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Giovedì 19 aprile 2012 – Scheda n. 24 (863)
Michel Petrucciani – Body & Soul
Titolo originale: Michel Petrucciani
Regia e sceneggiatura: Michael Radford
Fotografia: Sophie Maintigneux. Montaggio: Yves Deschamps.
Con: Michel Petrucciani, Alexandre Petrucciani,
Aldo Romano, Frank Cassenti, Joe Lovano,
John Abercrombie, Charles Lloyd, Francis Dreyfus, Ron McClure.
Produzione: Les Films d’Ici. Distribuzione: Pmi.
Durata: 90’. Origine: Francia, Germania, Italia, 2011.
Michael Radford
Serata particolare al Cineforum. Dedicata a un film che è un documentario, ricostruzione di una vita e di una figura molto speciale. Cominciamo dal regista. Nato a Nuova Delhi nel 1946 da padre inglese e madre austriaca, Michael Radford studia ad Oxford, poi si iscrive alla National Film School e tra fine anni Settanta e inizio Ottanta realizza documentari per la BBC come The Last Stronghold of the Pure Gospel, Three Men Up a Goat, La Belle Isobel e soprattutto Van Morrison in Ireland (1980), esibizione dal vivo del cantautore irlandese registrata a Belfast nel 1979. Nello stesso anno esordisce nella finzione con The White Bird Passes (1980). Del 1983 è il suo film migliore, Another Time, Another Place – Una storia d’amore (visto al Cineforum). Orwell 1984 è il film successivo, trasposizione – girato nello stesso anno immaginato dal romanzo – del capolavoro di George Orwell. Sono poi venuti Misfatto bianco (1987), il suo film più noto, Il postino (1994), con Massimo Troisi, scomparso poco dopo la fine delle riprese; quindi una serie di film molto più deludenti, B. Monkey – Una donna da salvare (1998), Dancing at the Blue Iguana (2000), Il mercante di Venezia (2004) con Al Pacino, e Un colpo perfetto (2007). Con Michel Petrucciani - Body & Soul, Radford torna al documentario, come ai suoi inizi.
Veniamo adesso a qualche notizia sulla figura del protagonista del film. Michel Petrucciani aveva una malattia genetica, l’osteogenesi imperfetta, che rende le ossa fragilissime e che impedisce al corpo di crescere. Era di Orange, nel Sud della Francia, nato nel 1962; suo nonno era di Napoli e il padre Antoine, conosciuto come Tony, era un rinomato chitarrista jazz. Michel imparò fin da bambino a suonare la batteria e il pianoforte. Si dice che a quattro anni vide Duke Ellington in tv e immediatamente pretese un pianoforte. I genitori gli comprarono un pianoforte giocattolo. Michel prese un martello e lo fece a pezzi. Dovettero compragliene uno vero. All’età di 7 anni era un bambino prodigio. A 13 anni si esibì in pubblico e la sua carriera professionale prese avvio a 15 anni, quando ebbe l’occasione di suonare col batterista e vibrafonista Kenny Clarke, con cui registrò il suo primo album a Parigi. Dopo un tour francese col sassofonista Lee Konitz, nel 1981 si trasferì a Big Sur, in California, dove il sassofonista Charles Lloyd lo volle nel suo quartetto. Suonò quindi con musicisti del calibro di Dizzy Gillespie, Jim Hall e Wayne Shorter. Petrucciani non imparò a camminare con le grucce che a 25 anni: adorava essere trasportato in braccio, specialmente dalle donne. Raggiunse altissimi livelli di bravura e il suo tocco divenne inconfondibile. È sepolto nel cimitero parigino del Père Lachaise accanto alla tomba di Frédéric Chopin.
La parola a Robert Redford: «Prima di cominciare a preparare il film conoscevo la musica di Michel Petrucciani, ma non l’uomo. Non sapevo nulla di lui. Ed è stata una scoperta incredibile. Michel è una persona che avrei voluto conoscere, un uomo dotato di un gradissimo talento: il talento di vivere. La sua storia è una lezione per tutti. Il film nasce per raccontare la sua gioia... Non ho avuto nessuna difficoltà a trovare documenti e materiali, ho chiesto ad amici e parenti di Michel di darmi tutto il possibile su di lui: home video del matrimonio, filmini in cui Michel si droga. Non volevo fare un film televisivo o informativo: ho cercato di scavare in profondità, cercando l’uomo. Faccio un esempio. A un certo punto trovo un’intervista in cui un giornalista chiede a Michel: «Com’era la tua vita a New York?». E lui risponde: «Andavo ai musei». L’intervista era stata montata fin qui. Poi però c’è un silenzio lunghissimo, almeno 30 secondi, dopo il quale Michel dice: «Prendevo molta droga in quel periodo, troppa». Ecco, in quel silenzio c’è tutto il personaggio. Non volevo fare l’agiografia di un santo: volevo momenti capaci di raccontare la sua personalità. Anche per questo, nelle interviste che ho fatto alle persone che l’hanno conosciuto, ho lasciato parlare a ruota libera chi avevo davanti. Sono tutte persone che trovo interessanti, aldilà dei loro ricordi... Ho scelto la musica in modo istintivo. Il documentario è un gran lavoro di montaggio e la musica è stata scelta in base alle immagini che avevamo deciso di usare. All’inizio è virtuosa, tecnicamente brillante, come deve essere la musica di un giovane molto dotato. Poi cambia, perché Michel cercò presto altre strade: diventa fusion, più alla moda. E infine è una musica semplice e profonda, fatta di poche note: sapevo che l’ultimo brano del film sarebbe stato “Cantabile”, mi fa sempre piangere quando l’ascolto».
La critica
Il film Michel Petrucciani – Body & Soul di Michael Radford è una specie di cartolina precetto per i cultori del jazz, assai più che per quelli del cinema. Mettiamo pure nel conto la curiosità (sbagliata) di chi voleva vedere chi avrebbe recitato il ruolo di Petrucciani, cioè di un uomo alto un metro e due centimetri. Ma non c’è nulla di tutto questo perché non si tratta di un film, bensì di un documentario molto bello, presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Cannes, che è stato realizzato con materiali di archivio e testimonianze di parenti e di amici sul Petrucciani autentico, per cui lo vediamo suonare, viaggiare, parlare, amare, sfinirsi per il jazz, lui così fragile (fino a 220 concerti all’anno) e infine morirne a 36 anni appena compiuti. Nel film tutti parlano la propria lingua madre con sottotitoli in italiano a volte incauti (succede che siano in bianco su colori chiari e quindi illeggibili). È molto indovinato il titolo. Quel Body & Soul, mutuato dal gettonatissimo tema di Johnny Green. Sintetizza il significato della vita del piccolo grande pianista: lo spirito che domina la materia, la lotta vittoriosa di Petrouche (così i francesi lo chiamavano affettuosamente) contro la sua terribile malattia, l’osteogenesi imperfetta che gli era causa di fratture per urti anche lievi e che gli impedì di crescere oltre il metro di altezza. Fu la musica – il jazz, subito prescelto per l’influenza del padre Antoine, chitarrista a livello semiprofessionale, e dei fratelli Louis contrabbassista e Philippe anch’egli chitarrista – a dare un senso, e quale senso, alla sua vita con lo studio quotidiano del pianoforte oltre i limiti dell’umano, nove dieci ore al giorno fin dall’infanzia seguite da autoregistrazioni e da ascolti critici. Si dotò in questo modo di una tecnica straordinaria e di suono e di tocco particolari e riconoscibili, certo non lontani dal modello di Bill Evans, ma originali. Eppure sarebbe stato utile e giusto che il documentario di Radford avesse accennato, magari con una voce fuoricampo, all’ovvia diffidenza iniziale dei francesi verso quel pianista che si doveva slanciare a destra e a sinistra per suonare le note alte e basse, e che arrivava ai pedali per mezzo di un insolito marchingegno. Era difficile pronosticargli il successo enorme che ebbe poi quando, diventato ricco, poté permettersi un pianoforte gran coda a sua misura e portarselo in giro per il mondo. Non darei importanza eccessiva alle donne della vita di Petrouche, da lui sposate o meno, sebbene il regista deleghi a loro buona parte del compito di raccontarcelo. Sono interessanti per il pubblico, indotto a immaginare cinque belle donne che si occupano del piccolo uomo – qualcuna scende in particolari – ma non altrettanto per Petrouche, almeno secondo chi lo abbia ben conosciuto per motivi professionali. Due gli diedero un figlio, il primo normale, ma Petrouche ne volle un altro che nacque affetto dall’osteogenesi. Fra gli italiani, lo ricordano bene gli spettatori del festival di Sant’Anna Arresi del 1998: un bimbo minuscolo che arrancava con le grucce come suo padre, il quale per molto tempo non poté camminare e spesso fu portato in braccio anche sul paloscenico. Il nucleo portante del film sono le testimonianze e le immagini degli episodi fondamentali. Il primo concerto pubblico a 12 anni con la formazione di famiglia. L’ammirazione del famoso trombettista Clark Terry (1978) che lo vuole con sé. L’amicizia, la protezione, la collaborazione affettuosa del batterista Aldo Romano con cui nel 1980 incide Flash, il primo disco di una serie interminabile. Il viaggio in California nel 1982 dove conosce il sassofonista Charles Lloyd, ritiratosi dalla musica per una crisi mistica, che dopo averlo ascoltato torna a suonare e riunisce un quartetto con Petrucciani che viene in tour anche in Italia. I dischi per etichette minori, poi i singoli e i box per Blue Note e Dreyfus. Gli innumerevoli concerti in gruppo e da solo, restituiti con primi piani delle sue mani vorticose, fino al grande bagno di folla per il Congresso eucaristico di Bologna del 1997 alla presenza di Papa Giovanni Paolo II. I vari dvd, in primis Power of Three da lui prediletto con Jim Hall chitarra e Wayne Shorter sassofono, catturato al Montreux Jazz Festival 1986 e due film, rispettivamente in trio e da solo, di Roger Willemsen e di Frank Cassenti. Infine, sebbene il film non ne faccia cenno, Sant’Anna Arresi Jazz 1998. Lì si era capito, per il superlavoro e la stanchezza di Petrucciani, nei suoi ultimi anni innamorato più che mai di Duke Ellington, che il capolinea era vicino. Non è una memoria fondata sul senno di poi.
FFranco Fayenz, www.ilfoglio.it/musica
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