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Scheda pdf (219 KB)
Uomini di Dio - Scheda del film

 

 

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 23 febbraio 2012 – Scheda n. 16 (855)

 

 

 

 

Uomini di Dio

 

 

Titolo originale: Des hommes et des dieux

 

Regia: Xavier Beauvois

 

Sceneggiatura: Xavier Beauvois, Etienne Comar. Fotografia: Caroline Champetier.

Montaggio: Marie-Julie Maille.

 

Interpreti: Lambert Wilson (frate Christian), Michael Lonsdale (frate Luc),

Olivier Rabourdin (frate Christophe), Philippe Laudenbach (frate Célestin),

Jacques Herlin (frate Amédée), Loïc Pichon (frate Jean-Pierre),

Xavier Maly (frate Michel), Jean-Marie Frin (frate Paul),

Abdelhafid Metalsi (Nouredine), Sabrina Ouazani (Rabbia),

Olivier Perrier (frate Bruno), Adel Bencherif (il terrorista).

 

Produzione: Why Not Productions. Distribuzione: Lucky Red.

Durata: 120’. Origine: Francia, 2010.

 

 

Xavier Beauvois

 

Figlio di un farmacista e di una docente di moda, oltre che consigliera comunale socialista, Xavier Beauvois è nato nel 1967 a Auchel, Pas-de-Calais, in Francia. Vocazione fortissima per il cinema: parte per Parigi per seguire i corsi all’IDHEC, la scuola di cinema (che oggi si chiama Fémis). Non viene accettato: ma dopo parecchi anni sarà chiamato come insegnante con la cattedra di direzione degli attori! Allora, comincia come aiuto regista e il regista si chiama nientemeno che Manuel De Oliveira. Nel 1986 firma il suo primo corto, Le matou. Il primo lungo è del 1991, Nord, grande successo di pubblico e critica. Altro successo nel 1995 con N’oublie pas que tu vas mourir, Premio della Giuria a Cannes. Poi con Le petit lieutenant (2005) vince il Label Europa Cinemas. Dopo dieci anni arriva questo Uomini di Dio, ispirato a un tragico fatto reale. Il titolo originale, Des Hommes et des dieux, è molto più significativo: uomini e dei al plurale, perché gli uomini, le fedi e gli dei sono tanti e ogni uomo va rispettato qualunque sia la sua fede o non fede. Beauvois è anche un bravo attore.

Riportiamo il toccante testamento spirituale di frère Chistian de Clergé, abate del monastero di Tibhirine: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di una tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato. La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito. Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno “grazia del martirio”, il doverla a un algerino, chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam. So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti. L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa: sono un corpo e un’anima. L’ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani. Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: “Dica adesso quel che ne pensa!”. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità. Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, completamente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze. Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto. In questo grazie in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso! E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Insc’Allah».

 

La critica

 

Nel rievocare la tragica vicenda dei monaci di Tibhirine, Xavier Beauvois e il suo sceneggiatore Etienne Comar hanno deciso, saggiamente, di lasciare sullo sfondo la contingenza cronachistica dei fatti. Des hommes et des dieux non è e non vuole essere un film inchiesta teso a inseguire la verità storica immediata. La pellicola non mira a una ricostruzione fedele degli eventi, né pretende di fornire risposte certe sulle circostanze e responsabilità di quell’eccidio – i cui autori, secondo talune fonti, sarebbero da individuare tra le forze dell’esercito regolare algerino: ma il mistero su quelle morti rimane a tutt’oggi irrisolto. Esibendo una sorta di stupore rattenuto di fronte a un soggetto appassionante, ambizioso e rischiosissimo, Beauvois e Comar hanno preferito piuttosto focalizzare il racconto sulla dimensione umana del dramma, sul doloroso percorso interiore che i religiosi dovranno affrontare prima di giungere a quella scelta che li farà precipitare sul passo del destino. Senza nulla concedere alla facile agiografia, Beauvois si è preoccupato di rendere i suoi protagonisti non già dei santini gioiosamente votati al martirio, delle figurine angelicate di una qualche parabola edificante, bensì delle creature vulnerabili, tormentate, con le loro esitazioni, fragilità, debolezze carnali: individui a cui, come a Gesù nell’orto di Getsemani, non sono estranei il dubbio, lo sconforto, la paura, lo smarrimento. Figure soteriologiche, dunque, le quali, attraverso le prove dell’angoscia e del dolore, giungeranno a percorrere sino in fondo un proprio amaro cammino di afflizione che avvicinerà la loro passione alla passione di Cristo. Nella parte iniziale del film la cinepresa si attarda a descrivere la liturgia che regola la vita conventuale immergendoci nei ritmi pacati, sempre uguali a se stessi, di una quotidianità laboriosa che ha una durata che è sua, fondata sulla consuetudine della coralità e del raccoglimento, scandita da momenti di preghiera in comune e di meditazione, da ore dedicate alla lettura, al canto, agli umili lavori nei campi. Agli occhi dello spettatore, il monastero di Tibhirine non si presenta tuttavia come un microcosmo chiuso in se stesso, separato dal mondo esterno. Disinteressati a ogni forma di proselitismo, i trappisti vivono in perfetta armonia con gli abitanti del villaggio che sorge nei pressi del convento, tutta povera gente da cui i religiosi hanno saputo farsi accettare e benvolere anche in grazia della loro disponibilità e dell’impegno profuso verso gli indigenti. Frate Christian, il priore, conosce a menadito le sure del «Corano» ed è capace, all’occorrenza, di citarle a memoria. L’anziano medico del monastero, frate Luc, si prodiga nel curare gratuitamente tutti i malati che si recano ogni giorno nel suo ambulatorio. E tra un paziente e l’altro, trova anche il tempo di raccogliere le confidenze di una ragazza del luogo a cui i genitori vorrebbero imporre un matrimonio combinato. È in quest’isola felice di spiritualità e tolleranza che si abbatte la furia della violenza integralista. (...) Tant’è: quel cantore “dissennato”, sordo a ogni richiamo alla ragionevolezza e alla moderazione, spingerà i monaci di Tibhirine a non abbandonare il convento, benché essi siano pienamente consapevoli dei rischi a cui, con quella decisione, potranno andare incontro. Frate Christian e gli altri si riconoscono incapaci di contrastare la violenza, sanno di non poter impedire che l’orrore si compia, ma scelgono ugualmente di resistere al richiamo della rassegnazione, opponendo all’odio e alla barbarie la presenza “scandalosa” del giusto: un’alterità radicale, vissuta e rivendicata nell’integrità della fede sino alle estreme conseguenze. La loro “cieca” ostinazione giunge così a dar voce agli insopprimibili imperativi della coscienza, traducendosi in un segno luminoso di speranza. La loro caparbietà diviene la testimonianza irriducibile di un diverso eroismo, un eroismo fondato non già sull’ardore guerriero, ma sullo spirito di fratellanza, la mansuetudine, la carità, la totale offerta di sé a Dio. All’intransigente inflessibilità morale a cui pervengono i protagonisti del film nel corso del racconto, fa riscontro l’austerità della messa in scena. Ricusando ogni forma di virtuosismo come ogni forzatura spettacolare, Beauvois opta per una drammaturgia scarna, volutamente disadorna. Il suo sguardo sa essere sobrio, limpido, pudico, memore della lezione dei grandi maestri del passato (...).

NNicola Rossello, Cineforum, n. 499, dicembre 2010

 

 

 

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