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CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
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Giovedì 5 aprile 2012 – Scheda n. 22 (861)
Sorelle Mai
Regia e sceneggiatura: Marco Bellocchio
Fotografia: Marco Sgorbati, Gian Paolo Conti. Montaggio: Francesca Calvelli.
Musica: Carlo Crivelli, Enrico Pesce.
Interpreti: Pier Giorgio Bellocchio (Giorgio), Elena Bellocchio (Elena),
Donatella Finocchiaro (Sara),
Letizia Bellocchio, Maria Luisa Bellocchio (le zie di Sara e Giorgio),
Gianni Schicchi (Gianni), Valentina Bardi (Irene),
Alberto Bellocchio (il preside),
Alba Rohrwacher, Irene Baratta, Anna Bianchi (le professoresse).
Produzione: Kavac. Distribuzione: Teodora.
Durata: 105’. Origine: Italia, 2011.
Marco Bellocchio
Bellocchio torna e ritorna al nostro Cineforum. È nato nel 1939 a Bobbio (Piacenza), luogo dove passa le vacanze ogni estate nella casa di famiglia, dove tiene una scuola di cinema, dove ha realizzato questo Sorelle Mai. Il suo esordio con I pugni in tasca (1965), girato a Bobbio, segna una svolta nel cinema italiano. Gusto estetico e rabbiosa forza di denuncia, distruttiva, crudele, sfornata. Del 1967 è La Cina è vicina, poi il collettivo Amore e rabbia (1969), Sbatti il mostro in prima pagina (1972), Nel nome del padre (1972), Matti da slegare (1975), Marcia trionfale (1976), Il gabbiano (1977, da Cechov), Salto nel vuoto (1980), Gli occhi, la bocca (1982) e i film girati con lo psicanalista Massimo Fagioli, Diavolo in corpo (1986), La visione del Sabba (1988), La condanna (1991), Il sogno della farfalla (1994). Sottrattosi allo psicanalista, Bellocchio torna a girare libero ed efficace: Il principe di Homburg (1997, da Kleist), La balia (1999), il bel doc sulla lirica Addio del passato (2000), il perfetto L’ora di religione (2002), Buongiorno, notte sul sequestro Moro, Il regista di matrimoni, Vincere sul mito italiano del salvatore politico. Sorelle Mai guarda alla sua storia personale, alle due vecchie zie, ai luoghi della vita ed è stato realizzato con gli studenti del Laboratorio Fare Cinema. Sentiamo Bellocchio: «Ho accettato l’idea di tenere il laboratorio di regia Fare Cinema, a Bobbio, mettendo dentro all’esperienza qualcosa di personale che mi consentisse un atteggiamento non teorico ma di partecipazione e personale divertimento. Si vede infatti nel film una bambina, mia figlia, crescere dai quattro ai quattordici anni. E l’altro figlio, di vent’anni più grande, in continui travestimenti, come se fosse inseguito da vari fantasmi... Nella mia storia giovanile c’è stata la ribellione e anche il coraggio del distacco, che non ha lasciato in me rimpianti o sensi di colpa, se non l’inevitabile confronto tra il mio destino e quello delle mie sorelle che invece sono rimaste in paese. Mai, in Sorelle Mai, è un cognome di fantasia, ma anche allude a quella trappola che per le due sorelle è stata la famiglia. Senza aver avuto la possibilità di una vita autonoma (nel senso che sono sempre state scoraggiate ad averla), sono rimaste sempre in casa come certe signorine dell’Ottocento, in un mondo gozzaniano o pascoliano, o cecoviano. Io che sono più giovane non ho responsabilità oggettive di questa loro “prigionia”, ma sento ugualmente una certa tristezza per la loro vita di confortevoli rinunce. E tanto affetto. Sorelle Mai è dedicato a loro. Il film racconta la crescita di una ragazza e le trasformazioni dell’ambiente intorno a lei. Avendo girato nel corso di dieci anni e senza alcuna idea di raccogliere gli episodi in un film, abbiamo lavorato in maniera libera, spontanea. Gli episodi nascevano uno dall’altro, da un anno all’altro. È il tempo il vero protagonista del film, ne regge l’intero senso, oltre ogni valutazione estetica. Che si conclude definitivamente nel tempo presente. Ho inserito dei piccoli frammenti de I pugni in tasca non per una citazione intellettualistica, ma perché essendo gli stessi luoghi, gli stessi ambienti, mi piaceva inabissare improvvisamente e rapidamente la storia di Sorelle Mai in un’altra storia lontanissima nel tempo. Vissuta e rappresentata cinquant’anni prima. La casa del mio primo film da allora non è molto cambiata. Ma, almeno per me, non è più popolata di fantasmi».
La critica
Con una certa periodicità a partire da Vacanze in Val Trebbia (1980), Marco Bellocchio frequenta i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza – l’immutabile “natìo borgo selvaggio”, le sue viuzze, il palazzo avìto, i meandri del fiume – nel tormentato quanto necessario recupero di una stagione con la quale forse non si è mai illuso di avere fatto definitivamente i conti. Immaginiamo che le motivazioni e le urgenze che stanno dietro questo eterno ritorno vadano ben oltre il laboratorio Fare Cinema, una scuola estiva di regia e recitazione che si tiene da anni a Bobbio, affiancata da un piccolo festival le cui proiezioni si svolgono nel chiostro dell’abbazia di San Colombano. Sorelle Mai, che del laboratorio è figlio, è un po’ la sintesi, forse destinata a ulteriori sviluppi, di un articolato work in progress. Pur essendo solo in parte autobiografico, il film accumula laboriosamente e con fatica le stratificazioni di un vissuto, anche cinematografico. Per questo alcune corrispondenze vengono sottolineate da fulminee citazioni di I pugni in tasca (1965), che funzionano in qualche modo da flashback. Ma ben presto i richiami al capolavoro d’esordio, la cui iterazione avrebbe potuto diventare ingombrante, vengono abbandonati in funzione di un addio del passato che è anche recupero del passato stesso, o di un approccio più maturo legato all’età e alle esperienze. Come sapevano i classici, la comprensione passa attraverso la sofferenza, solo il dolore può aprire a una prospettiva di pacificazione. Il processo si incardina nel riconoscimento di quella saggezza antica personificata dalle zie e dall’amico di sempre dal nome pucciniano, Gianni Schicchi, ma anche nella rivisitazione di colori, profumi e sensazioni legate ai luoghi. Curiosamente ma non troppo, Bellocchio il nichilista, l’anarchico, l’eversore, sembra avvicinarsi per certi versi al (quasi) corregionale Pascoli nella disarmata e diretta semplicità della rievocazione se non del rimpianto, introiettando la sua “poetica del fanciullino” che contempla attonito le cose con uno sguardo vergine e primigenio. Contemporaneamente, però, il regista piacentino rimane attaccato a un’idea di complessità maturata attraverso anni e stratificazioni culturali, ad esempio assumendo il fiume come elemento amniotico ma anche luogo della purificazione (la magnifica sequenza in cui Sara recita la scena della pazzia di Lady Macbeth sotto la pioggia, mentre Giorgio nuota in quelle stesse verdi acque del Trebbia in cui la sorella cerca di lavarsi forsennatamente le mani). Pur caratterizzandosi come ibrido giocato sull’esiguità dell’intreccio e su immagini ostentatamente povere, Sorelle Mai riesce dunque a toccare corde profonde. Lo fa, anche, servendosi di rimandi ad autori da sempre congeniali a Bellocchio. Cechov innanzitutto, letto nelle prime battute da Giorgio, modellato in parte sullo Andrej di «Le tre sorelle». Di questo capolavoro il film condivide senso di frustrazione e derive esistenziali, anche se ne inverte la vettorialità: mentre Ol’ga, Masa e Irina sognano gli splendori di Mosca come riscatto della mediocrità provinciale, il regista, come anticipavamo, sembra piuttosto impegnato in un itinerario à rebours, all'indietro, di riappropriazione di quell’humus di paese e famiglia contro il quale più di quattro decenni fa si era abbattuta la sua rabbia iconoclasta. Poi Verdi, nella rappresentazione en plein air nel corso della quale vengono eseguite due tra le più celebri romanze del «Trovatore», che in altro contesto avrebbero rischiato di sembrare (alla maniera di Bertolucci?) stucchevoli, ma qui sono percepite come tessere necessarie per la ricomposizione di un mosaico identitario. Infine Kleist, già frequentato tangenzialmente in Il sogno della farfalla (1994), direttamente in Il principe di Homburg (1997), per quelle accensioni febbrili, quei tempi sospesi, quelle atmosfere subliminali che costituiscono uno dei pezzi forti dell’armamentario poetico del regista: si vedano la sequenza della ragazza che ha conosciuto Giorgio tredicenne, con il quale si è scambiata una promessa e che lo bacia non venendo riconosciuta, o quella davvero straordinaria dell’uscita di scena di Gianni Schicchi, ineffabile uomo in frac che si inabissa nel fiume mettendo una (provvisoria?) pietra tombale alla vicenda. Al di là di un atteggiamento esistenziale mutato, in Sorelle Mai, a nostro avviso uno dei momenti alti nella filmografia ricca ma altalenante di Bellocchio, ci sono tuttavia due aspetti nuovi che meritano una veloce sottolineatura. Innanzitutto, alcuni momenti di schietta comicità, merce rara in un autore votato semmai al grottesco (cfr. in particolare La Cina è vicina [1967]): lo show di un insegnante che, nel corso di un consiglio di classe surreale ma non poi più di tanto, prima recita l’invettiva del tenente Mahler nel pre-finale di Senso (1954), poi si lancia in uno haendeliano «Alleluia!», o il cocciuto interesse di zia Letizia per l’acquisto di una cappella del cimitero limitrofa a quella di famiglia, mentre il notaio sta stipulando la ben più importante vendita dell’appartamento di Sara. Quasi che il film, oltre all’approdo a una considerazione più pacificata di se stesso, significhi per l’autore il recupero di un senso dell’umorismo altrove poco praticato. Poi, l’aspetto in qualche modo metalinguistico, figlio forse dell’occasione e delle modalità realizzative. Pur non essendo un vero e proprio film teorico sul cinema, come lo sono, ad esempio, La finestra sul cortile (1954) o L’occhio che uccide (1960), per limitarci a due esempi grandissimi, Sorelle Mai riesce comunque a riflettere – e a far riflettere, spettatori e allievi della scuola – sul proprio farsi, procedimento miracolosamente risolto in quella che potremmo chiamare compatta frammentazione, su necessità di budget che sanno diventare virtù di idee e creatività, oltre che equilibrio nella direzione di attori e non attori, sui quali Bellocchio, grazie a un girato che copre un decennio, può mostrare davvero la morte al lavoro.
PPaolo Vecchi, Cineforum, n. 503, aprile 2011
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