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Giovedì 13 febbraio 2014 – Scheda n. 17 (911)
The Sessions
Regia e sceneggiatura: Ben Lewin
Fotografia: Geoffry Simpson. Montaggio: Lisa Bromwell.
Musica: Marco Beltrami.
Interpreti: John Hawkes (Mark O’Brien), Helen Hunt (Cheryl),
William H. Macy (padre Brendan), Moon Bloodgood (Vera),
Annika Marks (Amanda), Rhea Perlman (Mikvah Lady),
W. Earl Brown (Rod), Robin Weigert (Susan),
Blake Lindsley (la dottoressa Laura White), Ming Lo (l’impiegato),
Jennifer Kumiyama (Carmen), Rusty Schwimmer (Joan),
James Martinez (Matt), Adam Arkin (Josh), Tobias Forrest (Greg).
Produzione: Judi Levine. Distribuzione: 20th Century Fox.
Durata: 95’. Origine: Usa, 2012.
Ben Lewin
Nato in Polonia nel 1946, Ben Lewin è emigrato, ancora bambino, con la famiglia a Melbourne, in Australia. A sei anni ha contratto la poliomielite. Si è laureato in legge, ha fatto l’avvocato, poi ha lasciato la professione per studiare cinema in Inghilterra. Ha cominciato a lavorare come regista per la BBC e ha girato il mondo dirigendo film in Australia, Francia, Inghilterra e Usa. Tra i suoi film ci sono The Dunera Boys (1985) con Bob Hoskins, Georgia (1988) con Judy Davis. Negli anni Novanta si è stabilito negli Stati Uniti, dove ha diretto The Favour, the Watch, and the Very Big Fish (1991), Hollywwod Gold (2003) e questo The Sessions.
Ascoltiamo Lewin: «Il mio film deriva da un articolo di Mark O’Brien dal titolo On Seeing a Sex Surrogate (In cerca di un ‘surrogato’ sessuale) che è quasi la bozza della sceneggiatura di The Sessions. Tuttavia la storia risente in modo importante anche della mia interpretazione del soggetto e dei personaggi. Ad esempio, mentre ero impegnato ad acquistare i diritti dell’articolo, ho incontrato proprio la persona che Mark temeva di non incontrare mai, quella che ha trasformato i suoi sogni in realtà. Mark, disabile, aveva infatti abbandonato la speranza di vivere una lunga e intima relazione con una donna e lo ha apertamente scritto in un suo articolo. Il tono delle sue parole era triste e pessimista ma questo finale malinconico si è felicemente e inaspettatamente trasformato grazie a Susan Fernbach. Negli ultimi anni della vita di Mark, Susan è stata la sua amante, la sua compagna e la sua collaboratrice letteraria. Definisce “magico” il tempo trascorso con lui. Al di là del lieto fine che la donna rappresenta nella vita di O’Brien, le sue profonde e personali osservazioni su di lui hanno reso possibile la costruzione di un personaggio assai diverso e ben più complesso di quello che sarei riuscito a concepire senza la sua consulenza...
L’altro evento che ha cambiato in modo significativo il mio approccio alla sceneggiatura è stato l’incontro con Cheryl Cohen-Green, il cosiddetto ‘surrogato sessuale’, che ora è diventata nonna ma che ancora esercita il suo mestiere. Il suo candore e l’accuratezza dei suoi racconti mi hanno aiutato a tramutare la biografia di Mark in un film sentimentale che ho scritto con più piacere e con disinvoltura...
Generalmente si pensa che fare cinema sia divertente. Non so some mai la gente abbia sviluppato questa convinzione. Certamente l’idea di fare un film può essere elettrizzante e a volte il risultato è appagante, tuttavia la lavorazione di un film è molto faticosa e ogni giorno è condita da conflitti e incomprensioni; a fine giornata è davvero un sollievo tornarsene a casa propria per andare a letto. Devo dire però che The Sessions è stato l’eccezione che conferma la regola. Girare questo film è stato un’esperienza unica, bella e gioiosa, e quando è terminata eravamo tutti tristissimi».
La critica
Non sono molte le pellicole che affrontano un tema delicato come quello della sessualità dei disabili. Tra queste, pochissime riescono a farlo con la naturalezza e la vivacità di The Sessions - Gli appuntamenti, ispirato alla vita del poeta e giornalista Mark O’Brien. In seguito a una poliomielite contratta durante l’infanzia, O’Brien fu costretto a trascorrere gran parte della sua esistenza dentro un polmone d’acciaio. Ciò non gli impedì di laurearsi a Berkeley in giornalismo, fondare una piccola casa editrice (la Lemonade Factory), scorrazzare su e giù per le strade della cittadina californiana che lo ospitava in barella, accompagnato dalle sue assistenti, e amare. Il film affronta, però, un momento particolare della vita di Marc O’Brien, quello in cui lo scrittore, giunto all’età di 38 anni e intimorito dall’idea di morire vergine, decide di rivolgersi a una terapista sessuale, un ‘surrogato’ di fidanzata che gli permetta di scoprire le gioie del sesso. La cronaca di questi sei incontri con la terapista Cheryl Cohen Greene viene ricostruita con accuratezza da Ben Lewin, regista e autore dell’efficace sceneggiatura, a sua volta sopravvissuto alla polio e in profonda sintonia con la materia narrata. Lewin non nasconde niente. Negli incontri sessuali tra O’Brien e Cheryl non c’è spazio per sottintesi. Il film mostra apertamente l’imbarazzo, la difficoltà fisica e psicologica delle prime volte, l’ostacolo della malattia e della disabilità, soffermandosi su dettagli intimi e facendo uso di un linguaggio esplicito, senza falsi pudori. Con una materia così delicata, il rischio di cadere nella volgarità o nel pietismo è sempre in agguato, ma il regista riesce a descrivere l’iniziazione sessuale del suo protagonista nel mondo più semplice e naturale. Quello humour disincantato, ma mai cinico, tipico della scrittura di O’Brien, viene profuso a piene mani nella sceneggiatura dando vita a momenti realmente esilaranti, come i divertenti monologhi interiori di Mark, i confronti tra il malato e le sue infermiere e i colloqui con il suo confessore Padre Brendan (un irresistibile William H. Macy). Un film così tenero, toccante e profondamente umano non potrebbe esistere senza i suoi straordinari interpreti. Dopo la nomination all’Oscar per Un gelido inverno, John Hawkes ci sorprende ancora una volta rinunciando all’uso del corpo per interpretare un personaggio fragile e sofferente come Marc O’Brien. Privato della mobilità, Hawkes si produce in una perfomance da Oscar utilizzando gli unici strumenti a sua disposizione: il volto, lo sguardo e la voce. È raro, per un ruolo così virtuosistico, assistere a un’interpretazione così disarmante e ricca di calore, al servizio del film e non del narcisismo personale dell’interprete. Non è da meno Helen Hunt che si spoglia, (nel senso letterale del termine) di ogni pregiudizio dimostrando un coraggio da leone nell’adesione al personaggio di Cheryl. A cinquant’anni la bionda attrice è pronta a mettersi in gioco nei panni di una donna perfettamente a proprio agio con il proprio corpo tanto da aver trasformato l’atto sessuale in professione, senza scomporsi più di tanto quando le viene chiesto di spiegare la differenza tra la sua attività e quella di una prostituta. Essenziale anche la presenza di William Macy, padre spirituale capellone protagonista di divertenti siparietti che, dopo lo sbigottimento iniziale, appoggia la scelta di O’Brien di andare alla scoperta del sesso. Sua è la chiosa: «Ho la sensazione che Dio ti stia dando il via libera per questa storia del sesso. Datti da fare!».
VValentina D’Amico, www.movieplayer.it
Già in un precedente film (Paperback Romance), Ben Lewin aveva messo al centro della vicenda un personaggio che portava su di sé i segni (meno gravi di quelli del protagonista di The Sessions) della poliomielite e, in qualche scena, aveva anche usato le difficoltà nell’atto sessuale come occasione umoristica. In The Sessions – dove i toni non sono più quelli della screwball comedy (la commedia scatenata, ndr) ma rimangono comunque improntati all’ironia e alla leggerezza – la malattia (che a Lewin interessa per evidenti ragioni autobiografiche: anche lui ne è stato colpito) ha un ruolo più centrale e diventa il tema portante del film. L’intento di Lewin è rappresentare il malato, il disabile nella sua “normalità”: al di là delle peculiari difficoltà performative, i problemi del protagonista di fronte al sesso non sono poi così diversi da quelli di chiunque altro: più che le complicazioni fisiche, riguardano infatti la conoscenza di se stesso, dei propri desideri e delle proprie paure, e dell’altra persona. Si potrebbe anche dire che protagonista del film non è tanto il poeta Mark O’Brien, ovvero il malato, quanto piuttosto lo sguardo di chi malato non è. Come dice la voce dello stesso personaggio all’inizio del film, la sua speranza è che in lui si veda nient’altro che un uomo. Nonostante il pesante handicap, Mark vuole essere percepito semplicemente come un essere umano. Il film vuole dunque mettere in questione il nostro sguardo di fronte alla malattia e alla disabilità. A volte lo fa in modo molto didascalico (e questi sono i momenti più deboli del film, fortunatamente limitati a qualche breve parentesi) ridicolizzando chi reputa Mark irrimediabilmente diverso e inferiore (le curiosità pruriginose del fidanzato di Amanda o del portiere del motel). A volte (e questi sono invece i momenti più sottili del film) attraverso il “non detto” degli sguardi di alcuni personaggi, come il prete: dalla sua mimica si intuisce che alle spalle ha forse qualche delusione amorosa (o sente la mancanza di un vero coinvolgimento con un’altra persona). Lo stesso vale per Vera. Attraverso queste figure il film riesce a raccontare in modo allusivo, lasciandoci immaginare storie parallele che non vengono esplicitate, e facendoci capire quanto le loro vicende sentimentali e sessuali possano avere in comune con quella di Mark. Dunque, lo sguardo dello spettatore è messo in discussione. (...)
The Sessions è un film riuscito che – pur con qualche ruffianeria sentimentale – riesce a disegnare bei personaggi a tutto tondo e a rappresentare il sesso con naturalezza e la religione con umanità.
RRinaldo Vignati Cineforum, n. 523, aprile 2013
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