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Giovedì 17 ottobre 2013 – Scheda n. 2 (896)
Miele
Regia: Valeria Golino
Sceneggiatura: Francesca Marciano, Valeria Golino, Valia Santella,
dal romanzo A nome tuo di Mario Covacich.
Fotografia: Gergely Pohárnok. Montaggio: Giorgio Franchini.
Musica: Emanuele Cecere.
Interpreti: Jasmine Trinca (Irene/Miele), Carlo Cecchi (Ing. Carlo Grimaldi),
Libero De Rienzo (Rocco), Vinicio Marchioni (Stefano), Iaia Forte (Clelia).
Produzione: Buena Onda, Rai Cinema. Distribuzione: Bim.
Durata: 96’. Origine: Italia, 2013.
Valeria Golino
Napoletana verace, nata nel 1966, figlia di un germanista e di una pittrice greca, Valeria Golino, voce roca e occhi brillanti, è un’attrice che si è divisa tra Italia, America e Francia. Debutta al cinema come figlia di Ugo Tognazzi in un film dal titolo chilometrico, Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada (1983) di Lina Wertmüller. Sempre con la Wertmüller recita in Sotto... sotto... strapazzato da anomala passione (1984). Vince la Coppa Volpi di miglior attrice a Venezia per Storia d’amore di Maselli (1986). Dopo Gli occhiali d’oro (1987) di Montaldo, va negli Usa dove è la fidanzata di Tom Cruise e la cognata dell’autistico Dustin Hoffman in Rain Man. Laggiù gira Acque di primavera (1989) e Lupo solitario di Sean Penn (1991). È in Puerto Escondido di Gabriele Salvatores, in I protagonisti di Robert Altman (1992) e nei due demenzialsexy Hot Shots! di Jim Abrahams. Recita in Four Rooms, il film collettivo di Tarantino, Rodriguez Anders e Rockwell, poi in Via da Las Vegas di Mike Figgis (1995), Fuga da Los Angeles di John Carpenter, Le acrobate di Silvio Soldini (1997), L’albero delle pere di Francesca Archibugi... Dopo tanti altri ruoli come attrice, passa alla regia con un corto, Armandino e il Madre, quindi debutta nel lungometraggio con questo Miele.
Sentiamo la regista: «Il film mette in cinema il romanzo A nome tuo di Mario Covacich dove c’è un personaggio femminile nuovo per me: né bello né brutto, semplicemente contemporaneo. Ho spremuto dal libro tutto quello che mi piaceva e gli ho lasciato l’aria tra il perentorio e il provocatorio che è la sua forza, ma non mi appartiene. Io volevo potermi permettere di non prendere sempre posizione. È questo il difficile, restare nelle penombre di un problema etico a cui non sappiamo dare risposta, che ci mette in crisi, in cui anche la spregiudicatezza del pensiero a volte si ferma, e rientrano nostro malgrado la cultura, i pregiudizi. Volevo una specie di sospensione verso l’umano, non contro la politica... Mi sono messa molto in discussione. Mi sono incupita. Non sul set, ma dentro di me, non ero tranquilla, c’erano in continuazione tutte queste trappole che mi mettevano in allarme rispetto a dove stavamo andando. Perché con un argomento del genere è volgare chiedere la commozione, è troppo volgare. Però nello stesso tempo parli di cose enormi e non è che puoi dire di una scena “la faccio fredda”... Amo Carlo Cecchi. L’ho voluto a tutti i costi e i motivi sono tutti lì, nel film. Lui è intelligente, spregiudicato. E reticente. Quando hai un po’ di reverenza per il tuo attore, quando devi liberartene per potergli dire che quella cosa che fa, così come la fa non va bene, è un momento difficile, soprattutto se, come dicevo, è reticente. Alla fine però lui è così bello che gli perdoni tutto. Glielo dico, quant’è bello, e lui si lamenta e si innervosisce. È un rapporto pieno di affetto, fisico. Ci facciamo un sacco di carezze».
La critica
Inutile andar troppo per le lunghe. Il film con cui Valeria Golino esordisce alla regia, Miele, racconta la storia di una trentenne che favorisce la morte di persone inguaribili. Un film sull’eutanasia. Eppure anche questa cruda essenzialità rischia di portare fuori strada: se fosse davvero un film sull’eutanasia, potremmo aspettarci una qualche presa di posizione pro o contro, un film-dibattito che magari prende spunto dalla cronaca, coinvolga vari livelli di responsabilità (la legge, la morale, la salute), chiami in causa lo Stato, la Chiesa, la Medicina... Invece il tema del film è molto più semplice e insieme molto più complicato, disturbante. Miele pone allo spettatore una domanda a cui forse non è preparato a rispondere, semplice e diretta nella sua crudezza: come si guarda in faccia la morte? È questo quello che fa la sua protagonista, la giovane Irene che dai suoi ‘pazienti’ preferisce farsi chiamare Miele. Ed è questo che fa la regista durante i 96 minuti del suo film: costringere chi è abituato a guardare senza farsi troppi problemi, a domandarsi come lo si debba fare. Non è un compito facile, né per la protagonista né per lo spettatore. E qualche volta ti viene il dubbio che anche per la regista sia un compito ‘troppo’ arduo. Intuisci che anche lei ha voglia di scantonare, di guardare da un’altra parte. E allora i morituri si lasciano andare a un piccolo gesto di ‘spiegazione’, di ‘giustificazione’, come quando una si aggiusta leggermente la parrucca (facendoci capire che se la indossa è evidentemente malata in maniera molto grave) oppure quando un altro mostra sul viso macchie inspiegabili (ma che ‘spiegano’ la presenza di una qualche infezione mortale). Ma poi il film riprende la sua barra e l’obiettivo torna a guardare dritto al centro del problema. E a chiedersi (e chiederci): come si guarda la morte? Per tutto il film questa domanda è sulle spalle di Jasmine Trinca, che per la prima volta ci convince davvero, senza se e senza ma. Lei è Irene/Miele, trentenne con poche radici che si fa pagare per aiutare le persone a morire. Lo fa con un barbiturico per cani, che va a comprare in Messico, e con una ‘professionalità’ che non esclude comprensione e sensibilità. Sappiamo poco della sua vita, dell’organizzazione che le passa gli indirizzi dei ‘clienti’, dei suoi legami (forse la parte più debole del film, dove fa capolino qualche altro tipo di ‘spiegazione’, questa volta psicologica: storie di sesso e non di sentimenti, come se le servissero per sentirsi viva...). E il film si fa quasi un dovere di non approfondire, di non indagare. Senza mai il cinismo o la crudezza di certo cinema entomologico (penso a Seidl, a Haneke prima di Amour), ma con la consapevolezza della gravità del tema. A mettere in crisi le sue certezze arriva prima un ingegnere (Carlo Cecchi) che vuole morire senza avere nessuna malattia: lei gli ha portato il barbiturico letale e quando scopre che è ‘sano come un pesce’ lo vorrebbe indietro, perché pensa di essere stata ingannata nella sua buonafede («Non aiuto i sani a morire», si giustifica). Iniziando così un rapporto prima conflittuale poi meno, che per la prima volta la porta a scavare dentro la mente di chi cerca la morte. Poi sarà l’eutanasia di un ragazzo, paraplegico per un qualche incidente non detto, a far crollare le sue difese ‘professionali’, costringendola a riflettere sullo strazio di una fine che pure è voluta sia dall’interessato che dalla madre. E con lei è anche lo spettatore che alla fine dovrà fare i conti con il tema della morte. Non per chiedersi se sia giusto o sbagliato favorirla (su questo il film non vuole dare risposte), ma piuttosto per interrogarsi su come si possono tenere gli occhi aperti di fronte a qualcosa con cui tutti dobbiamo fare i conti ma che nessuno vuole davvero guardare. È l’unica domanda che può farsi il cinema - come si guarda la realtà - ed è quella a cui non c’è una risposta semplice. Ieri, quando il nostro rapporto con le immagini era più diretto e codificato, alcuni hanno sostenuto (con eccellenti ragioni) che quello fosse il vero tabù, perché metteva in discussione l’essenza stessa del cinema (la finzione non può restituire la drammaticità del reale, a meno di banalizzare e ingannare). Oggi, che molto è cambiato e la morte è diventato un tabù sociale, sempre più nascosto e dimenticato nella vita vera, forse certe ‘verità’ si possono rimettere in discussione. Valeria Golino ha avuto il coraggio di farlo, costringendo lo spettatore ad aprire gli occhi come fa in un drammatico piano fisso Irene/Miele. Non è l’ultima scena (che in qualche modo ci aiuta a pensare che anche quel gesto estremo può avere un senso) ma è quella che ci resta in mente più a lungo. È quella che ci portiamo dietro quando usciamo dal cinema e su cui non potremo smettere di interrogarci.
PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 30 aprile 2013
Miele è il nome in codice di Irene, perché il miele addolcisce i bocconi amari, le cose insipide, quello che non si riesce, altrimenti, a mandare giù. Come il fatto di dover morire senza aver deciso che era arrivato il momento, anzi, peggio, prima anche solo di averne concepito l’idea. Miele è un angelico gregario che ti accompagna verso la fine della pena, con fredda e professionale disillusione, chiedendoti fino alla fine se sei veramente convinto di voler morire per procura, quando la domanda appare sorniona e retorica, visto che il tuo volto è disfatto, la carne a pezzi, le membra non reggono più. Spegnere un interruttore quando sai che è l’unica cosa da fare, ma è anche l’unica cosa da non fare mai. (...) Anche lo spazio in cui si accoglie la morte conta: si decede in territori asettici, circondati da oggetti sterilizzati, collegati a macchinari astronomici con funzioni sconosciute e molteplici, mentre tutti intorno a noi si affannano per cancellare fino all’ultimo qualsiasi segnale di deturpazione fisica, di traccia ematica, di sporcizia scatologica, esercitando un’azione pulente, disinfettante, lenitiva continua e indefessa, volta a cancellare, censurare, rimandare la plateale presa di coscienza della fine che insudicia tutto. (...) Miele/Irene si muove come un chirurgo della morte gentile ma non troppo, che parla a bassa voce misurando le parole, recitando un copione che si è autoimposta perché mettersi delle regole aiuta sempre quando non si è proprio sicuri di agire nella liceità. (...)
EElisa Baldini, Cineforum, n. 525, giugno 2013
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