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CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
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Giovedì 15 marzo 2012 – Scheda n. 19 (858)
Io sono Li
Regia e soggetto: Andrea Segre
Sceneggiatura: Marco Pettenelli e Andrea Segre. Fotografia: Luca Bigazzi.
Montaggio: Sara Zavarise. Musica: François Couturier.
Interpreti: Zao Thao (Shun Li), Rade Sherbedgia (Bepi il poeta),
Marco Paolini (Coppe), Roberto Citran (Avvocato), Giuseppe Battiston (Devis).
Produzione: Jolefilm. Distribuzione: Parthenos.
Durata: 96’. Origine: Italia, 2011.
Andrea Segre
Nato a Dolo (Venezia) nel 1976, Andrea Segre si è sempre occupato di sociologia con particolare attenzione al tema delle migrazioni. Ha fondato l’Associazione ZabLab con la quale ha prodotto molti dei suoi lavori. Ha diretto numerosi documentari e cortometraggi, premiati in molti festival: Marghera Canale Nord (2003), Dio era un musicista (2004); PIP49 (2006, episodio del film collettivo Checosamanca), A Sud di Lampedusa (2006), La mal’ombra (2007), Come un uomo sulla terra (2008), Magari le cose cambiano (2009), Il Sangue Verde (2010).
Il suo primo lungometraggio è questo Io sono Li, premiato a Venezia da una giuria europea, con questa motivazione: «Per l’originalità di un racconto che intrecciando abilmente la fiction e il documentario, ci dona un ritratto efficace e convincente della realtà di oggi».
Ecco qualche dichiarazione del regista: «L’idea del film nasce da due esigenze: da una parte la necessità di trovare in una storia, allo stesso tempo realistica e metaforica, il modo per parlare del rapporto tra individuo e identità culturale, in un mondo che sempre più tende a creare occasioni di contaminazione e di crisi identitaria; dall’altra la voglia di raccontare due luoghi importanti per la mia vita e molto emblematici nell’Italia di oggi: le periferie multietniche di Roma e il Veneto, una regione che ha avuto una crescita economica rapidissima, passando in pochissimo tempo da terra di emigrazione a terra di immigrazione. In particolare, Chioggia, piccola città di laguna con una grande identità sociale e territoriale, è lo spazio perfetto per raccontare con ancora più evidenza questo processo. Ricordo il mio incontro con una donna che potrebbe essere Shun Li. Era in una tipica osteria veneta, frequentata dai pescatori del luogo da generazioni. Il ricordo di questo volto di donna così estraneo e straniero a questi luoghi ricoperti dalla patina del tempo e dell’abitudine non mi ha più lasciato. C’era qualcosa di onirico nella sua presenza. Il suo passato, la sua storia, gli spunti per il racconto nascevano guardandola. Quale genere di rapporti avrebbe potuto instaurare in una regione come la mia, così poco abituata ai cambiamenti? Sono partito da questa domanda per cercare di immaginare la sua vita. Io sono Li è anche un punto di sintesi del mio percorso registico nell’ambito del cinema-documentario, attraverso cui mi sono occupato negli ultimi dieci anni principalmente di due temi: le migrazioni verso l’Europa (A metà, A sud di Lampedusa, Come un uomo sulla terra, Il sangue verde) e il territorio sociale e geografico del Veneto (Marghera Canale Nord, Pescatori a Chioggia e La mal’ombra). Le varie esperienze di regia con il cinema documentario mi hanno permesso di apprezzare il racconto non solo del reale, ma anche nel reale, aiutandomi a capire come con esso sia possibile scoprire la dimensione intima e profondamente umana della realtà, anche di tematiche urgenti ed attuali della società odierna. In Io sono Li ho voluto rispettare modi e stili conosciuti nel cinema-documentario, lavorando anche con attori non professionisti e scegliendo sempre location del mondo reale. Al tempo stesso la precisione e la sottigliezza del linguaggio cinematografico orientale e di alcuni importanti esempi del cinema indipendente internazionale sono state tracce importanti per riuscire a raccontare le atmosfere e i luoghi che ho scelto per questo film... Sei ore cala e sei ore cresce. La laguna cambia spesso faccia e colore. Perché l’acqua entra e esce, la marea cala e cresce. Ogni sei ore. E quando cambia l’acqua in laguna cambia tutto. Tranne il silenzio. Il silenzio c’è sempre. Sta lì. Dolce, infinito e debole. Ferma il tempo. Regala alla mente lo spazio del pensiero. Ospita storie e memorie che non sapevi di conoscere. E non ti lascia mai solo. Come una madre. Come il sorriso e il pianto di una madre. È questo Shun Li, il dolce dolore di una madre nel silenzio profondo della laguna. Ed è per questo che Shun Li ha la forza di far tremare il vecchio mondo di un’osteria di pescatori. Farlo innamorare. Fargli paura. Farlo cambiare. È impossibile non ascoltare il vento di Shun Li ed è triste decidere di attaccarlo o isolarlo. Purtroppo è ciò che il nostro mondo ha deciso di fare. Ma è anche ciò che il cinema può raccontare».
La critica
È un sociologo Andrea Segre, anzi un Dottore di Ricerca in Sociologia, dopo la laurea in Scienze della Comunicazione con tesi in Sociologia della Comunicazione. Uno dei pochi registi a dichiarare esplicitamente di voler fare, con i suoi film, «un lavoro politico e giornalistico», non solo con i documentari, interessantissimi, che già gli erano valsi un passaggio a Venezia, ma anche con questo film che è il suo primo di finzione, presentato nelle Giornata degli Autori. È un regista che ci parla dalle paura del “diverso”, quindi anche dell’immigrato: «La prima reazione, naturale, nel contatto con l’altro è la paura. Il problema è quando non vengono dati strumenti per trasformare la paura in conoscenza e quando questa viene alimentata per generare panico sociale: se vogliamo trovare un tema al mio film è indagare quanto si perde quando si fa vincere la paura dell’altro»: ma è anche quello presentato nelle note di presentazione del progetto, quando il suo titolo era ancora Shun Li e il poeta, con queste parole: «è la storia di un piccolo antico paese che cambia diventando terra di immigrazione. Ed è anche una storia d’amore. Tra la cinese e un pescatore-poeta. La storia di un amore ancora impossibile, ancora attaccato, non capito». Il cuore del nostro film, al di là dell’aspetto sociologico-documentaristico che comunque c’è nella descrizione del contesto in cui si colloca la vicenda, quello dei pescatori di Chioggia e in generale di una regione, il Veneto, che è passata in pochi decenni da terra d’emigrazione a terra di immigrazione e che fa a volte fatica a integrare il milione di immigrati che ospita, è infatti la storia dell’incontro tra una giovane cinese mandata nella cittadina veneta a gestire un’osteria in attesa di pagare i documenti e di accogliere il figlio ancora in patria, e un signore del luogo, che è in realtà un croato che sta lì da trent’anni e che in virtù di questo è considerato “uno del posto”, a differenza di lei; nei confronti della quale la curiosità della gente (come per il Perelà di Palazzeschi) è seguita da/intrecciata a paure e pregiudizi che, sommati alle oggettive condizioni di vita della donna (la “nuova schiavitù” di molti immigrati che ben conosciamo) che le impediscono qualsiasi contatto anche amicale con la gente del posto in cui sta, fanno prendere alla vicenda un’altra direzione. Un incontro si diceva, l’incontro di due solitudini, la tenerezza di un abbraccio dato in un casone di pesca in mezzo alla laguna, in mezzo al mare (il mare qui ha due nomi, scrive infatti Shun Li al figlio citando Hemingway, “laguna” e “mare”: il primo è femminile e calmo e misterioso, il secondo «non si riposa mai, sempre in balia del vento e delle onde», e – viene detto più avanti - l’acqua va dal mare alla laguna e torna indietro ma non torna indietro tutta, una parte rimane intrappolata in essa); nel casone che è l’unica cosa che il protagonista maschile possiede, e che quando muore viene dato alle fiamme, in un rito purificatore che richiama il fuoco delle lanterne galleggianti che caratterizzano il film fin dalla scena iniziale, quando vengono accese nella vasca da bagno della protagonista in ricordo del poeta Qu Yuan. Il rosso delle lanterne, di questo fuoco, del sangue di Bepi ferito che lo preannuncia e anche dell’ombrello di Shun Li quando arriva l’acqua alta e l’azzurro di quest’acqua che pervade il film, di questo mare azzurrissimo in alcune inquadrature e quasi bianco in altre, un mare freddo, autunnale ma in qualche modo accogliente, lo stesso mare che c’è nella terra di Shun Li, solo “più piccolo”, e il fatto che sembri più piccolo dipende dalla distanza (la “giusta” distanza, i luoghi e la loro geografia, ma anche il punto di vista da cui li si guarda: che può anche far scoprire che non sono poi così diversi). (...) Questa è una realtà che non è la sua [di Shun Li], in effetti; lei si sente intrappolata, chiusa anche se non sembra (il vetro), come l’acqua che dalla laguna non riesce a tornare al mare; mentre i numerosi specchi (tra cui quello che sta dietro al bancone del bar su cui si specchia anche Bepi nel momento del loro addio) rendono l’idea di una realtà seconda, altra, “non vera” o comunque non possibile. Che riguarda anche lui. Nebbia e acqua, si diceva. L’acqua alta che entra nel locale e su cui Bepi posa un lumino acceso, per onorare Shun Li e il suo poeta: ma anche il fuoco che chiude circolarmente il film, e significativamente. I primissimi piani ancora, e i campi lunghi del paesaggio nella sua malinconia. Le parole che non servono. Nemmeno per descrivere i film quando sono così interessanti, e al contempo così suggestivi. Perché lo sguardo di Segre è uno sguardo essenzialmente poetico, metaforico e poetico, ma di una poesia che si sostanzia di un valore civile e morale. Che è il massimo che si possa dire di un’opera di finzione, specie se si tratta della prima.
PPaola Brunetta, Cineforum, n. 508, ottobre 2011
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