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CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
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Giovedì 29 marzo 2012 – Scheda n. 21 (860)
Il mio nome è Khan
Titolo originale: My Name Is Khan
Regia: Karan Johar
Sceneggiatura: Shibani Bathija. Fotografia: Ravi K. Chandran.
Montaggio: Deepa Bhatia. Musica: Shankar, Ehsaan e Loy.
Interpreti: Shah Rukh Khan (Rizvan Khan), Kajol (Mandira Rathore),
Katie Keane (Sarah Garrick), Christopher B. Duncan (presidente Barack Obama),
Parvin Dabbasa (Bobby Ahuja).
Produzione: Dharma Productions. Distribuzione: Fox.
Durata: 155’. Origine: India, 2010.
Karan Johar
Nato a Bombay, oggi Mumbai, in India, nel 1972, Karan Johar ha debuttato come regista nel 1998 con Kuch Kuch Hota Hai, film che ha avuto nel suo paese uno straordinario successo. Nel 2001 ha realizzato l’epico Kabhi Khushi Kabhie Gham, record di incassi in India e all’estero, primo film indiano a entrare tra i primi dieci incassi negli Usa. Nel 2006 ha diretto Kabhie Alvida Naa Kehna, altro successo internazionale, e, nel 2010, il film di stasera, Il mio nome è Khan. È molto raro che si vedano sugli schermi italiani dei film indiani. Il pubblico occidentale non conosce quasi nulla della produzione indiana. Bollywood non arriva da noi: ed è un peccato perché molti film del cinema popolare indiano sono belli, profondi e anche particolari, pieni di musiche e con storie dai molti risvolti narrativi. Vedere dunque un film come Il mio nome è Khan è un’occasione unica per farsi un’idea di quello che è il cinema di un paese che negli ultimi anni ha cominciato a uscire da una condizione di inferiorità economica. La parola a Johar: «Ambientare un’epopea drammatica nell’America del dopo 11 settembre è una scelta che ci si aspetta da un regista statunitense contemporaneo. Ma l’effetto dirompente di quell’evento catastrofico travalica confini e ideologie. Ho realizzato questo film con l’intenzione di offrire una prospettiva diversa a un mondo tuttora preso nella morsa dell’intolleranza culturale. Volevo mescolare una vicenda personale e un’atmosfera più larga, volevo raccontare la storia di una coppia indiana mista negli Stati Uniti del dopo 11 settembre. La coppia si trova ad affrontare l’irrequietezza sociale, problema con cui hanno avuto a che fare molti cittadini provenienti dal Sud Est asiatico, visti nel loro insieme, in modo del tutto insensato, come terroristi, unicamente a causa dei loro tratti somatici e di una falsa iconografia. Volevo anche comprendere gli effetti di queste dinamiche sui cittadini di etnia sikh, che sono arrivati al punto di negare la loro identità religiosa nel timore di subire rappresaglie. Il film è fondamentalmente una storia d’amore epica tra due persone: cambio l’ambientazione dei miei film, ma la costante di tutti i miei progetti è il desiderio di esplorare i modi in cui due persone possono innamorarsi e rimanere innamorate, a prescindere dalle difficoltà che devono affrontare».
La critica
Per una cinquantina di minuti – quelli iniziali – il film mette a proprio agio. Distende e prepara alla visione di una commedia senza particolari pretese se non l’esibito richiamo a due film che furono di grande impatto: Rain Man e Forrest Gump. I limiti di una possibile, e in parte plausibile interpretazione critica non sembrano andare oltre la solita considerazione della spiccata sensibilità insita in una condizione che si apparenta all’autismo. Data per scontata l’immediata adesione emotiva e civile alla difficile problematica esistenziale del protagonista e al tono leggero e svagato con cui questo film la affronta, non sembra restare altro che concentrarsi sulla bravura degli attori di questa ideale trilogia. È probabile a questo punto che l’evidente simpatia di Shah Rukh Khan, l’attore protagonista, possa poco contro la maestria da Actors Studio del grande Dustin Hoffman e la malleabilità indiscutibile di Tom Hanks. Qualunque altra considerazione spinta un po’ più in profondità, rischierebbe, in questi cinquanta minuti, di confermare la facilità in cui si può cadere in ciò che si definisce interpretazione aberrante. Meglio dunque godersi un onesto prodotto della onesta, per quanto pletorica, cinematografia indiana e far buon viso a cattivo gioco. Dopotutto Il mio nome è Khan non sembra rovinare la serata di nessuno. Ma le cose si complicano un po’ con l’andare avanti del film. Piacevolmente, voglio dire. Nel senso che, toccata d’improvviso la fatidica data che più di ogni altra sembra aver stravolto la nostra recente contemporaneità, il film rivendica uno spessore di contenuto sul quale vale la pena di riflettere un po’. Dunque, ci si sveglia una mattina e dai notiziari si apprende che stiamo vivendo in diretta un discrimine temporale, morale, etico, di drammatica contrapposizione di valori e di civiltà. La caduta delle Torri Gemelle rimanda agli occhi sbigottiti di Rizvan e della sua bella moglie Mandira le stesse identiche immagini che quasi tutti noi abbiamo visto allora. La reazione dei due coniugi è identica a quella di molti e molti in quelle stesse ore. Sgomento. Incredulità. Paura. Il senso che niente sarà mai più come prima. Un viaggio in aereo, uno spostamento in treno, l’utilizzo quotidiano della metropolitana. Tanto da poter cominciare a ragionare nei termini di prima dell’undici settembre e dopo l’undici settembre. E poi, la pentola dell’intolleranza, del pregiudizio, della poca conoscenza che viene scoperchiata. Per ragioni narrative che sono ovvie ma non banali, il film prosegue sul dramma che nasce dalla facile intolleranza e che trova il suo ideale capro espiatorio nel figlio di Mandira che, da quando la madre si è risposata, ha assunto il cognome del suo nuovo padre musulmano. Basta questo perché un gruppo di coetanei, esacerbati dai militari americani morti in “missioni di pace”, lo ammazzino di botte. Ora, Il mio nome è Khan possiede la giusta dose di equilibrio e di saggia lungimiranza da non concentrarsi ed esclusivamente sull’abnorme intolleranza anti-musulmana del dopo 11 settembre ma, ovviamente, ne retrodata l’esistenza e ne coglie il segno opposto. Per esempio nell’intransigenza con cui il fratello di Rizvan si oppone, fino a troncare ogni rapporto, al suo matrimonio con una donna di fede induista. Su questa complessiva presa di posizione ideale che è l’impianto contenutistico del film, poggia poi il suo dato caratteristico. Che dal punto di vista narrativo riprende l’esperienza del viaggio, ma sarebbe meglio dire della marcia solitaria, su cui Robert Zemeckis ha costruito il suo Forrest Gump. La divergenza è però netta per quanto riguarda la prospettiva politica da cui si guarda il mondo in generale e l’America in particolare. Voglio dire che si passa da un’analisi storico-politica complessiva dell’ultimo mezzo secolo americano, condotta attraverso lo sguardo ingenuo e disincantato del suo protagonista, al frontale impatto che un personaggio passionale, per nulla disincantato, cerca con un modo di essere e di pensare collettivo. E dunque si passa da un’analisi ampia, un po’ nostalgica e spettatoriale (Forrest Gump guarda e, quando partecipa lo fa inconsapevolmente) nel quale una comunità democratica può rispecchiarsi, a una lotta individuale e drammatica. In questo è il senso della frase, semplice eppure inappellabile “Il mio nome è Khan, e non sono un terrorista” che Rizvan vuol lanciare al Presidente americano e, dunque, al popolo americano e a buona parte del mondo occidentale. Che poi riesca a farlo solo alla fine del suo viaggio, dopo infiniti tentativi e soltanto grazie alla disponibilità del nuovo presidente Barack Obama, questo è un discorso che tocca più le corde della speranza che quelle della certezza. Confermando che pure la Storia reclama sempre il suo giudizio netto su chi ne è protagonista e responsabile. Cose dette e ridette, si dirà. Certo. Ma di questi tempi qualunque occasione è buona per rammentarlo.
AAttilio Coco, Segnocinema, n. 167, gennaio – febbraio 2011
Rizvan Khan soffre sin dalla nascita di una particolare forma di autismo, la Sindrome di Asperger che gli consente di comunicare meglio in forma scritta che orale e che gli impedisce di intuire le reazioni altrui. Cresciuto con la madre e un fratello geloso delle attenzioni che gli venivano dedicate ha sviluppato una particolare abilità nel riparare guasti meccanici. Dopo la morte della genitrice il fratello, emigrato e in carriera da tempo, gli trova un lavoro come rappresentante di prodotti cosmetici negli Stati Uniti. Qui Khan conosce Mandira Rathore, madre single di un ragazzino a cui l’uomo si affeziona e che prenderà il suo cognome. Proprio dal cognome musulmano (Mandira è indù) inizieranno i problemi per il ragazzino dopo l’11 settembre 2001. La tragedia è in agguato. “Il mio cognome è Khan ma non sono un terrorista”. Questa è la frase che Rizvan Khan (novello Forrest Gump concepito a Bollywood) ‘deve’ dire al Presidente degli Stati Uniti dopo che il senso di colpa di essere musulmano è stato scaricato sulle sue spalle con forza. Il cinema indiano ha ormai saputo trovare in se stesso quella forza narrativa che alle latitudini italiche si vorrebbe avere ma che troppo raramente si riesce a concentrare. Riuscire a produrre e girare dei film che coniughino la spettacolarità sotto forma di grande mélo con la volontà di affrontare importanti temi della contemporaneità non è sempre impresa facile. Karan Johar riesce a sviluppare i molteplici argomenti della diversità senza mai assumere toni predicatori e toccando tutte le corde del pubblico. L’handicap mentale, la separazione all’interno dell’universo religioso del subcontinente asiatico, l’irrazionale caccia al musulmano scatenatasi dopo l’attentato alle Twin Towers entrano come temi forti in un film che non disdegna la scena strappalacrime così come, nella migliore delle tradizioni, la sequenza con tanto di canzone e di danza. In un film oversize come durata ma che scorre senza mai annoiare.
GGiancarlo Zappoli, mymovies.it
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