino a ieri? (compare all’improvviso, dopo un lutto). D’altra parte come può lui, rinfacciare loro qualcosa, visto che sono così magnificamente disponibili? I due piccioncini se ne stanno lì a dispensare consigli, attenzioni e affetti dall’alto della loro soddisfatta felicità, vampirizzando le sfighe altrui, evitando accuratamente che le nevrosi degli altri, i dolori insanabili, le precarie identità, arrivino a minare le fondamenta della loro serena vita familiare, faticosamente costruita negli anni, meritatissima. Quanto bravo è un regista che riesce a raccontare questa ambiguità, senza bisogno di dirla o mostrarla? Che sembra parlare di una coppia meravigliosa, esempio di calorosa benevolenza, mentre in realtà sta parlando degli ultimi, dei perdenti, di quel brutale darwinismo sociale di cui siamo vittime e carnefici spesso inconsapevoli (sì, proprio noi, progressisti, acculturati, sensibili). Lui è geologo e lei psicologa, la natura li ha fatti intelligenti e dotati, il loro benessere è guadagnato sul campo, ma perché, alla fine, ci appare così ingiusto, perfido, contraddittorio? All’inizio è una questione di dettagli e di sfumature. Leigh ci porta abilmente a identificarci con i sorrisi e gli sguardi di intesa fra Tom e Gerri, che compatiscono la segretaria nevrotica: è proprio una disgraziata, come si fa a non ridere di lei? Intanto ci mostra (chissà perché…) il figlio illuminato di cotanta famiglia, che accoglie al lavoro una coppia di immigrati con un tono fastidiosamente ironico e paternalistico. Ma c’è anche l’aspirante nuora, con la sua parlantina torrenziale e la sua gentilezza esagerata, che a babbo e mamma piace tanto, e a noi suona così stonata (anche alla segretaria pazza, che però non ha gli strumenti per rendere esplicito il suo disagio, e la cosa si risolve in una grottesca gelosia). Dobbiamo aspettare la fine, perché ciò diventi esplicito. Quelle scene in cui i “perdenti” hanno finalmente delle inquadrature tutte per loro, e cominciano ad acquisire la consapevolezza della propria realtà di sfigati vampirizzati, mendicanti di affetto e considerazione, ma in un certo senso umanamente più veri. La sequenza dell’epilogo è il disvelamento finale: la famigliola felice parla dei suoi viaggi in giro per il mondo con totale mancanza di tatto (nei confronti di chi è uscito a malapena dal suo quartiere) e un buonumore che supera la decenza, mentre la macchina da presa coglie uno sguardo di intesa fra la nevrotica diventata silenziosa e il fratello vedovo, che ha capito tutto senza aver bisogno di parlare. Solo allora ti capita di ripensare alla donna, impersonata da Imelda Staunton, che appare nel prologo e poi sparisce per sempre, nella nebbia informe della vita e della non-storia, con il suo inguaribile dolore, che la brava Gerri ascolta e accoglie per il tempo di una consulenza psicologica, e magari aspira pure a “guarirla”, mentre lei vorrebbe solamente dormire. Intanto le stagioni scorrono e arriva un altro anno. Grande film davvero. (…)
FFabrizio Tassi, Cineforum, n. 501, gennaio – febbraio 2011
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