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Giovedì 9 febbraio 2012 – Scheda n. 14 (853)
L’illusionista
Titolo originale: L’illusioniste
Regia, sceneggiatura, montaggio e musica: Sylvain Chomet
Soggetto: da una sceneggiatura originale di Jacques Tati
Voci: Jean-Claude Donda (Tatischeff), Edith Rankin (Alice), Tom Urie (altre voci).
Canzoni eseguite da: Jill Aigrot, Didier Gustin, Frédéric Lebon
Produzione: Django Films Illusionisti. Distribuzione: Sacher.
Durata: 80’. Origine: Francia, GB, 2010.
Sylvain Chomet
Nato a Maison Laffitte, vicino a Parigi, nel 1963, Sylvain Chomet si diploma in Belle Arti, comincia come disegnatore di fumetti, lavora a Londra come animatore per la Richard Purdum’s Studio, scrive la sceneggiatura per il fumetto fantascientifico The Bridge In Mud. Si trasferisce in Canada per realizzare un corto d’animazione, La vieille dame et les pigeons (1998), premiato in numerosi festival. Del 2003 è il suo primo lungometraggio, sempre di animazione, Appuntamento a Belleville, che ottiene un grande successo e due nomination agli Oscar. L’illusionista, sua seconda opera, ha una storia strana: viene da una sceneggiatura scritta anni fa dal grande regista Jacques Tati (1907-1982), uno dei maestri della storia del cinema. Tati ha diretto alcuni film meravigliosi: Giorno di festa (1949), Le vacanze di Monsieur Hulot (1953), Mio zio (1958), Playtime (1967), Trafic (1971, tutti i film di Tati si trovano in dvd). La sceneggiatura di L’illusionista era conservata presso gli archivi del Centre National de la Cinématographie, sotto l’anonimo nome di “Film Tati n° 4”. La figlia di Tati, Sophie Tatischeff, l’ha affidata a Sylvain Chomet perché fosse trasformata in film. Il protagonista (disegnato...) del film è lo stesso Jacques Tati, nella parte del suo allampanato Monsieur Hulot.
Ascoltiamo Chomet: «Nel mio film Appuntamento a Belleville c’era una scena in cui le protagoniste sono a letto e guardano la televisione. Sarebbe stato carino che i personaggi guardassero qualcosa in tema con lo spirito da Tour de France della storia. Mi venne immediatamente in mente il meraviglioso Giorno di festa di Tati, dove lui era un postino in bicicletta. Il produttore Didier Brunner contattò la Fondazione Tati, diretta dalla figlia Sophie Tatischeff, per ottenere l’autorizzazione a usare un estratto del film. Per l’autorizzazione Sophie volle vedere i bozzetti di Appuntamento a Belleville. Le piacquero molto: non solo concesse l’autorizzazione, ma menzionò un progetto mai realizzato di suo padre. L’illusionista era stato scritto da Tati tra il 1956 e il 1959. Si capiva fin dall’inizio che non si trattava di un’altra disavventura di Hulot. Tutte quelle riflessioni, così apertamente sentimentali, me lo resero chiaro. Pare abbia detto che L’illusionista fosse per lui un soggetto troppo serio: al suo posto scelse di fare Playtime. Sophie Tatischeff non voleva che nessuno dei tratti così familiari del personaggio dell’illusionista fosse interpretato da un attore che non fosse suo padre. L’animazione è sembrata da subito la soluzione ideale, il mezzo che forniva la strada perfetta risolvendo il problema con la creazione di una versione animata di Tati che partisse da zero. Purtroppo Sophie morì appena quattro mesi dopo il nostro primo contatto. Ma i parenti che le sono subentrati nella gestione della fondazione sono stati d’accordo con la sua decisione di darmi fiducia e consegnarmi il tesoro di famiglia... Ho letto tutto quello che c’era da leggere su Tati e ho scoperto cose che non sapevo, che ho inserito come un tessuto, una trama, nell’adattamento definitivo. Per esempio, quando un caro amico di Tati, clown, si era trovato in difficoltà economiche, Tati l’aveva sostenuto. Così ho aggiunto questo personaggio del clown alla bizzarra moltitudine di caratteristi che popolano il film, per dare il mio contributo e rendere ancora più emozionante la storia di sottofondo del film, che è quella della fine di un’epoca – quella del music hall – e dell’inizio di una nuova era – quella del rock’n’roll. Parallelamente a questo si trova il tema universale della relazione genitore/figlio e di quanto spesso questa sia dolce e amara al tempo stesso... Il filo della storia prende il via in un remotissimo villaggio dove l’elettricità sta arrivando per la prima volta. Quel tipo di isolamento si adattava molto meglio ad una delle isole scozzesi che non ad un paesino fuori Praga, come era scritto nella sceneggiatura. Ho visitato Mull, poi l’isola di Iona, nelle Isole Ebridi, sulla costa occidentale della Scozia. Sono rimasto sbalordito nello scoprire che, proprio all’epoca in cui Tati aveva collocato la storia (1959), gli isolani avessero dato una festa per celebrare l’arrivo della corrente elettrica dalla terraferma. La comunità era estranea a ogni forma di civilizzazione esterna e ciò rende particolarmente giusta l’ingenuità di Alice così come la presenza dell’illusionista, coi suoi ultimi echi di vaudeville... Preferisco immaginarmi con la mia matita che con un computer. Si perde qualcosa di indefinibile lavorando col computer. Quando disegno, nascono delle immagini esteticamente piacevoli con un potere magico e visivo».
La critica
Come solo i grandi autori riescono a fare, Chomet ha creato un universo dove fedeltà e tradimento, rispetto a un preesistente originale, si fondono in modo straordinariamente fecondo. Iniziamo col raccontare i tradimenti. Innanzi tutto la storia in origine doveva svolgersi a Praga. Una città amata da Tati, colpito durante un viaggio nella “città magica” dall’abilità dei tecnici con cui aveva lavorato e che in un primo tempo gli aveva fatto pensare di chiedere alle autorità cecoslovacche una coproduzione per realizzare L’illusionista. Chomet, dopo un sopralluogo a Praga, decide che, per la sua sensibilità, la città ideale per questo film è Edimburgo, conosciuta e apprezzata durante la promozione di Appuntamento a Belleville, con un ambiente cittadino che però ricorda ancora quello di un villaggio, un tempo meteorologico in continuo divenire e il picco così particolare di Arthur’s Seat che la domina, sulla cui sommità Chomet ambienterà due scene. Inoltre, il regista ha trasformato la protagonista, pensata da Tati come una bellezza più adulta alla Brigitte Bardot, in un’adolescente scozzese bruna e ingenua, che qualcuno ha invece accostato alla Terry del chapliniano Luci della ribalta (1952). In realtà Chomet, che desiderava evitare qualsiasi ambiguità nel loro rapporto, si è ispirato all’adolescente figlia della portinaia in Mio zio, che alla fine del film si era trasformata, proprio come Alice, in una donna. Per quanto riguarda invece la fedeltà, Chomet ha realizzato in tutto e per tutto un film davvero alla Tati. Innanzitutto pensiamo alla “lingua” del film, una sorta di “grammelot”, un esperanto preverbale in grado di essere compreso da chiunque, come accadeva per monsieur Hulot che, con la sua capacità di stupirsi e di stupire, recuperava la meraviglia propria dell’infanzia. Poi, pensiamo all’impaccio tipico di Tati alle prese con oggetti (nella sequenza dell’autorimessa, ad esempio) ed esseri viventi (il coniglio disadattato e carnivoro…) riottosi a essere ricondotti all’ordine, cosa sfuggita a più di un critico. Infine, pensiamo alla regia di Tati, il quale, molto alto, metteva sempre la macchina da presa alla sua altezza e inquadrava il tutto da quella posizione, anche i piedi degli attori. Chomet ha cercato di recuperare lo stile di Tati per la ripresa, privilegiando la figura intera e mettendo quindi in risalto, in particolare, i piedi del protagonista, che con le mani, rappresentavano al meglio la fisicità dei personaggi interpretati da Tati, in fondo ragazzi costretti in un corpo da adulto allampanato; ma in animazione, confessa Chomet, è assai complicato disegnare i piedi… Perciò, rispetto alle milleduecento inquadrature di Appuntamento a Belleville, qui Chomet ne ha realizzate solo quattrocento. Questo non deve però far pensare a una semplificazione del lavoro: infatti, costruire inquadrature fisse da novanta secondi ha costretto il regista a un sofisticato montaggio all’interno all’inquadratura; per cui la ricchezza e la precisione degli sfondi hanno richiesto un lavoro se possibile ancor più complesso, e per questa lentezza del montaggio e ricchezza dei particolari egli si è ispirato direttamente al cinema di Miyazaki. Ciò che invece Chomet ha rispettato sino in fondo, è l’idea che il racconto, e quindi il film, ambientato alla fine degli anni Cinquanta, rappresenti al suo interno, come scatole cinesi, una serie di necessari momenti di passaggio. Andando dal particolare al generale, dal personale allo storico, Alice e Tatischeff sono testimoni di grandi avvenimenti. Alice, durante il tempo del film, si trasforma da adolescente in donna; Tatischeff invece scopre attraverso Alice un senso di paternità fino ad allora mai sperimentato, e prende coscienza che il suo lavoro sta perdendo di senso. (...) C’è, in questa rappresentazione di un mondo artistico che scompare, in questi artisti alla fine della carriera costretti a vendere i ferri del mestiere e ad arrivare a un annullamento totale nell’alcol o nel suicidio, una malinconia e una poesia che Chomet afferra dal cinema di uno dei suoi registi di culto, Federico Fellini. Si respira, poi, l’atmosfera degli arrembanti anni Sessanta, quelli del boom economico, dell’affermazione definitiva del capitalismo che usa come strumento principe la pubblicità. (...) Credo che, nel moderno cinema di animazione, siano davvero pochi i registi che hanno una riconoscibilità immediata, che possiedono un tratto, una poetica, uno stile che sia immediatamente percepito come unico. In questo ristretto novero possiamo trovare Miyazaki, Bill Plympton e appunto Chomet, casualmente tutti artisti che hanno scelto di lavorare con il 2D e che usano il computer con parsimonia.
Fabrizio Liberti, Cineforum, n. 499, novembre 2010
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