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Giovedì 26 aprile 2012 – Scheda n. 25 (864)
Post mortem
Regia: Pablo Larraín
Sceneggiatura: Pablo Larraín, Mateo Iribarren, Eliseo Altunaga.
Fotografia: Sergio Armstrong. Montaggio: Andrea Chignoli.
Musica: Alejandro Castanos, Juan Cristóbal Meza.
Interpreti: Alfredo Castro (Mario Cornejo), Antonia Zegers (Nancy Puelma),
Jaime Vadell (il dottor Castillo), Amparo Noguera (Sandra),
Marcelo Alonso (Víctor), Marcial Tagle (il capitano Montes).
Produzione: Fabula. Distribuzione: Archibald.
Durata: 98’. Origine: Cile, 2010.
Pablo Larraín
Nato a Santiago del Cile nel 1976, Pablo Larraín ha studiato comunicazione audiovisiva, ha fondato Fabula, una compagnia di produzione cinematografica, televisiva e pubblicitaria, e nel 2005 ha diretto il suo primo film, Fuga. Del 2007 è Tony Manero, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs, a Cannes, premiato come miglior film al Torino Film Festival e candidato all'Oscar quale miglior film straniero. Post Mortem è il suo terzo film, anch’esso presentato e premiato in molti festival internazionali. Il film è ambientato, come già Toni Manero, nel Cile del colpo di stato e dell’uccisione del Presidente Allende, nel 1973.
Sentiamo il regista: «L’ideale del protagonista Mario, di conquistare l’amore impossibile di una donna, è anche l’ideale della nazione che insegue un modello politico - il socialismo -, tra i cadaveri di coloro che sono stati uccisi in nome di quegli stessi ideali militari imposti con noncuranza, senza misurare i costi e le conseguenze. Post Mortem, ambientato in uno dei periodi più bui e sanguinosi della storia del Cile, attraverso l’incrocio di tre registri cinematografici, estetici ed etici - testimoniale, storico e narrativo - va in cerca della sua funzione poetica attraverso il turbamento, l’assurdità e la conseguenza di un viaggio senza scopo... Post Mortem è cominciato da un articolo che avevo letto sul giornale. Si parlava di un uomo, Mario Cornejo, che aveva realizzato, il giorno del colpo militare e insieme a noti medici, l’autopsia all’ex presidente della Repubblica Salvador Allende. Questo piccolo articolo ha dato vita alla storia di un uomo anonimo, alla dimenticanza che sviluppa la storia ufficiale sul vero protagonista di un fatto tanto rilevante del nostro Paese. Quali circostanze hanno consentito a quest’uomo di partecipare tanto attivamente, senza essere visto, alla storia del Cile? Questa domanda ha scatenato la storia... Sono cresciuto ascoltando le narrazioni sul colpo militare. Siccome non le ho vissute, quell’evento storico è diventato, per me e per tutta la mia generazione, una scatola chiusa, un enigma, un fantasma. Mi perturba, m’insegue, m’interessa, mi commuove e, nei miei due ultimi film, quei giorni spaventosi sono stati lo sfondo e il contesto dove si snodano piccole storie intime, di esseri marginali, e ho cercato la possibilità di stabilire un’analogia, mettendo il nonsenso tra queste storie tanto personali e l’avvenimento della Grande Storia. Desidero che ciò che è nell’ambito fantasmagorico e velato, illumini il ricordo di quel passato, cercando il sedimento di un contesto, con la necessità di ricostruire qualcosa per dopo romperla. È la narrazione di una scena immaginata, non vissuta, sfocata, attraversata da corpi che non ho conosciuto, ma che cerco di recuperare, di un’immagine nebbiosa, indefinita e mal partorita. Come un sogno che si ricorda a pezzi. Soltanto i pezzi... Quella di Allende non è soltanto l’autopsia di Salvador Allende: è l’autopsia di Allende e della vita nebbiosa di Mario Cornejo. Perché ciò che m’interessa è la tensione tra queste due scene che incrociate costituiscono “La Scena” della nostra storia. Salvador Allende, e quello che lui simboleggia, mi ha sempre commosso. La sua figura, che sempre dovette lottare con l’amore e l’orrore, con il sogno e la vergogna, che finì vittima di un fascismo ancora vivo, a volte mascherato, a volte scoperto. E le vite di Raúl Peralta (Tony Manero) e Mario Cornejo e Nancy mi commuovono con la stessa forza... Quanto al linguaggio del film, all’inizio avevo pensato di utilizzare una videocamera portatile che vedesse, come un testimone in diretta, i fatti raffigurati; ma quando ho iniziato le riprese, ho deciso di non muovere più la macchina da presa, ma di collocarla in uno spazio morto, quasi inerte, dove osservasse i fatti con cautela, in modo orizzontale, come se il mondo si estendesse verso i lati, senza cielo, senza Dio né terra. Lo sguardo oblungo è uno sguardo panoramico, che nasconde molto e quello che è nascosto, custodisce il vero mistero... L’attore Alfredo Castro continua a essere per me un punto di riferimento, rappresenta una combinazione di stranezza, profondità e originalità che fa sì che il protagonista diventi un essere invisibile, qualcuno che porta con sé un mistero insondabile. Ed è in quel mistero che Antonia Zegers, Nancy, insedia la stranezza, che fa sì che attraverso di lei e in lei si spieghi Mario, il suo amore malato; lei stabilisce il legame affinché lo spettatore si avvicini a Mario. Entrambi, estranei al contesto, alla storia, alla sciagura e al crollo, con il loro corpi sbagliati stanno, senza rendersene conto, rappresentando la tragedia di un Paese che li ignora e che anche loro ignorano».
La critica
Anche nel suo secondo film Pablo Larraín non ha saputo resistere alla forza che lo trascina verso il centro della sua ispirazione e che rappresenta il centro stesso della storia cilena. Post mortem nasce dalla medesima ossessione che faceva di Tony Manero, uno psicodramma tragico e grottesco e che ancorava l’identità del Cile contemporaneo alla realtà ineludibile della dittatura militare. Riprende perciò gli anni Settanta, affronta nuovamente il colpo di stato di Pinochet e il conseguente clima di paura e di morte per le strade di Santiago, ma non sceglie una metafora che faccia da schermo e da filtro per l’interpretazione, bensì va dritto al cuore del trauma, agli eventi del settembre 1973 che portarono al rovesciamento del governo socialista regolarmente eletto e all’insediamento di una giunta militare tramite colpo di stato e uccisione del presidente in carica Salvator Allende. Il Cile di oggi, per l’anima senza pace di Pablo Larraín, non può che ripartire da lì, da un riferimento usurato ma mai del tutto superato, ancora in grado di soffocare l’immaginario di un Paese e condannarlo a una sete di narrazione e mitologia che porta ad aggrapparsi a qualsiasi evento di portata nazionale, alla tragedia di uno dei terremoti più devastanti della modernità o alla favola per fortuna a lieto fine dei minatori sepolti vivi dal crollo di una galleria sotterranea. La calamita della Storia, però, è più forte del desiderio di ripartire, continua ad attirare vittime ignare perché figlie di un compromesso mai accettato eppure pienamente realizzato: il compromesso, cioè, con l’idea che la dittatura militare sia il momento fondativo della moderna società cilena e che lo sfascio collettivo messo in scena da Tony Manero, ambientato nel 1978 a dittatura ormai consolidata, non fosse altro che la resa al parassitismo culturale della società globale, prona ai modelli del capitalismo in quel caso perfettamente incarnati dall’eroe di John Travolta. Per Larraín, nato nel 1976, tre anni dopo la morte di Allende, la violenza sia esplicita sia invisibile dell’era Pinochet è una condizione prima di tutto naturale, un peccato originale inconfessabile ma necessario, perché unica realtà esistente per il suo Paese e per le persone della sua generazione. La colpa sta proprio nell’ineluttabilità di questo destino, in una condizione tanto storica quanto naturale di cui Larraín si sente partecipe e che sta alla base dell’antropologia negativa dei suoi due film idealmente quasi indistinguibili. Post mortem, dunque, è l’intera vita della società cilena, assuefatta e non più scandalizzata dalla morte e abbandonata al rumore sordo della propria indifferenza: come succede a un medico specializzato in autopsie, all’infermiera sua assistente o all’impiegato addetto alla trascrizione dei risultati, ma non per motivi scientifici, bensì esistenziali. (...) Larraín sa benissimo dove vuole arrivare, sa benissimo qual è il rimosso collettivo della sua nazione: solo ci vuole arrivare preparato, e soprattutto vuole preparare il suo pubblico. Per farlo gira attorno al problema, gli si avvicina a tentoni, gioca coi tempi di attesa e di preparazione, fa capire ma non mostra e si limita a suggerire (quanto somiglia l’immagine del dottore con l’elmetto all’ultima foto esistente di Allende, schiacciato dal casco militare e impaurito dalla prossimità della morte?): si capisce fin da subito dove si arriverà, ma non quando e non come. Sembra Hitchcock, e un po’ lo è, perché la morte gioca un ruolo decisivo e il corpo di Allende sottoposto ad autopsia emerge come un McGuffin (un elemento fondante, ndr) spaventoso, il corpo attorno a cui tutto ruota e che tutto quanto annulla, ennesima vita sacrificata alla naturale propensione al male dell’umanità, ma prima vittima di quella perversione della violenza che Larraín identifica con la dittatura fascista. (...) Il corpo morto di Allende, il corpo di stato che finalmente Larraín mette all’origine del suo cinema, con la sua presenza magnetica e irrimediabile realizza il vero obiettivo del regista: la messinscena della coscienza sporca di un intero paese, l’incontro con il rimosso che ogni giorno ritorna sotto altre forme. In questo senso, la sua operazione non potrebbe avere un valore più cinematografico, con un corpo umano che si trasforma in correlativo oggettivo dalle infinite implicazioni storiche ed etiche che coinvolgono un’intera Nazione. Oltre l’incontro con il fantasma reale e immaginifico della storia cilena, Larraín non può e non vuole andare: per questo c’è da augurarsi che Post mortem sia il suo ultimo film dedicato alle vicende successive al golpe del settembre ’73 e per questo, nello specifico del film, dopo la scioccante scena dell’autopsia dell’ex capo di stato, egli si affida alla ripetizione, all’accumulo e all’immobilità.
RRoberto Manassero, Cineforum, n. 499, novembre 2010
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