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La pivellina - Scheda del film

 

 

 

 

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PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 2 febbraio 2012 – Scheda n. 13 (852)

 

 

 

 

 

Non è ancora domani

 

La pivellina

 

 

 

Regia: Tizza Covi, Rainer Frimmel

 

Sceneggiatura e montaggio: Tizza Covi. Fotografia: Rainer Frimmel.

 

Interpreti: Tairo Caroli (Tairo), Asia Crippa (Asia),

Patrizia Gerardi (Patty), Walter Saabel (Walter).

 

Produzione: Vento Film. Distribuzione: Officine Ubu.

Durata: 100’. Origine: Italia/Austria, 2009.

 

 

Tizza Covi e Rainer Frimmel

 

Una coppia di registi. Tizza Covi è nata a Bolzano nel 1971, ha vissuto a Parigi e Berlino, ha studiato fotografia a Vienna, si è trasferita poi a Roma per lavorare come fotografa. Rainer Frimmel, viennese, ha studiato anch’egli fotografia. Insieme hanno fondato una casa di produzione di film indipendenti, la Vento Film. Dopo alcuni documentari, Das Ist Alles (2001) e Babooska (2005), hanno girato il primo lungo Non è ancora domani – La pivellina. Il film è stato presentato alla Quinzaine des Réalisateurs, a Cannes, dove ha vinto il premio come miglior film europeo. Sentiamo i registi: «La pivellina è legato in parte a un nostro precedente lavoro, Babooska, che era sulla vita e sulla lotta quotidiana di una famiglia circense, nomadi moderni in Italia. In tutti e due i lavori abbiamo cercato di non adattare la realtà alle nostre idee ma di essere pronti a cogliere tutto ciò che accade mentre giriamo. Lavoriamo solo noi due sul set e scegliamo i nostri personaggi tra persone “umili” che però sono anche molto di più: rappresentano anche la capacità di restare flessibili, un’abilità che il mondo moderno esige... Nei nostri lavori cerchiamo sempre di far scomparire il limite, il confine che c’è tra la finzione e il documentario e il tema principale che vogliamo sviluppare nelle nostre opere è la presenza fondamentale dell’infanzia... La nostra avventura è cominciata quando ci siamo conosciuti all’Accademia di fotografia di Vienna e abbiamo cominciato a fare dei lavori fotografici insieme. Tutti i nostri film sono nati dai progetti che abbiamo sviluppato insieme in quegli anni. Nel panorama del cinema italiano ci sentiamo piuttosto particolari: ci sembra che manchi spesso il coraggio di osare e di lavorare in modo non convenzionale... Il film non è basato su una storia vera: l’ho inventata e scritta io [Tizza Covi], volevo mostrare come sono e come vivono i nostri protagonisti, ma non in modo puramente documentaristico. Devo aggiungere che in Italia ci sono molti bambini che vengono abbandonati all’età della piccola protagonista; purtroppo non è un problema che riguarda solo i neonati: e quindi la storia è anche un po’ vera. Comunque, il punto di vista documentaristico è quello che ci interessa di più nella realizzazione di un film. Quello che ci regala la realtà non può essere riprodotto. Però, dopo una lunga esperienza col documentario, siamo arrivati al punto che cominciava a disturbarci il fatto di non poter intervenire più di tanto nella storia. Una seconda ragione è che in entrambi i film, Babooska e Non è ancora domani, abbiamo lavorato con protagonisti che riuscivano a essere completamente naturali davanti alla cinepresa... Conosciamo Patti, la donna protagonista, da tanto tempo e abbiamo sempre pensato che il suo atteggiamento e la sua voce ricordassero quelli della grande Anna Magnani, da noi profondamente ammirata. Patti ha un carattere esplosivo, aveva voglia di fare questo film e siccome abbiamo girato in inverno aveva anche tempo per farlo, perché in inverno lei e suo marito Walter non possono fare spettacoli all’aperto. Così abbiamo riempito di lavoro un periodo per lei molto calmo, un periodo che passa con i preparativi per la prossima stagione, come allenare i cani e pitturare gli attrezzi. Abbiamo vissuto anche noi in un camper sulla stessa piazza, di sera abbiamo giocato a dadi o siamo andati in pizzeria, ci siamo divertiti. Possiamo aggiungere che lei e suo marito Walter ci sono anche piaciuti come coppia, perché sono due persone che non hanno niente in comune. Anche questo aspetto ci ha affascinato molto...  Avevamo una sceneggiatura con un inizio e una fine molto precisa, la difficoltà delle riprese è stata quella di decidere se all’interno del film potevamo inserire anche scene della vita reale dei nostri protagonisti senza interrompere il flusso della storia. La nostra sceneggiatura non aveva dialoghi scritti. Gli attori venivano informati circa un’ora prima del ciak su cosa volevamo riprendere e quali punti dovevano accennare nella conversazione. Quando e come dirlo era una loro scelta... La piccola Asia, la “pivellina”, aveva esattamente due anni durante le riprese. Devo dire che il nostro stile di lavorare non ha niente a che fare con le riprese di un classico film di finzione, perché siamo solo in due: Rainer si occupa della fotografia, io del suono e del ciak. Non siamo per niente spaventosi per una bambina. I bambini hanno bisogno di tempo. Io ho impiegato parecchie settimane prima di riuscire a farla addormentare nelle mie braccia, poi siamo riusciti a farla dormire nel camper di Patti; alla fine voleva addormentarsi sempre lì. Dopo un po’ non ha più fatto caso alla presenza della cinepresa. Il nostro stile di lavoro è l’ideale per lavorare con dei bambini. Un sacco di cose sono successe spontaneamente. Non si può dire a una bambina di due anni cosa fare e dire. È meglio adattarsi alla situazione e al suo umore del momento. Per noi era importante far vedere la solidarietà che lega questo gruppo, questa piccola società... Anche in questo film abbiamo conservato il nostro stile, con riprese lunghe che lasciano spazio all’imprevisto. Alla fine delle riprese avevamo in tutto circa 20 ore di materiale, molto più che nei nostri film precedenti, ma comunque non molto per un film di finzione. Nel montaggio abbiamo dovuto separarci da tante belle scene, per non allontanarci troppo dalla storia principale della bambina abbandonata».

 

La critica

 

La pivellina fa parte di quel cinema italiano, perlopiù minuto e rannicchiato, che ha deciso di conficcarsi in ciò che non si vede, di appiattirsi lungo il margine, di trovar casa nell’assenza di confini. Un cinema timido ma austero, che ama perdersi nelle terre di mezzo di un’Italietta distratta, insensibile, barricata nella sua volontaria sordità. Un cinema “civile”, si sarebbe detto in altri tempi, o forse solo miracolosamente umano, ancora, nonostante tutto, senza vergogna. I luoghi sono gli stessi di sempre; ciò che cambia, in questo cinema, è lo sguardo che li percorre. (...) Sono l’indifferenza, la solitudine, l’esclusione a generare questo nuovo sguardo che, nel nostro caso, trasforma Roma in una suburbia fatta a isole, trafitta da palazzoni-alveare, pozzanghere come cicatrici, sterpaglie e rifiuti di ogni genere. Una Roma di orti sotto la ferrovia, sfasciacarrozze che sembrano venire da un film di Pier Paolo Pasolini, quarti di cielo metallico: la “Città eterna” cui ci hanno abituato, se c’è, vive sullo sfondo, sempre più sfocato e irraggiungibile; solo un miraggio lontano, oltre l’orizzonte, niente da spartire con la periferia cronica di San Basilio. La città che resta impigliata nelle immagini di Rainer Frimmel e Tizza Covi è infatti senza fasti, senza monumenti, nessuna connotazione a renderla riconoscibile; un teatro di posa vuoto e traballante, persiane abbassate da e per sempre, scritte oscene sui muri, lamiere rese buffe dai manifesti strappati. È proprio dietro una di queste lamiere, beffardamente tappezzata di roboanti locandine del circo Togni, che si annida un altro circo; uno spettacolo puntiforme, famigliare, destinato a rimanere senza pubblico ma che straborda dignità, diventato l’unica salvezza, l’ultimo calore, la sporgenza cui aggrapparsi per non essere risucchiati dal resto che sta intorno. Patty e i suoi capelli rossi che infiammano l’inquadratura, Walter dall’accento tedesco, il quindicenne Tairo che non stenta a trasformare quelle pozzanghere in giochi malinconici: sono loro gli esuli che reinventano la vita appena svegli, rintanati in un caravan, a loro modo felici. La piccola Asia, in tutto questo, non è che una scheggia ricoperta di rosa, lasciata a margine perché la vita di quella Roma non la raggiunga, non se la riprenda per masticarla. Cosa importa delle domande (sua madre una prostituta? suo padre uno sbandato? chi vuole dimenticarla?), Asia non è che una nuova arrivata, con la sua piccola storia, che merita le tenerezze che ancora sopravvivono in chi sopravvive, in chi ha cura dell’oggi perché il domani non è ancora. Del film di Frimmel e Covi è proprio la delicatezza di sguardo, l’osservare quasi in punta di piedi, il tratto migliore. Si parla di film, ma lo spaccato pare emergere dal reale come una naturale appendice (tanto che financo i nomi dei personaggi rimandano a quelli degli attori) (...). Ma quella delicatezza sembra più un’ipotesi di pedinamento educato, schivo ma partecipe, rendicontato da un digitale raffreddato e quasi ostile, ma solo per pudore. Come se il ritrovamento di Asia fosse solo il pretesto, il vettore per attraversare un microcosmo come ce ne sono tanti, seppur invisibili. Uno spaccato che non urla, non rivendica un bel niente. Sta solo lì, attesta una presenza, dice sì, ci sono anch’io, forse ho qualcosa da dire, ma di certo non voglio educare. Per questo La pivellina non è un film politico, non lo è quanto meno nel senso smaccato del termine. Semmai è la cronaca di un negoziato esistenziale, un brandello di cinema avvinto alla realtà, spogliato di ogni ideologia (...). Frimmel e Covi ci dicono che niente è perso, che ci si può ancora credere, che sentimenti non significano sentimentalismo, che, stringendosi un po’, l’inverno romano punge meno. Certo, il domani è in agguato. Come ci racconta il finale, in cui Frimmel e Covi decidono si spegnere il loro occhio meccanico, per farsi da parte, e per tristezza quasi. Asia vestita a festa, la torta in cui affondare le mani, le canzoni e un futuro che sta per arrivare, portando con sé angosce troppo adulte. Allora indietreggiano, il circo torna invisibile dietro la lamiera, scorrono i titoli di coda.

 

Lorenzo Donghi, Mattia Mariotti, Cineforum, n. 495, giugno 2010

 

 

 

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