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Giovedì 21 marzo 2013 – Scheda n. 21 (887)
A Simple Life
Regia: Ann Hui
Sceneggiatura: Susan Chan, Roger Lee. Fotografia: Nelson Yu Lik-wai.
Musica: Law Wing-Fai. Montaggio: Manda Wai, Kwong Chi-Leung.
Interpreti: Andy Lau (Roger), Deannie Yip (Ah Tao),
Wang Fuli, Qin Hailu, Anthony Wong Chau-Sang,
Tsui Hark, Leung Tin, Wendy Yu, Eman Lam,
Elena Kong, Jason Chan, Hui So Ying, Chapman To, Lam Ka Tung.
Produzione: Bona Entertainment Company Limited. Distribuzione: Tucker Film.
Origine: Hong Kong, 2011. Durata: 119’.
Ann Hui
Nata a Anshan, nella provincia del Liaoning, in Cina, il 23 maggio 1948, da padre cinese e madre giapponese, Ann Hui (in cinese tradizionale 許鞍華) cresce fra Macao e Hong Kong dove si laurea in lingua e letteratura inglese. Studia poi a Londra, alla London International Film School. Torna a Hong Kong e comincia a girare serial per la tv e documentari. Fa l’assistente per il grande regista King Hu e collabora al film Boy From Vietnam (1978), primo tassello della sua ‘trilogia vietnamita’. Nel 1979, gira il primo lungometraggio, The Secret, un thriller, che ottiene un successo strepitoso. Vengono poi la storia di fantasmi The Spooky Bunch (1980) e le altre due parti della trilogia vietnamita The Story of Woo Viet (1981) e Boat People (1982), film che la fa conoscere internazionalmente. Degli anni Ottanta sono Love in a Fallen City (1984) e i due wuxia (film di arti marziali) The Romance of the Book and Sword e Princess Fragrance (1987). Nei Novanta, il più importante dei suoi film è il semiautobiografico The Song of Exile (1990), sul problema della perdita d’identità di una madre e di una figlia esiliate a causa della loro diversa cultura e nazionalità, come accadde a Ann Hui e a sua madre (che, ricordiamolo, è giapponese). Del 1995 è Summer Snow, con una donna di mezza età che deve affrontare i problemi giornalieri della famiglia. Seguono molti film: Eighteen Springs (1997), Ordinary Heroes (1999), July Rhapsody (2000), Jade Goddess of Mercy (2003), The Postmodern Life of My Aunt (2006), The Way We Are (2008), Night and Fog (2009) e questo amorevole A Simple Life (2011), premiato a Venezia.
Ascoltiamo Ann Hui: «Mi sento proprio molto fortunata ad aver girato questo film con tutti gli elementi cinematografici che preferisco: una storia vera, approccio realistico, racconto poetico, umorismo, pathos, attori non professionisti insieme a grandi star... Il mio film si basa sulla storia vera dell’amah, la domestica, Chung Chun-tao e del suo giovane capo Roger Lee, noto produttore cinematografico a Hong Kong. Chung Chun-tao, detta Tao, era nata a Taishan, in Cina. Il padre adottivo morì durante l’occupazione giapponese e la madre adottiva la mandò a lavorare come amah per la famiglia Lee all’età di 13 anni. Rimase a servizio di questa famiglia per 4 generazioni e per 60 anni. Con moltissimi ricordi affettuosi, Roger spesso pensa a Tao come parte della famiglia e come figura chiave nella sua crescita. “La parola gratitudine da sola non può minimamente definire la gratitudine che provo per lei”, dice Roger. Ho sentito parlare per la prima volta della storia di Tao durante le riprese di Summer Snow, di cui Roger era produttore associato. Roger sentì il bisogno di raccontare questa storia vera, non solo a me ma a tutti. E la vicenda ha subito toccato una corda dentro di me, perché ognuno di noi ha una persona come Tao nella sua vita... Raramente i film hongkonghesi parlano delle persone anziane. Invecchiare è un tema universale e mi è piaciuto far vedere come i cinesi trattano i loro anziani, in modo diverso rispetto agli occidentali. Diventeremo tutti vecchi un giorno, ma la differenza sta nel modo in cui decidiamo di vivere gli ultimi giorni della nostra vita. Gli anziani possono aver perso la loro giovinezza, ma ancora sognano quello di cui tutti abbiamo bisogno: l’amore di un’altra persona, puro e semplice... Tao, il personaggio principale, interpretato meravigliosamente da Deanie Ip, è un’amah cinese. L’amah in Cina è una collaboratrice domestica che fa da colf e baby-sitter alla famiglia. Di solito viene assunta da ragazzina e collabora con la famiglia cucinando, pulendo e prendendosi cura dei bambini, che spesso hanno più o meno la sua stessa età. L’amah fa voto di rimanere single per sempre e di continuare a vivere con la famiglia fino all’ultimo giorno della sua vita. In virtù di questa lunga permanenza presso le famiglie le amah sono spesso trattate come membri delle stesse. Vestite con camicie bianche, pantaloni neri e pettinate con trecce ‘alla francese’, le amah a Hong Kong rappresentano un’icona per le generazioni del dopoguerra. Poi, alla fine degli anni Settanta l’immigrazione di colf filippine o indonesiane divenne un’alternativa più economica alle amah. L’ondata migratoria che si verificò prima del passaggio di Hong Kong alla Cina nel 1997 portò al declino di questa figura. Però le vecchie amah che avevano lavorato per decenni con i loro capofamiglia avrebbero continuato a vivere con le famiglie fino alla loro morte. E questo è esattamente l’inizio del nostro film».
La critica
Visto la prima volta al festival di Venezia, dove aveva ottenuto la Coppa Volpi per la sua protagonista, A Simple Life di Anne Hui aveva conquistato immediatamente per le sue qualità - diciamo così - più ‘umane’: il ritratto di una vecchia domestica che aveva vissuto sessant’anni presso la medesima famiglia, il legame di affetto e di riconoscenza che le dimostrava il suo ultimo ‘padrone’, le storie grandi e piccole degli altri ospiti della casa di riposo in cui veniva accolta. Rivisto una seconda volta, per l’uscita nelle sale italiane (grazie alla determinazione della piccola ma encomiabile casa di distribuzione Tucker Film, friulana), il film svela una ulteriore e ammirevole profondità, quella di una cultura e un modo di vivere hongkonghese che cercano di resistere all’egoismo della ‘globalizzazione’ cinese, intesa non tanto in termini economici o commerciali ma più sottilmente come perdita di legami e valori umani. Il che ci riporta al tema centrale del film, quella ‘storia vera’ che il produttore Yan-lam Lee ha voluto trasformare in film, collaborando anche alla stesura della sceneggiatura insieme a Susan Chan, per rendere omaggio alla ragazza che era entrata in casa sua a tredici anni come ‘amah’, cioè serva, e per sessant’anni aveva servito con la stessa dedizione quattro generazioni della sua famiglia. Nel film la famiglia cambia nome in Leung e all’inizio del film vediamo la protagonista Ah Tao ancora intenta, a oltre settant’anni, a compiere le sue mansioni domestiche: i tanti membri della famiglia sono emigrati in America e a Hong Kong, è rimasto solo Roger, produttore cinematografico sempre in viaggio tra la città e il ‘continente’. Non c’è bisogno di molte parole tra i due: lei conosce perfettamente i suoi gusti e le sue abitudini, lui sa che può contare per ogni cosa sulla sua silenziosa ed efficiente presenza, ma quando un infarto la costringe a pensare alla pensione e al ritiro in una casa per anziani, dietro all’apparente freddezza Roger dimostra un attaccamento e una riconoscenza per la sua vecchia tata forse inaspettati. E si dà da fare per aiutarla in tutti i modi. Inizia così la parte centrale del film, il ritratto partecipe e malinconico di una donna che per tutta la vita si è occupata degli altri e adesso deve cominciare a occuparsi di se stessa. E soprattutto deve fare i conti con una vita che sembra pian piano sfuggirle. Glielo ricordano ogni giorno gli altri ospiti della casa di riposo, dove la regista Ann Hui mescola abilmente attori professionisti e veri pensionanti, piccoli squarci di cinema verità mescolati a scene dialogate e recitate. E lo ribadiscono le scene commoventi in cui gli ospiti ricevono la visita dei parenti, a cominciare dal premurosissimo Roger, per sottolineare un legame che la vecchiaia e l’infermità non possono rompere e che invece qualche volta l’egoismo spezza drammaticamente. È questo, quello della riconoscenza, l’elemento che introduce l’altro tema del film, quello di un legame umano che a Hong Kong non sembra ancora soffocato dall’individualismo e dall’arrivismo che stanno conquistando la Cina. È un filo rosso sotterraneo, non certo gridato (in sintonia con la delicatezza e la tenerezza di tutto il film) che ogni tanto riaffiora con piccole ma precise allusioni: dall’idea che la Cina sia ‘il continente’ e non la madrepatria, al modo di comportarsi dei banchieri (che tentano di imbrogliare i clienti sugli interessi e i pagamenti) e delle loro eleganti segretarie che giudicano le persone solo dalla qualità dell’abito (come fa anche il cameriere di un ristorante) fino alla rivendicazione di una cultura e di una lingua, quella cantonese, che rischia di sparire a favore del mandarino (a cui si allude nella scena dell’anteprima cinematografica). Così il film intreccia perfettamente le sue due anime: da una parte racconta con pudore ma anche senza facili infingimenti un percorso di avvicinamento alla morte che utilizza al meglio la sensibilità ‘documentaristica’ della regista ma anche la sua sensibilità nel tratteggiare con pochi elementi l’umanità e la solitudine delle persone (il pensionato che si fa prestare i soldi con mille scuse per godere di qualche ultimo sprazzo di vitalità; la giovane ricoverata per fare la dialisi, la madre che non accetta che il figlio maggiore l’abbia dimenticata) e dall’altra, attraverso la dedizione di Roger e della sua famiglia ma anche grazie alle tante piccole notazioni sulla ‘diversità’ hongkonghese, ricorda a chi guarda l’importanza della riconoscenza e del rispetto per le persone che ci stanno vicine.
PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 7 marzo 2012
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