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CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
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Giovedì 3 maggio 2012 – Scheda n. 26 (865)
Somewhere
Regia e sceneggiatura: Sofia Coppola
Fotografia: Harris Savides. Montaggio: Sarah Flack.
Musica: Phoenix.
Interpreti: Stephen Dorff (Johnny Marco), Elle Fanning (Cleo),
Chris Pontius (Sammy), Caitlin Keats (Kate),
Kristina Shannon (Bambi), Karissa Shannon (Cindy),
Julia Melim (Sarah), Paul Greene (Ron),
Philip Pavel (Phil), Alexandra Williams (Nicole),
Brian Gattas (Paul Metcalf), Rich Delia (Richie),
Romulo Laki (Romulo), Laura Chiatti (Silvia),
Jo Champa (la moglie di Pupi), Benicio Del Toro (la celebrità in ascensore).
Produzione: American Zoetrope. Distribuzione: Medusa.
Durata: 98’. Origine: Usa, 2010.
Sofia Coppola
Figlia del grande Francis Ford Coppola, regista (Apocalypse Now) e da qualche anno produttore di vino californiano, Sofia Coppola, nata a New York nel 1971, respira cinema fin da piccola: a un anno, il papà la porta sul set del Padrino (1972), poi partecipa come attrice agli altri capitoli della saga (1974, 1990) e ad altri film girati dal padre, Rusty il selvaggio (1983) e Peggy Sue si è sposata (1986). Lavora nel campo della moda, fa la presentatrice televisiva e la fotografa, gira un primo cortometraggio, Lick the Star (1998), arriva alla notorietà internazionale con Il giardino delle vergini suicide (1999, dal romanzo di Jeffrey Eugenides, visto al cineforum), fa anche dei videoclip, famoso quello con una lap-dance di Kate Moss in bianco e nero sulle note di I just don’t know what to do with myself dei White Stripes. Sono quindi venuti il secondo film, anch’esso di successo, Lost in translation (2003, visto al Cineforum) e il terzo, Marie Antoinette (2006, visto sempre al Cineforum), ritratto di regina in costume settecentesco e musiche pop. Nel 2010, con questo Somewhere, Sofia Coppola ha vinto il Leone d’oro alla Mostra di Venezia.
Sentiamo la regista: «Ci sono tanti alberghi nei miei film. Anche la Versailles di Marie Antoinette era una specie di albergo. Il fatto è che, nella mia infanzia, ho vissuto molto tempo, di qua e di là, spostandomi da un posto all’altro con mio padre quando stava girando da qualche parte. Da bambina, ho sempre trovato interessante osservare la gente negli alberghi. In Somewhere il leggendario hotel Chateau Marmont dà subito la sensazione che Johnny sia intrappolato e incapace di maturare. Quando comincio a scrivere, di solito parto proprio dal personaggio e poi, subito dopo il protagonista, seguono i luoghi che lo modellano: quale città?, quale albergo?... Somewhere, ‘da qualche parte’, era un titolo provvisorio, si è incollato da solo al film. Volevo che il film fosse un poema sinfonico di questo tempo, nella vita di questo giovane, e questo titolo rifletteva la sua consapevolezza, il suo bisogno di andare da qualche parte, anche se non sa esattamente dove. Il film è ambientato nella Hollywood dei giorni nostri, ma non tratta nello specifico il mondo del cinema, chiunque può immedesimarsi nei temi universali della famiglia e della crisi personale. Pensavo alle star di successo che sono morte o hanno tentato il suicidio. Ero curiosa, se vivi una vita di festa continua, piena di ragazze e droghe e tutto, cosa provi svegliandoti al mattino? Trovi un momento per riflettere quando sei solo con te stesso?... Per me, questo è stato un buon esperimento, incentrare un film su due soli personaggi, focalizzato sulle loro storie intime, passando anche molto tempo solo con uno di loro. Non volevo che nessuno degli spettatori guardandolo fosse consapevole del processo di lavorazione per realizzare il film, lo spettatore deve stare lì, solo, insieme al personaggio... La storia comincia su toni scuri e, da sola, Cleo, la ragazzina, la illumina. Volevo che Johnny facesse le solite cose da genitore all’inizio e quindi porta Cleo alle lezioni di pattinaggio. Mi piaceva il suo scivolare sognante sul ghiaccio e la sua purezza, in contrasto con le spogliarelliste che abbiamo visto accompagnare il padre nel suo mondo. Volevo che la musica si sentisse veramente sulla pista in quel momento, fosse parte dell’esperienza. Cool è una canzone dolce ed è credibile che una bambina di undici anni possa pattinare ascoltandola. Mi piace la maniera in cui si sposa con la sequenza, è genuina. Volevo mostrare che Cleo è una ragazza in quella fase poco prima dell’adolescenza. Ho pensato che deve essere complicato, per un padre come Johnny, avere accanto una bambina che sta diventando una donna. Ecco cosa racconta questa scena per me».
La critica
A non sapere che si tratta di Sofia Coppola, di fronte alla prima inquadratura di Somewhere – due/tre minuti che sembrano il doppio, con una Ferrari che gira nel deserto, entrando e uscendo dai bordi fissi del quadro – si potrebbe anche pensare a un film, chessò, iraniano (l’ambientazione aiuta). Poi compare Stephen Dorff, e il film diventa un po’ più americano, anche se resta, come lui, arruffato. Arrivano infine due gemelle esperte in lap-dance a domicilio, belle e volgarotte, e la questione della nazionalità si risolve abbastanza pacificamente. Anche se quel modo di inquadrare – fissamente, a lungo, senza fronzoli, con tagli che sembrano quasi accidentali – allontana subito Somewhere dal fashion psichedelico, di musica e regia, del precedente Marie Antoinette. Quasi che, in trasferta nel mondo placcato d’oro di Hollywood, la Coppola abbia deciso di percorrere la strada di un quasi documentarismo spoglio – una specie di antidoto agli eccessi e ai luccichii dell’oggetto. E il lavoro sul corpo di Stephen Dorff – star (?) in decadenza, vicino ai quaranta, con carriera di bassi e bassissimi e riciclo intermittente nel cinema di consumo – percorre la stessa logica di spoliazione leggera ma insistita, senza rispetto per la bellezza e il fashion, per parlare di mediocrità, più che di orrore, e di banalità, più che di colpa. Ma in questa normalizzazione dello star system, a cui Johnny Marco è perfettamente organico, nessuna ideologia o intenzione polemica nello sguardo sul cinema e dintorni mediali: Sofia Coppola usa l’industria americana del cinema come esempio “qualunque”, utile come tanti altri a mettere a fuoco le logiche più o meno perverse di un “sistema” – un sistema qualsiasi – fortemente codificato, restrittivo, routinario. Le serve insomma, come già nei film precedenti, un reagente capitalistico, postmodernissimo e tendenzialmente disumano: in Il giardino delle vergini suicide erano la famiglia e il teen time, in Lost in Translation un albergo, una città e una lingua straniere, in Marie Antoinette una corte (ancora una volta straniera). Perché anche se cambiano scene, volti e situazioni, il cinema della Coppola torna sempre lì: allo stato d’animo dei personaggi dentro uno stato di cose che li imprigiona o include insensibilmente o annette forzatamente o attira pericolosamente. Un attrito che è poi l’essenza stessa della “poesia” americana, al cinema come in letteratura, ieri come oggi. E a tornare, nella sua piccola ma compattissima filmografia, è anche – e di conseguenza – una sensibilità spiccata per giovani e giovanissimi, colti in fase di passaggio e cambiamento. Somewhere – gemello di Lost in Translation, così come Marie Antoinette lo era di The Virgin Suicides – non fa eccezione, benché Johnny Marco non sia più un ragazzino. Ma a guardarlo e ad ascoltarlo, e a immaginare cosa pensa durante le infinite soggettive su cui è costruito il film, sembra di vedere un parente stretto di Holden Caulfield o di qualche angelo caduto dalla penna di John Cheever. Lo scontro o il mancato incontro o la semplice insofferenza del personaggio per il fatto di dover essere se stesso, in quel momento, in quel luogo, tra quella gente dribblano sempre – per insufficienza di grandezza, da una parte e dall’altra – il dramma, e cambiano, a poco a poco, senza spargimenti di sangue. Quello di Johnny è insomma un coming of age (un diventare adulto) bello e buono, anche se sul suo volto c’è già qualche ruga e alle sue spalle un matrimonio (e “somewhere” pure una figlia), e la sua storia non va dunque confusa con l’ennesima crisi da uomo vicino ai quaranta (né, tantomeno, con l’ennesimo ritratto di star in crisi). Alla Coppola piacciono le adolescenze (comprese quelle tardive); le interessano le fioriture, le primavere, le maturazioni; scrive personaggi in deficit, e poi li accompagna verso qualche conquista, foss’anche la morte o l’addio. O, come in questo caso, “da qualche parte” che non somiglia ancora a un traguardo ma possiede almeno le promesse di una pagina bianca e vuota, richiamata dal deserto in cui inizia e finisce il film. L’incompiutezza e il dramma leggero diventano quindi i toni dominanti del film (con inevitabili ma controllate fughe nella farsa), anche strutturalmente. La Coppola lascia perdere regola dei tre atti e climax, agnizioni e scioglimenti, e riempie il film di vuoto, incertezza, frammenti e fragilità. Sceglie una strada lirica, modulata su variazioni minime, piccoli salti, intervalli. È tutta addosso al personaggio, e gli si consegna. Ne deriva un film di sguardi e poche parole (come nello straordinario campo-controcampo tra Johnny e la figlia che pattina), di poche azioni e movimenti meccanici. (...) Che il problema sia quello dell’identità – ma, ancora una volta, smarcato dai qualunquismi di una critica al sistema dei media – lo rivela benissimo la scena più bella del film, una delle più belle di tutto il Festival di Venezia. È il momento dell’invecchiamento di Johnny, che passa così da bambino ad anziano, dopo essere rimasto a lungo col volto nascosto sotto un pastone bianco, ridotto ai minimi termini di un corpo che respira mentre mani e intenzioni altrui lo modellano. È un effetto speciale sorprendente, che per un istante ha il potere di rivelare come il trucco potrebbe anche essere la realtà. (...) Somewhere è un elogio dell’imperfezione e dell’insicurezza, del vuoto che lascia spazio e dell’immagine contro il determinismo di un senso. È, semplicemente, un film libero.
LLuca Malavasi, Cineforum, n. 497, settembre 2010
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