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Zero Dark Thirty- Scheda del film

 

 

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Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 28 novembre 2013 – Scheda n. 8 (902)

 

 

 

 

 

Zero Dark Thirty

 

 

 

Regia: Kathryn Bigelow

 

Sceneggiatura: Mark Boal. Fotografia: Greig Fraser.

Montaggio: William Goldberg, Dylan Tichenor. Musica: Alexandre Desplat.

 

Interpreti: Jessica Chastain (Maya), Jason Clarke (Dan),

Joel Edgerton (Patrick), Jennifer Ehle (Jessica),

Mark Strong (George), Kyle Chandler (Joseph Bradley),

Édgar Ramirez (Larry), James Gandolfini (il direttore della Cia).

 

Produzione: Annapurna Pictures. Distribuzione: Universal.

Durata: 157’. Origine: Usa, 2012.

 

 

Kathryn Bigelow

 

 

La regista donna più ammirata nel panorama mondiale del cinema, Kathryn Bigelow, è nata a San Carlos, California, nel 1951. Fa la pittrice, frequenta a New York gli artisti di avanguardia, si iscrive alla Columbia’s Film School, dirige il corto The Set-Up (1978), poi il lungo The Loveless (1983). Il secondo film è Il buio s’avvicina (1987), horror vampiresco. Poi viene Blue Steel con Jamie Lee Curtis, poliziotta innamorata di un maniaco. Point Break (1991) è seguito da Strange Days (1995, visto al Cineforum), da Il mistero dell’acqua (2001) e dal sommergibilistico K-19 (2002). The Hurt Locker (2008, visto al Cineforum) vince 5 Oscar, compresi miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura. Prima donna con l’Oscar per la regia. Zero Dark Thirty è il suo film più recente.

 

 

La critica

 

 

Il buio, le voci, il caos, lo choc. Non poteva forse che partire così, Zero Dark Thirty. Richiamando alla memoria, come faceva il corto di Iñarritu del film collettivo di qualche anno fa sull’11 settembre, lo sconvolgimento di un evento che è stato il più vicino e definitivo punto a capo della storia recente. Un punto a capo che ha rimesso in gioco tutto e tutti, generando caos e derive, ortodossie esasperate e nuove forme di pensiero. E con un film potente e intenso Kathryn Bigelow, che di coraggio e intelligenza ne ha da vendere, rende conto della complessità che ne è scaturita: senza necessariamente volervi porre rimedio, ma raccontando e documentando, e portando avanti un pensiero ideologico che è personale e collettivo, di genere e universale allo stesso tempo. Resoconto e rielaborazione (più o meno libera: importa pochissimo o niente) della caccia e dell’uccisione di Osama bin Laden, Zero Dark Thirty è però anche e forse soprattutto un film capace di leggere il presente e di proporre con forza uno sguardo e, appunto, un pensiero: che sono, al tempo stesso, quelli di Maya, quelli della Bigelow, quelli femminili tutti. La sua prima apparizione sullo schermo, la Maya di una dolente e dolorosa Jessica Chastain, vero e proprio alter ego della regista, la fa coperta e incappucciata. Anonima. Ma bastano pochi secondi per togliersi una tuta e un cappuccio e presentarsi in tailleur: per ribadire un’identità, una specificità, il suo sesso, la sua età. E per affermarli da subito come valori. A disagio nei confronti dei metodi poco ortodossi dei suoi colleghi, delle torture che non sono mai rappresentate dalla Bigelow con sguardo complice o giustificatorio, Maya sarà capace di apprendere, di adeguarsi ma sempre nel rispetto di una visione specifica, e per via di una forza caratteriale e di una determinazione che riescono a far passare in secondo piano la loro applicazione fisica e concreta. Eroina in lotta costante contro gli ostacoli subdoli dovuti al pregiudizio, a meccanismi arrugginiti, alla mancanza di elasticità, Maya ha dalla sua la forza delle sue capacità e delle sue sicurezze: sa che deve darsi da fare come e più degli altri, ma rifugge dai vittimismi di troppe vetero (?) femministe e guarda alla condizione sua e del mondo in cui è inserita senza lenti ideologiche né volontà mimetiche e spersonalizzanti. Maya agisce: non esita nemmeno un secondo a denunciare l’impasse di chi non può o non sa più muoversi, e non si abbandona dando la colpa ai limiti che le sono imposti. E attraverso il suo agire - che è prima di tutto, va ribadito, sguardo e pensiero, e solo in seconda battuta azione fisica, perfino indiretta - riesce ad ottenere i risultati che spera; di più, a cambiare le cose, attraverso il riconoscimento delle sue idee e delle sue posizioni. Tutto questo, è ovvio, ha un prezzo, e la Bigelow è troppo diretta e onesta per nasconderlo. Per lei, a giudicare dalle inutili e insulse polemiche che hanno circondato il suo film, è quello dell’invidia di chi non accetta che sappia giocare a un gioco cinematografico prevalentemente “da uomini” meglio di loro e con una personalità precisa e definita. Per Maya è il prezzo della solitudine, e della virtuale assenza di ogni forma di privato, di un vuoto intimo e doloroso che esplode silenzioso in un finale bellissimo, quando la vanità del successo diventa finalmente palpabile. In questo modo, però, la Bigelow non racconta solo un personaggio, ma un paese e la sua cultura. Perché rende evidente, ce ne fosse stato bisogno, come in Zero Dark Thirty Maya sia l’America tutta. Un’America sconvolta, colpita da un lutto profondo che la trasforma, colma di contraddizioni e di un’ossessione di vendetta rabbiosa e determinata, infine consapevole di quanto sia stata effimera la soddisfazione data dal suo compimento. Per questo, anche, Zero Dark Thirty è un film caratterizzato da una solennità elettrica, tesissima e funerea, solo a tratti intervallata dall’adrenalina pura di un’azione diretta egregiamente e che è sempre conseguenza di un pensiero, e mai motore diretto di nulla. Un film dall’andamento manniano (alla Michael Mann), per via della cura per i dettagli, per il coraggio nelle dilatazioni temporali, per capacità di distrarre lo sguardo dall’ovvio e cogliere così la complessità di un mondo dai confini sfumati, che costringe a indossare il burka sopra le All Star o che prevede tappetini da preghiera dentro la sede della CIA. Per la capacità di essere avvincente e rispettoso delle esigenze di genere e di una storia senza cedere di un millimetro nei confronti delle esigenze di un personaggio e della sua intimità. Di un pensiero che può e deve essere comune e condiviso. Perché oggi, uomini o donne, siamo un po’ tutti, come Maya: noi contro il mondo. E, come lei, dovremmo tutti trovare dentro di noi quella sicurezza tanto forte da spaventare (ma poi convincere) gli altri. Quella sicurezza, Kathryn Bigelow ce l’ha. E, a giudicare dalle reazioni, spaventa ancora molti.

FFederico Gironi, comingsoon, 4 febbraio 2013

 

Zero Dark Thirty è uno di quegli eventi che vanno assolutamente visti, sapendo di maneggiare una materia incandescente. È anche uno di quei film che andrebbero recensiti due volte: come film, appunto, e come «oggetti contundenti» in un dibattito politico rovente. L’argomento è finito in prima pagina – a film non visto, come sempre – quando dagli Stati Uniti è rimbalzata la polemica sulle Distinguished Intelligence Medals (il più alto riconoscimento della Cia) assegnate agli agenti coinvolti nell’operazione che portò alla cattura e all’uccisione di Osama Bin Laden. La donna protagonista di quell’indagine (nel film si chiama Maya, e la interpreta Jessica Chastain: il suo vero nome è ovviamente ignoto) ha piantato una grana ai vertici dell’Agenzia sostenendo che solo lei avrebbe meritato la medaglia; quelle assegnate ai colleghi uomini sarebbero state squisitamente «politiche». Non conosciamo il seguito di questa polemica: la Cia lava i panni sporchi in privato, è già strano che siano filtrate le poche notizie appena riassunte. Nel film, «Maya» arriva nell’ufficio della Cia presso l’ambasciata Usa in Pakistan accompagnata dalla fama di killer, perché mette sul lavoro una determinazione feroce. Per metterla alla prova l’assegnano agli interrogatori. Questo, nel 2003, significa una sola cosa: torture. Il film ha un incipit durissimo anche per lo spettatore: i titoli scorrono su uno schermo nero mentre riecheggiano spezzoni sonori dell’11 settembre, l’attentato alle Torri, grida, pianti, telefonate disperate. Poi si entra in uno squallido capannone dove «Maya» assiste alle torture inflitte da un suo collega dai modi molto spicci. Insostenibile, per lei e per noi. Il film segue, negli anni, la carriera di «Maya». (...)

Dal punto di vista cinematografico Zero Dark Thirty è lo straordinario ritratto di un’ossessione femminile in un mondo ferocemente maschile, travestito da film di guerra. Potrebbe essere – per Bigelow – paradossalmente autobiografico: prima regista donna a vincere l’Oscar, si è fatta strada a Hollywood con stile super-macho e film imbottiti di testosterone. Zero Dark Thirty è il più ambizioso e complesso, diciamolo pure: il suo capolavoro. Dal punto di vista politico le cose sono molto complicate: Mark Boal, giornalista embedded e già sceneggiatore di The Hurt Locker, ha avuto chiaramente accesso a informazioni che solo i capi della Cia potrebbero dirci quanto «riservate». Inoltre, nel film c’è una cesura: una «Cia di Bush», che pratica le torture e ottiene informazioni (a volte false: sotto tortura chiunque può confessare qualunque cosa), e una «Cia di Obama» che le vieta e deve fare intelligence con altri metodi. I Repubblicani hanno violentemente protestato. Impossibile dar loro tutti i torti: che il film sia «obamiano», è indiscutibile. La domanda è: un film «obamiano» è bello per forza? Risposta: no. Zero Dark Thirty è bello per altri motivi, ed è anche inquietante, un buco nero nella storia del XXI secolo che pone domande terribili, alle quali lascia intuire risposte angoscianti. Del tipo: era indispensabile ucciderlo, non sarebbe stato più utile catturarlo vivo? Risposta: sì, era indispensabile, e nessuno osi chiedere perché.

AAlberto Crespi, l’Unità, 7 febbraio 2013

 

 

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