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Giovedì 9 gennaio 2014 – Scheda n. 12 (906)
Moonrise Kingdom
Una fuga d’amore
Regia: Wes Anderson
Sceneggiatura: Wes Anderson, Roman Coppola. Fotografia: Robert D. Yeoman.
Montaggio: Andrew Weisblum. Musica: Alexandre Desplat.
Interpreti: Jared Gilmam (Sam), Kara Hayward (Suzy),
Bruce Willis (il comandante Sharp), Edward Norton (il caposcout Ward),
Bill Murray (il signor Bishop), Frances McDormand (la signora Bishop),
Tilda Swinton (la signora Servizi Sociali), Jason Schwartzman (il cugino Ben),
Bob Balaban (il narratore).
Produzione: Moonrise. Distribuzione: Lucky Red.
Durata: 94’. Origine: Usa, 2012.
Wes Anderson
Riecco Wes Anderson. Lo accogliamo sempre con molto piacere. Nato a Houston, Texas, nel 1969, cresciuto a New York, studia filosofia, gira un corto, Bottle Rocket, che diventa, grazie al Sundance Film Festival, il lungo Un colpo da dilettanti (1996). Poi vengono Rushmore (1998), I Tenenbaum (2001, visto al Cineforum), Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2005), Il treno per il Darjeeling accompagnato dal romantico corto Hotel Chevalier (2008, visti al Cineforum). Gira anche un film in animazione, Fantastic Mr. Fox (2010, visto al Cineforum) e adesso arriva Moonrise Kingdom, film d’apertura al festival di Cannes 2012.
Sentiamo Anderson: «Lo scoutismo è un tema atipico per un film. Mi piaceva l’idea di metterlo in cinema perché lo scoutismo rimanda all’America di un tempo, quella dei dipinti di Norman Rockwell e del Saturday Evening Post Magazine, quei disegni che ritraevano l’America campagnola e bonaria di un tempo che non so se c’è mai stato. È possibile trovare una traccia di questo passato in alcune ‘isole’ del paese, dove sembra che il tempo si sia fermato. E poi, quando mi sono messo a scrivere la sceneggiatura con Roman Coppola, la prima immagine che mi è venuta in mente è quella del bambino con un berretto da scout. Io sono stato scout solo per due mesi. Ma non ho mai partecipato alle escursioni insieme al gruppo scout, ricordo piuttosto le escursioni in compagnia di mia madre, che è archeologa... A parte lo scoutismo, il film si è sviluppato da una riflessione sull’origine dei sentimenti. Cosa fare quando ci si innamora, ma si è troppo giovani? Mi ricordo chiaramente di essermi sentito stravolto quando è successo a me da ragazzo, non capivo cosa mi succedeva... Stavo lavorando da circa un anno sulla storia quando, all’improvviso, sono entrato in una fase di blocco. Così ho chiesto a Roman di aiutarmi. Mi ha spinto nella giusta direzione ponendomi molte domande sui personaggi e sulle loro intenzioni. E poi ha avuto questa intuizione geniale: e se i due bambini si conoscessero prima di fuggire insieme? Avrebbero pianificato tutto, e così via… Abbiamo inserito i flashback nella sceneggiatura, che abbiamo finito di scrivere in un mese... Non credo che i bambini del film siano più maturi degli adulti. In realtà, si trovano su un livello di parità. Ciò contribuisce, in modo contrastante, a dare quell’impressione. Mentre scrivo, scelgo e seguo determinate idee perché mi sembrano opportune. Non dico mai a me stesso: “In questo punto, sono divertente. In quell’altro, devo essere malinconico”. Il caso vuole che ciò che amo sia sempre nel mezzo! Allo stesso tempo, talvolta mi chiedo in che modo gli spettatori risponderanno all’aspetto tragicomico di una scena. “Era un bravo cane?”, e l’altro risponde: “Chi lo sa? Ma non meritava di morire”. Secondo me, è una scena tristissima che, al tempo stesso, ha un che di scherzoso. Insomma, cerco di inserire l’emozione il più possibile, ma non posso evitare di mescolarla allo humour. Ammetto, però, di rischiare di indebolire la spontaneità e l’autenticità dei sentimenti dei miei personaggi: ma questo penso sia proprio il mio marchio... Insieme a Bruce Willis, Edward Norton, Bill Murray, Tilda Swinton e Jason Schwartzman, c’è anche Frances McDormand. La sua presenza rafforza il legame più o meno implicito tra il mio cinema e quello dei fratelli Coen. Ammiro ciò che fanno fin dal loro primo film, Blood Simple. Ho sempre invidiato la loro facilità nello scrivere dialoghi vivi e selvaggiamente divertenti. Un aneddoto: la prima volta che ho visto Il grande Lebowski, sono uscito dal cinema sconvolto. Non riuscivo a capire se mi era piaciuto oppure no. Rivedendolo, non solo i miei dubbi sono scomparsi, ma è diventato uno dei miei film preferiti. Avevo bisogno di capire il film prima di poterlo apprezzare».
La critica
Il cinema di Wes Anderson non è la riproduzione esatta del nostro mondo, bensì una pagina (scritta, disegnata, filmata) attraverso la quale poterlo raccontare; l’universo che mette in scena non trova mai una corrispondenza diretta e immediata nel reale: nei film del regista texano i personaggi, le case, i luoghi e le storie non appartengono alla vita quotidiana, e non sono mai la rappresentazione fedele di ciò che si potrebbe incontrare e vivere ogni giorno. Come è stato detto fin troppe volte, insomma, la verosimiglianza non gli appartiene: e per fortuna, aggiungeremmo. Questo perché ogni elemento della filmografia andersoniana è un capitolo, bellissimo e meraviglioso, di un grande romanzo raccontato con uno sguardo unico e sempre incredibilmente partecipe. Con i suoi protagonisti vestiti sempre nello stesso modo, con la sua attenzione maniacale verso ogni singolo dettaglio, con il suo stile fatto di inquadrature geometriche e controllatissime. Stile che non si è mai trasformato in maniera, pur rimanendo sempre immediatamente riconoscibile. Anche Moonrise Kingdom quindi, come qualsiasi altra opera del regista, è pura letteratura filmata; che brutta espressione, penserà qualcuno. Ma qui si parla di immaginari e di proiezioni fantastiche, e non certo di opere subordinate alla scrittura. (...)
Wes Anderson è innanzitutto un grande narratore innamorato dell’arte del racconto, da sempre impegnato in un’operazione di trasfigurazione dei suoi personaggi da caratteri monodimensionali (che trovano nella divisa l’identificazione in un determinato ruolo) a figure eroiche – o tragiche, a seconda dei casi. Lo si chiami pure processo di formazione, se si preferisce: ma quello raccontato nel suo cinema è sempre qualcosa di così incredibilmente grande – che sia un sentimento, un gesto, un viaggio, o addirittura una vita intera – che tutti gli elementi, gli oggetti e i colori dei suoi set finiscono per diventare parte integrante e insostituibile di questo mondo. Quasi un universo fantasy, se vogliamo: che non ha bisogno di draghi, elfi e nani per raccontarci cosa eravamo, dove abbiamo fallito e, soprattutto, a cosa aspiriamo. Insieme. Moonrise Kingdom è un altro racconto sulla necessità del vivere insieme, sul costruire una famiglia fondata su fattori innanzitutto umani, e non necessariamente anagrafici; sul senso di appartenenza a un qualcosa (una casa, un gruppo) che non sia mera istituzione, ma il risultato di tante vite confluite in esso. Questo ci viene ricordato sin dall’incipit, da un nastro registrato che spiega come «ogni orchestra sinfonica sia formata da parti più piccole, chiamate variazioni. Ovvero, diversi modi di suonare la stessa melodia»: è solamente grazie all’unione dei suoi elementi che un mondo, piccolo o grande che sia, può funzionare. (...)
Moonrise Kingdom è un film che guarda lontano, come il binocolo della piccola Suzy: anche in termini puramente temporali (siamo negli anni Sessanta), guarda indietro per cercare un paradiso sepolto negli angoli della memoria, in una dimensione fantastica e costantemente sull’orlo di una terribile minaccia (la tempesta preannunciata dal meteorologo/narratore). Messi di fronte al loro passato, i padri non possono che contemplarne le macerie. (...)
Se i due ragazzi protagonisti (gli straordinari Jared Gilman e Kara Hayward) parlano, ragionano e si comportano in una maniera poco credibile per la loro giovane età, è perché portano sulle proprie spalle il peso della generazione dei genitori. Sono costretti a sopperire alle loro mancanze. Tutti gli adulti, nel film, sono l’emblema di un fallimento morale e professionale; da Edward Norton, capo scout che non riesce a tenere insieme la propria truppa, a un immenso Bruce Willis, frustrato poliziotto di frontiera («Non è scemo, ma triste sì»), passando ovviamente per Bill Murray e Frances McDormand, avvocati mediocri e padri assenti che comunicano tra loro attraverso letti separati. Figure a loro modo tragiche, che riconoscono però nell’innocente ostinazione dei ragazzi quella fiamma di vitalità e speranza che loro non possiedono più, e dinanzi alla quale trovano, in un ultimo, bellissimo gesto collettivo, la forza di rimediare: fornendo ciascuno il proprio insostituibile contributo, umano, legale o paterno che sia; tutte variazioni di questa grande, immensa orchestra sinfonica che è l’insieme dei personaggi del film. Il “regno della luna nascente” fondato da Sam e Suzy è il mondo fiabesco dove risiede il segreto di una felicità nascosta nel/dal tempo, in grado di spalancare gli occhi di chi non riesce più a vedere alla stregua di un bambino. Un luogo dove esistono ancora i superpoteri, in grado di far vedere le cose «più vicine anche se sono molto lontane», e dove la poesia «non ha bisogno di rime» per dimostrare la portata del proprio contenuto. Forse, Moonrise Kingdom è il film più apertamente scoperto di Anderson, quello dove il collante del tessuto umano è rappresentato da un sentimento fanciullesco e puro: se non è più tempo per portarsi appresso i pesanti fardelli del passato, allo stesso modo non ci si può più permettere di ignorare qualcosa di talmente grande che rischia di passare inosservato.
GGiacomo Calzoni, Cineforum, n. 520, dicembre 2012
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