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Silent Souls - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 29 novembre 2012 – Scheda n. 7 (873)

 

 

 

 

Silent Souls

 

 

Titolo originale: Ovsjanki (Zigoli)

 

Regia: Aleksei Fedorchenko

 

Sceneggiatura: Denis Osokin. Fotografia: Mikhail Krichman.

Montaggio: Sergei Ivanov. Musica: Andrei Karasyov.

 

Interpreti:  Igor Sergejev (Aist), Jurij Tsurilo (Miron),

Julija Aug (Tanja), Victor Sokhorukov (Vesa),

Ivan Tushin (Aist da piccolo), Julija Tushina (la madre di Aist),

Leisan Sitdikova (Rimma), Olga Dobrina (Julija),

Vjacheslav Melekhov (il venditore di uccelli), Olga Gireva (la negoziante),

Sergej Jarmoljuk (l’ispettore).

 

Produzione: Media mir foundation. Distribuzione: Microcinema.

Durata: 78’. Origine: Russia, 2010.

 

 

Aleksei Fedorchenko

 

 

Nato nel 1966 a Sol-Iletsk, nel sud della Russia, Fedorchenko è una delle più innovative figure del cinema russo. Ingegnere, ha lavorato su progetti per la difesa del territorio, poi è entrato negli studi di cinema di Sverdlovsk. Ha girato documentari: David (2002) su un bambino nei campi nazisti e Deti Beloi Mogilyi (I bambini della tomba bianca) sulle etnie deportate in Kazakistan sotto Stalin. Nel 2005 il suo mokumentary, cioè un falso documentario, Pervye na lune (Primo sulla Luna), presentato a Venezia, suscitò molto interesse. Ha diretto  Zheleznaya doroga (La ferrovia) e Bannyi den (Il giorno del bagno), insieme ad altri doc sulle tante etnie russe, Šošo e  Il vento di Shuvgey. Anche questo Ovsyanki (Gli zigoli), titolo internazionale Silent Souls, parla di genti silenziose, ormai scomparse, rimaste vive solo nel ricordo. Il film ha vinto a Venezia il Premio della Critica Internazionale e l’Osella per la miglior fotografia.

Ascoltiamo Fedorchenko: «Forse è la nostalgia, o forse la necessità, che ci spingono a ricreare un insieme di miti e leggende nei quali credere. Forse quello di cui abbiamo bisogno è l’atto dello sforzo creativo, il sapere di essere ancora in grado di inventare storie. O forse l’intima urgenza di ricreare un immaginario collettivo in grado di rassicurarci del fatto che abbiamo ancora delle appartenenze culturali dalle quali discendiamo. Quando l’amata moglie di Miron, Tanya, muore, l’uomo chiede al suo migliore amico Aist di aiutarlo a dare l’ultimo saluto alla donna in accordo con i rituali della cultura Merja, un’antica etnia ugro-finnica della regione del Lago Nero. Nonostante i Merja siano un popolo che è stato assimilato dai Russi nel diciassettesimo secolo, i loro miti e le loro tradizioni vivono nella vita moderna dei loro discendenti. I due uomini intraprendono così un viaggio di migliaia di chilometri. Con loro, due piccoli uccelli in una gabbia. Il titolo originale Ovsyanki indica gli zigoli, piccoli uccelli giallo-verdi, molto diffusi in Russia. Così sono anche i protagonisti del film: gente semplice e comune. Quello che li contraddistingue è la loro visione del mondo, che deriva dalla loro appartenenza a un’antica tribù, e le insospettabili passioni nascoste nel profondo delle loro anime silenti, appunto le Silent Souls. Anche se il film si svolge nel nostro tempo e tutti i personaggi sono persone moderne, le loro avventure sono connesse al passato, al misterioso popolo Merja. I Merja sono stati assimilati nella cultura russa da molto tempo, tuttavia noi in questo film ipotizziamo che essi continuino a vivere fra noi. Non sono diversi dalle altre persone: si vestono come noi, parlano come noi, mangiano come noi. Ma il sangue russo che corre nelle loro vene è più ugro-finnico che slavo. Sono capaci di riconoscersi l’un l’altro attraverso dei segni speciali che solo loro percepiscono. E durante i momenti più drammatici della loro vita, essi si appoggiano l’un l’altro e si rivolgono ai loro antichi rituali. La mia intenzione era di mostrare un’altra visione della Russia, un paese dove le più antiche tradizioni pagane pre-ortodosse e le dinamiche umane fossero liberate dalla banalità della civilizzazione. Ho provato a mostrare un piccolo mondo abitato da persone pure e sincere, un mondo che è quasi alla nostra portata, ma che non esiste per davvero. In questo mondo, vivere, amare e morire sono ugualmente desiderabili. Per i Merja non ci sono divinità, ci sono solo Amore e Acqua che a sua volta rappresenta la morte più desiderabile, quella per annegamento... Il film è percorso da una tristezza e nostalgia incredibili. Ma più forte di tutto è il desiderio di condividere con un’altra persona il dolore in modo da diluirne la concentrazione».

 

 

La critica

 

 

Chiariamo subito un punto: le tradizioni e i riti dei Merja non esistono. O meglio: di loro nessuno sa assolutamente nulla. Si mettano il cuore in pace i recensori del film e tutti gli estensori delle voci relative ai Merja nei siti Internet italiani. Un popolo antico i Merja sono stati senz’altro, ma di loro ci restano solo alcuni, rarissimi, toponimi, non certo la lingua né la cultura, e neppure il ricordo. I Merja erano stanziati a Est dell’attuale città di Mosca (fra Jaroslavl, Vladimir, Ivanovo, ossia nella regione che oggi è nota come l’“Anello d’oro”). Vivevano lì prima della colonizzazione slava del X-XI secolo, erano agricoltori e parlavano una lingua ugrofinnica... Quello dei Marja (e delle loro – presunte e immaginarie – tradizioni, rese vive ancora oggi nel film di Fedorchenko) è il mondo dell’utopia, là dove ci piacerebbe poter vivere: niente beni materiali né divinità, solo l’amore reciproco, come recita la voce narrante (non vi vengono alla mente le parole di Imagine di John Lennon?). Il segreto è nel potere dell’affabulazione, nella possibilità di inventare miti, storie e vicende immaginarie e farle credere reali. Lo ammette, sostanzialmente, lo stesso regista: «La mia intenzione era di mostrare un’altra visione della Russia, un Paese dove le più antiche tradizioni pagane pre-ortodosse e le dinamiche umane fossero liberate dalla banalità della civilizzazione. Ho provato a mostrare un piccolo mondo abitato da persone pure e sincere, un mondo che è quasi alla nostra portata, ma che non esiste per davvero». L’ammirazione per la semplicità delle persone e delle cose: un uomo del tutto innamorato, dopo molti anni di matrimonio, solo di sua moglie; la morte avvertita come parte imprescindibile dell’esistenza. Questo è, a nostro avviso, il secondo segreto del film: la capacità dell’autore di sondare e rendere esplicite, attraverso immagini allusive, alcune idee che noi uomini abbiamo della vita, della morte, delle relazioni con i figli, dell’amicizia e della complicità virile, delle donne e del sesso: del rapporto con la nostra percezione del senso dell’esistenza e con l’altro sesso. Ci piace sentirci semplici, così come la voce del narratore afferma essere tuttora i discendenti dei Merja, normali (ma magari promiscui), coi nostri volti e corpi tutt’altro che perfetti, simili agli altri, proprio come gli zigoli, che danno il titolo originale al film e che accompagnano con la loro presenza sonora e visiva tutta la narrazione, dall’incipit al finale risolutivo: uccellini comuni, molto diffusi da quelle parti (ma, in diverse varietà, anche da noi), della grande famiglia dei passeri. Da questo punto di vista, il film propone perle di saggezza, come quelle dedicate alle donne, alle quali riserva un omaggio appassionato. Pensiamo alla splendida sequenza – resa in maniera espressiva e antinaturalistica – dell’incontro dei due protagonisti con le due ragazze di vita (significativi l’invito e la risposta: «Avete voglia di noi?», «Certo, siete un dono del cielo!»): i loro corpi distesi e vicinissimi l’uno all’altro vengono accarezzati dalla mdp (svelando ogni loro meravigliosa imperfezione) dai piedi al pube, dai seni ai volti e quindi ai sorrisi di gioia e di appagato rilassamento, mentre la voce fuori campo afferma ciò che tutti noi uomini nell’intimo pensiamo: «I corpi delle donne sono come dei fiumi, che portano via il dolore. Peccato che non ci si possa annegare dentro». E il valore terapeutico del raccontare (le storie che aiutano a vivere meglio): il “fumare” pseudo-merjano, cioè il raccontare a un amico fidato dettagli squisitamente privati della propria relazione sessuale con una donna che non c’è più, rende «il viso di chi racconta più luminoso. E il dolore si trasforma in tenerezza» (...) Il viaggio in Silent Souls è circolare, e il tempo è sospeso, ciclico, eterno, e il ritmo ipnotico-sognante: si parte da un luogo e vi si fa ritorno (per sempre); da un fiume, naturalmente, visto il ruolo fondamentale che l’acqua riveste, insieme all’amore, nella cultura immaginaria evocata. La posizione del narratore nel racconto è curiosa, visto che si identifica col personaggio secondario, Aist Sergeyev (con una focalizzazione interna, quindi, e partecipe della vicenda), ma è anche dotato d’onniscenza (la sapienza di chi ha già visto tutto e racconta dalle profondità delle acque). Si parte con una strada di campagna percorsa da una bici, con gli immancabili zigoli legati al portapacchi: viaggiare significa anche raccontare e vivere. Poi le inquadrature, di qualità pittorica (con il paesaggio abbinato alle figure umane), si fanno lunghissime, estatiche, e dalla fissità ci si avvicina (come nel piano sequenza della preparazione della moglie morta) o ci si allontana lentamente. Lo sguardo del regista è carico di mistero e d’incanto: è uno sguardo “sacro” (anche se laico), così come lo intendeva Pasolini, e come viene praticato dai popoli animisti dell’Africa subsahariana (questi realmente esistenti oggi, anche se forse ancora per poco): uno sguardo frontale, carico di meraviglia, primigenio, frutto di una cultura arcaica, scevra del disincanto e dello scetticismo critico della modernità (pensiamo al piano sequenza in cui le due giovani amiche seminude allacciano i fili colorati ai peli del pube della ragazza in procinto di sposarsi). Lo stile contemplativo, assorto e onirico di Fedorchenko ci conduce, infine, alla sua rivelazione sostanziale: un affetto dolce e sofferto per la natura umana, per le cose semplici ma essenziali del vivere, che spesso ci sfuggono, fino a doverle cercare in altre, presunte, culture e tradizioni. Un modo di vivere con cui è bello (e utile) riconciliarsi: condurre la propria vita «con allegra tristezza», come si dice nel finale del film.

PPierpaolo Loffreda, Cineforum, n. 515, giugno 2012

 

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