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Giovedì 6 dicembre 2012 – Scheda n. 8 (874)
Romanzo di una strage
Regia: Marco Tullio Giordana
Sceneggiatura: Marco Tullio Giordana, Sandro Petraglia, Stefano Rulli,
dal libro Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli.
Fotografia: Roberto Forza. Montaggio: Francesca Calvelli. Musica: Franco Piersanti.
Interpreti:
Pierfrancesco Favino (Giuseppe Pinelli), Valerio Mastandrea (Luigi Calabresi),
Michela Cescon (Licia Pinelli), Laura Chiatti (Gemma Calabresi),
Fabrizio Gifuni (Aldo Moro), Luigi Lo Cascio (giudice Ugo Paolillo),
Giorgio Colangeli (Federico Umberto D’Amato),
Omero Antonutti (presidente Giuseppe Saragat),
Thomas Trabacchi (Marco Nozza), Giorgio Tirabassi (Il Professore),
Fausto Russo Alesi (Guido Giannettini), Denis Fasolo (Giovanni Ventura).
Produzione: Cattleya. Distribuzione: 01.
Durata: 129’. Origine: Italia, 2011.
Marco Tullio Giordana
Nato a Milano nel 1950, ha cominciato a lavorare nel cinema come sceneggiatore per il doc di montaggio Forza Italia! (1978) di Roberto Faenza. Debutta come regista nel 1979 con Maledetti, vi amerò, vincitore del Pardo d’oro al festival di Locarno. Dell’anno seguente è l’ambizioso e irrisolto La caduta degli angeli ribelli, poi vengono Appuntamento a Liverpool (1987), quindi La domenica specialmente, film collettivo girato con Giuseppe Tornatore, Giuseppe Bertolucci e Francesco Barilli. Pasolini, un delitto italiano è del 1995. Del 2000 è I cento passi, sulla vita e la morte di Peppino Impastato, che vince a Venezia il premio per la migliore sceneggiatura. Nel 2003 realizza il film per la televisione La meglio gioventù, che ripercorre la storia italiana dagli anni sessanta al duemila, e che vince la sezione Un certain regard del Festival di Cannes. Nel 2005 torna a Cannes con Quando sei nato non puoi più nasconderti. Nel 2007 realizza il film televisivo Sanguepazzo. Infine nel 2011 arriva questo Romanzo di una strage che ha suscitato molti dibattiti e polemiche, soprattutto per quella zona finale – le due valigie, le due bombe... – dove si prospetta una verità diversa rispetto a quella delle indagini.
Sentiamo Giordana: «Romanzo di una strage si chiama così perché evoca il titolo di quel bellissimo intervento di Pasolini del ’74; lui in quel momento di assoluta solitudine scrive: ‘Io so ma non ho le prove’. Ora noi dopo 40 anni abbiamo le prove, possiamo fare i nomi, è giusto farli e come mi faceva osservare Gifuni oggi possiamo dire ‘noi sappiamo’ che è più forte di ‘io so’. È importante se una tragedia come quella di Piazza Fontana e la sua spiegazione entra a far parte del dna di un popolo, come la nozione di risorgimento che uno non ha vissuto, ma come parola che evoca in noi il sentimento di appartenenza, di radice, e Piazza Fontana non può essere qualcosa di sconosciuto, un punto di domanda e basta. Alcuni di noi sono stati contemporanei ai fatti, sanno qualcosa, ma penso soprattutto ai giovani, a chi non sa nulla e non è aiutato dalla scuola o dai genitori, magari contemporanei a quegli anni che ricordano i pregiudizi dell’epoca. Un film serve a creare il sentimento forte di un avvenimento e a spiegarlo con gli strumenti dell’arte. Penso ancora a Pasolini anche perché all’indomani della strage scrisse una bellissima poesia dedicata alle vittime delle stragi descrivendole uno per uno, dando un corpo, una voce, una storia, è un po’ questo che mi ha guidato. In generale io ho avuto la fortuna di essere un ragazzo quando Pasolini scriveva e di non essere rimasto allo sbaraglio di fronte agli avvenimenti. Oggi i ragazzi non hanno questa fortuna quindi diventa anche un dovere per chi fa cinema, per chi crede nel cinema. Ho potuto fare questo film in assoluta libertà, senza avere paura di sfidare i santuari o rischiare la causa. Quindi Pasolini come esempio dell’applicazione dell’intelligenza, che deve essere poetica prima di politica, perché la politica è molto restrittiva nel suo sguardo mentre le arti hanno uno sguardo più lontano e capace di toccare il cuore delle persone».
Dice Stefano Rulli, uno degli sceneggiatori: «La storia di Piazza Fontana è la storia di troppe verità e troppe sentenze che si sono sovrapposte, perciò bisogna riuscire a capire qual è il filo, qual è il senso di alcuni sprazzi di verità. Uno sa che Pinelli è morto quella notte in questura cadendo dalla finestra, però ad esempio altri pezzi sono legati al ruolo che hanno avuto i servizi segreti. Romanzo è anche questo, il tentativo di ritrovare un filo, un senso attraverso degli indizi che ci sono... Sulle due bombe diciamo che il libro Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli ha avviato un lavoro di ricerca che documenta in qualche modo da vari punti di vista che le bombe dovevano essere due, come si dice nel film: la quantità di gelinite che poteva essere inclusa in una sola scatola era inferiore al grado di devastazione che ha creato. Ci sono una serie di dettagli e perizie balistiche, come la miccia che era fuori dalla scatola, particolare che viene riportato quei giorni anche dai giornali e poi sparisce, questi due o tre elementi avvalorano l’ipotesi che le bombe siano state due».
La critica
Per una volta il titolo è davvero essenziale: Romanzo di una strage non confonde le carte in tavola, non depista. Quello che successe in Italia tra il 1969 e il 1972, dall’uccisione dell’agente Antonio Annarumma (19 novembre 1969) a quella del commissario Luigi Calabresi (17 maggio 1972), è veramente ‘materia romanzesca’ tanto è complessa e ramificata. E gli sceneggiatori del film (il regista Marco Tullio Giordana insieme a Sandro Petraglia e Stefano Rulli) l’hanno raccontata come fosse davvero un romanzo, con i suoi protagonisti e i suoi comprimari, i buoni e i cattivi, i colpi di scena e i momenti riflessivi. Dividendo il tutto in capitoli che aiutano lo spettatore a orientarsi tra i fatti e le supposizioni, tra la ‘realtà’ e la ‘fantasia’. E di questo dovrebbe essere chiamato a parlare il critico, di come la storia di quegli anni è diventata film, ha trovato una forma cinematografica. Naturalmente il compito non è così facile, perché quella materia brucia ancora gli animi e perché le tante verità scoperte faticano ancora a stare tutte insieme, danno l’impressione - almeno a chi non si accontenta delle parole d’ordine e degli slogan - di un puzzle a cui manchino ancora dei pezzi. O per lo meno dei riflettori capaci di far luce in tanti angoli. Per questo, viene da supporre, Giordana ha scelto la forma del ‘romanzo’: per mettere gli esseri umani al centro del film, le persone prima dei fatti. E lasciare i teoremi a chi se ne diletta (almeno fino a un certo punto). I due pilastri su cui regge il film sono evidentemente Giuseppe Pinelli (Pierfrancesco Favino) e Luigi Calabresi (Valerio Mastandrea), l’anarchico e il commissario, divisi dalle idee politiche ma uniti da un certo reciproco rispetto e dalla sensazione (si capisce dal film) di avere a che fare con ambienti meno limpidi e corretti di quel che sono loro stessi. I circoli anarchici danno l’impressione di ospitare più infiltrati e doppiogiochisti che autentici militanti e la questura non è abitata solo da galantuomini. E per fortuna, non dimentica di sottolineare il film, accanto a Pinelli e Calabresi ci sono due donne diverse per estrazione sociale ma simili per forza d’animo e amore familiare, Licia (Michela Cescon) e Gemma (Laura Chiatti). Intorno a questi due personaggi prendono forma pian piano i fatti e si delineano i comprimari: l’esplosione in Piazza Fontana, alla Banca dell’Agricoltura, le indagini subito orientate verso i circoli anarchici, le interferenze romane, i tentennamenti del potere politico, i servizi deviati, la scoperta della ‘pista veneta’, insabbiamenti, depistaggi fino alla campagna di Lotta Continua contro Calabresi e al suo assassinio. Tre anni che hanno lasciato sull'Italia un senso di sgomento e di impotenza, coerente prodromo a quelli che sarebbero diventati gli ‘anni di piombo’. Questa materia, il film di Giordana si sforza di metterla in ordine e di ‘spiegarla’, organizzandola in capitoletti (‘Autunno caldo’, ‘Gli innocenti’, ‘L’indagine parallela’ e così via fino a ‘Dire la verità’), per aiutarne la comprensione. Per farlo si serve anche di un cast eccellente, che pur inseguendo la via obbligata della mimesi non cade mai nella macchietta o nel cabaret e sa restituire - penso ai due protagonisti ma anche al Moro di Gifuni, al Saragat di Antonutti, al questore Guida di Solli, al Ventura di Fasolo - la credibilità e lo spessore della cronaca storia. Correndo però un rischio: quello di razionalizzare troppo i fatti, di ‘semplificarli’ per renderli intellegibili e cancellare così l’atmosfera di angoscia e di tensione dell’Italia di quegli anni. Alla fine ti sembra che manchi la complessità del reale, che tutto sia fin troppo semplice e chiaro e che per chiudere la storia di quegli anni il film finisca per cadere nella trappola che aveva cercato di evitare per due ore: quella delle forze oscure. Dopo aver scelto di ricapitolare i fatti senza ricostruire i momenti più controversi per evitare la fantascienza (chi ha messo materialmente la bomba? O le bombe? Come è caduto Pinelli dalla finestra del quarto piano?), il film non sa rinunciare a mettere in bocca al questore degli Affari Riservati D’Amato (Giorgio Colangeli) il più facile e scontato dei discorsi ‘complottisti’. Forse è la spiegazione più vera (e tra l’altro è quella che apre inquietanti scenari sulla morte di Calabresi, gli stessi a cui è arrivato Paolo Cucchiarelli nella sua monumentale inchiesta Il segreto di Piazza Fontana, edizione Ponte alle Grazie) ma messa cosi in coda dà l’impressione di una piccola astuzia narrativa che stona col resto del film.
PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 27 marzo 2012
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