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CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 18 aprile 2013 – Scheda n. 25 (891)

 

 

 

Diaz

 

Non pulire questo sangue

 

 

Regia: Daniele Vicari

 

Sceneggiatura: Daniele Vicari, Laura Paolucci, Alessandro Bandinelli, Emanuele Scaringi

Fotografia: Gherardo Gossi. Montaggio: Benni Atria.

Musica: Theo Teardo, Balanescu Quartet.

 

Interpreti: Claudio Santamaria (Max Flamini), Jennifer Ulrich (Alma Koch),

Elio Germano (Luca Gualtieri), Davide Iacopini (Marco),

Ralph Amoussou (Etienne), Fabrizio Rongione (Nick Janssen),

Renato Scarpa (Anselmo Vitali), Mattia Sbragia (Armando Carnera).

 

Produzione: Fandango. Distribuzione: Fandango.

Origine: Italia, 2011. Durata: 120’.

 

 

Daniele Vicari

 

 

Nato nel 1967 a Rieti, Daniele Vicari si laurea in storia e critica del cinema, collabora alle riviste Cinema Nuovo e Cinema 60, dirige i corti Il nuovo e Mari del Sud, partecipa al film collettivo Partigiani (1997). Del 1998 sono altri doc: Comunisti, Uomini e lupi, Bajram e Sesso, marmitte e videogames. Dirige Morto che parla sulla vita di Mario Cipriani, protagonista di La ricotta e attore in Accattone di Pier Paolo Pasolini. Primo lungo è Velocità massima (2002), sulle corse automobilistiche clandestine. Il secondo è L’orizzonte degli eventi, storia di un fisico nucleare nei laboratori sotto il Gran Sasso. Torna al doc con Il mio paese (2006) e alla finzione con Il passato è una terra straniera, sul mondo del gioco d’azzardo. Poi c’è Diaz, sui fatti del G8 di Genova presentato a Berlino nel 2012 dove vince molti premi. Vicari ha già girato La nave dolce, presentato a Venezia quest’anno.

La parola a Vicari: «Il G8 di Genova del luglio 2001 è stato un evento enorme, ha coinvolto capi di stato di tutto il mondo, ha visto l’arrivo di manifestanti anch’essi da tutto il mondo e la presenza di una quantità mai impiegata prima in Italia di forze dell’ordine. Migliaia di video-attivisti, operatori televisivi, video operatori delle forze dell’ordine, fotografi e registi cinematografici hanno ripreso ogni cosa, ogni momento, ogni assemblea, ogni vetrina infranta, ogni carica della polizia. Tutto è stato documentato. Tutto, tranne ciò che è accaduto dentro la scuola Diaz e dentro la caserma di Bolzaneto. I fatti della Diaz e di Bolzaneto hanno dato luogo a due  drammatici processi che, mentre scrivo questo testo, non sono ancora conclusi. La lettura degli atti (www.processig8.org/) è sconvolgente, toglie il sonno e getta un’ombra sinistra sulla nostra democrazia. E mette in discussione un luogo comune molto radicato, quello secondo cui certe cose possono accadere soltanto sotto regimi politici autoritari... È vero, un manipolo di cosiddetti black block ha devastato negozi e incendiato automobili provocando danni consistenti, ma in virtù di questo presupposto sì è deciso che a pagare il prezzo di quelle devastazioni dovessero essere un centinaio di persone non identificate e quindi non automaticamente riconducibili ai devastatori, radunate in una scuola legalmente concessa al Genoa Social Forum, e si è deciso di procedere con metodi che fanno fare un passo indietro di 80 anni alla nostra democrazia. Ma anche supponendo che i presenti fossero stati tutti incalliti black block, in base a quali norme si è potuto prendere una simile iniziativa? Per perseguire reati contro le cose, uno Stato ha il diritto di commettere cosi gravi reati contro le persone? A posteriori mi chiedo anche: non è che per caso Genova 2001 abbia dato inizio a una crisi sociale e istituzionale profondissima che in un decennio di “fantapolitica” ha portato l’Italia sull’orlo del baratro?... Abbiamo cercato di raccontare il senso di spaesamento che tutti coloro che hanno partecipato al G8 ricordano. Durante le riprese ho avuto vari momenti di difficoltà realizzando le scene più cruente, perché in quei momenti ho compreso fino in fondo l’inferno che si è sviluppato in quei luoghi. Mi sono chiesto in continuazione: fino a che punto posso spingermi nella rappresentazione di quella violenza? che democrazia è quella che mi spoglia, mi violenta, mi priva di identità e di diritti? Una delle cose che mi ha sempre colpito di più nei racconti delle persone che hanno partecipato a quel G8, è la sensazione di non poter sfuggire al proprio destino, come in un incubo. Questo mentre giravamo la scena difficilissima in cui Jennifer Ulrich (Alma) era costretta a spogliarsi davanti ai carcerieri. Lei si è voltata e ho letto sul collo un tatuaggio, la scritta ‘Destiny’. La cosa mi ha sorpreso, ho pensato a una decisione di trucco sfuggita al mio controllo e mi è sembrata una didascalia fuori luogo. Invece no, si tratta di un tatuaggio che Jennifer si è fatta chissà quando. E mi sono posto una domanda:  qual è la misura oltre la quale non siamo più padroni della nostra vita?... La struttura del film sollecita queste domande, la circolarità del racconto intorno a un fatto marginale del 21 luglio 2001, di qualche ora precedente all’irruzione, cioè il passaggio di un ‘pattuglione’ della polizia davanti alla scuola Diaz, mette in campo diversi livelli narrativi e sottolinea l’assurda ineluttabilità che ha portato agli esiti estremi raccontati nei processi. I diversi livelli narrativi si intrecciano con i punti di vista dei personaggi nei luoghi della storia, inconsapevoli di ciò che sta per capitare. E anch’io mi chiedo cosa stia capitando, perdo ogni certezza, finisco in un labirinto senza via d’uscita».

 

 

La critica

 

 

Una possibile risposta alla domanda che tutti si fanno - perché? perché quel massacro? - arriva alla fine della proiezione, con un cartello che ricorda, dopo le condanne decisamente riduttive rispetto alla gravità dei fatti contestati, come ‘il parlamento abbia bocciato per due volte la costituzione di una commissione  d’inchiesta sui fatti del G8’. Una bocciatura che ha unito, prima nel 2007 e poi nel 2008, i governi Prodi e Berlusconi. Centro sinistra e centro destra. Motivazioni diverse, distrazioni, assenze ‘sospette’ al momento della votazione: le violenze perpetrate dai poliziotti dei Nuclei speciali antisommossa alla Diaz e poi nella caserma Bolzaneto faticano dopo più di dieci anni a trovare spiegazioni e responsabilità. Per questo il produttore Domenico Procacci con la sua Fandango e il regista Daniele Vicari hanno scelto di fermarsi ai fatti, di ricostruire con puntiglio e realismo che cosa è successo quella notte del 21 luglio 2001 prima nella scuola poi nella caserma. Ma senza andare al di là. Cancellando teorie, complotti ma anche ‘giustificazioni’ e spiegazioni. I fatti, solo i fatti, lasciando allo spettatore il compito di trarre da solo le conseguenze che vuole. Una scelta comprensibile ma molto rischiosa, soprattutto se pensiamo che lo spettatore cinematografico è spesso abituato ad aspettarsi la ‘soluzione’ della storia che vede svolgersi sullo schermo, che si tratti di un giallo, di un dramma d’amore o di un fatto di cronaca. Con Diaz non succede. O meglio: succede solo fino a un certo punto, quando vediamo alcune delle persone massacrate alla Diaz e umiliate alla Bolzaneto accompagnate alla frontiera per essere espulse. Quello che è successo dopo è riassunto in qualche didascalia (le poche condanne nei processi, l’assenza di provvedimenti disciplinari, la latitanza della politica), per lasciare ogni possibile conclusione allo spettatore e alla sua reazione a quello che ha appena visto. Perché di materia su cui riflettere se ne vede molta, anche se l’azione è limitata a una decina di ore, dal pomeriggio alla notte di quel 21 luglio. C’è già stato l’omicidio di Carlo  Giuliani (raccontato dai servizi televisivi), ci sono già stati gli exploit dei black block (in parte ricostruiti per le riprese): si intuisce il senso di impotenza – ‘politica’ ma anche ‘militare’ - di alcuni esponenti delle forze dell’ordine che non possono reagire agli attacchi di una parte dei manifestati e vedono vanificati dalla magistratura alcuni loro arresti. In questo quadro, mentre i grandi del mondo sorridono stringendosi le mani davanti alle telecamere e gli organizzatori del Genoa Social Forum cercano di affrontare i troppi problemi irrisolti dei primi giorni di manifestazione (a cominciare dalle azioni delle frange più violente), l’arrivo da Roma di un alto funzionario dal programmatico nome di Camera dà il via a quella che sembra doversi intendere come un’azione dimostrativa di efficienza poliziesca, ‘lo sgombero di un manufatto occupato da pericolosi anarco-insurrezionalisti’. Vicari racconta fatti che sembrano slegati tra di loro (dal rinvenimento di due bottiglie molotov su un marciapiede, allo strano errore di percorso di un gippone della polizia) e ci fa conoscere alcune delle persone che si troveranno quella notte alla Diaz, dal giornalista venuto a Genova per curiosità professionale al pensionato rimasto nel capoluogo ligure per visitare una tomba al cimitero, dal vicequestore che non condivide la linea della repressione totale alla giovane tedesca che lavora per il Genoa Social Forum. Tutto sarà funzionale a mostrarci quella che il vero poliziotto interpretato da Santamaria, il vicequestore Fournier, definirà in tribunale ‘un intervento di macelleria messicana’, con la furia dei poliziotti che si abbatteva senza freni su giovani inermi e inoffensivi. Vicari gira con una macchina da presa molto mobile, come fosse un operatore televisivo casualmente sul luogo dell’azione (ma cedendo anche a qualche ridondante ‘belluria’, come la bottiglietta che si rompe al rallentatore) e riesce a dare una forma a quello che ai tempi fu raccontato in modi spesso contraddittori e inefficaci. Lasciando il segno soprattutto con le umiliazioni inflitte alla Bolzaneto, anche se nella realtà pare siano state ancor più belluine (i piercing strappati non si vedono). Ma tutto questo non toglie che alla fine le immagini lascino come un senso di incompiutezza, che non bastano le didascalie finali a riempire. ‘Perché’ è una domanda che anche in questo film aspetta ancora risposte.

PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 11 aprile 2012

 

 

 

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