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CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
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Giovedì 20 febbraio 2014 – Scheda n. 18 (912)
Reality
Regia: Matteo Garrone
Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Matteo Garrone, Massimo Gaudioso.
Fotografia: Marco Onorato. Montaggio: Marco Spoletini.
Musica: Alexandre Desplat.
Interpreti: Aniello Arena (Luciano), Loredana Simioli (Maria),
Nando Paone (Michele), Graziella Marina (la mamma di Luciano),
Nello Iorio (Massimone), Nunzia Schiano (la zia Nunzia),
Rosaria D’Urso (la zia Rosaria), Giuseppina Cervizzi (Giusy),
Claudia Gerini (la presentatrice del Grande Fratello).
Produzione: Archimede Film. Distribuzione: 01.
Durata: 115’. Origine: Italia, 2012.
Matteo Garrone
Nato a Roma nel 1968, Matteo Garrone è uno dei nomi sicuri nel panorama del cinema italiano (ed è il regista con la faccia più da ragazzo...). Sicuri nel senso che ha già al suo attivo parecchi buoni film e promette di migliorare ancora. Già in famiglia, Garrone aveva chi si occupava di spettacolo. Il padre: critico teatrale. La madre: fotografa. Negli anni della scuola, Matteo è una promessa del tennis, poi ha un grave infortunio, lascia la racchetta, lavora come aiuto operatore, si dedica alla pittura, gira il corto Silhouette e vince, nel 1966, il Festival Sacher organizzato da Nanni Moretti. L’anno dopo arriva il primo lungometraggio, Terra di mezzo, tre storie di immigrazione a Roma, e gira anche, a New York, il documentario Bienvenido Espirito Santo. Del 1998 sono il documentario Oreste Pipolo, fotografo di matrimoni e il secondo lungo, Ospiti. Nel 2000 esce Estate romana, presentato a Venezia. Il successivo (2002) L’imbalsamatore va a Cannes. Poi tocca a Primo amore (2003). Il colpo grosso arriva nel 2008 con Gomorra, che vince il Gran Premio al Festival di Cannes. Anche questo Reality è stato presentato in concorso a Cannes.
Sentiamo Garrone: «Ho girato tre film a Napoli. Si tratta di una strana coincidenza o forse qualcosa di più. Ovviamente Gomorra non poteva che svolgersi lì. Per L’imbalsamatore ero alla ricerca di un luogo sospeso, fuori dal tempo, com’è il villaggio Coppola. Stavolta non pensavo di tornare a Napoli, ma in fondo, il contrasto tra passato e presente, tra i non luoghi dove si svolge il film come l’aquapark e l’outlet, cioè il massimo dell’artificio (fra l’altro sono già dei set cinematografici belli e pronti!), e invece i luoghi in cui si depositano il passato e la storia, dov’è che questo contrasto si sente e si vede di più se non a Napoli? Reality vive anche di queste contraddizioni violente e divertenti, le ritrovi nelle facce, nell’antropologia insomma, al tempo stesso antichissima e contemporanea...
Comunque poteva essere Padova o Vercelli! La storia sarebbe la stessa in un’altra città. Vedi, è come in un film di fantascienza: il contagio, la contaminazione della smania di visibilità si estende ovunque e arriva fino al protagonista, attraverso la sua famiglia, il quartiere, non si salva nessuno insomma, e questo non succede certo solo a Napoli! E succede in tutte le classi sociali, mica solo nei bassi...
A proposito di fantascienza: alla fine siamo dentro un’astronave, ma si tratta proprio della vera (se così si può dire) casa del Grande Fratello! Durante la scrittura del film, ci eravamo a lungo interrogati se il reality dovessimo crearlo apposta, ma poi abbiamo pensato che tanto valeva prendere quello più noto, col suo marchio e tutto. L’intero perimetro della casa è vetrato. Sì è visti senza poter vedere...
Più che un ritratto della società italiana di oggi Reality è un viaggio attraverso molti mondi e molto diversi tra loro. C’è persino la Via Crucis col Papa! Non volevamo certo fare un film a tesi, una denuncia contro la televisione che rovina la gente, no, niente di didascalico. Lo so che ci si aspetta da me che prenda un partito preciso, pensa un po’ che il primo produttore a cui proponemmo Gomorra lo rifiutò perché non era abbastanza schierato, lo definì “un'occasione mancata”!...
L’attore protagonista di Reality, Aniello Arena, è un detenuto di Volterra. In Reality, Aniello ha di straordinario la purezza, il candore dello sguardo verso il mondo che attraversa...
Io penso al film come se fosse muto. Lo costruisco per immagini. Non voglio giudicare. E voglio essere libero mentre giro il film come dev’essere libero chi lo guarda. Poi ciascuno ci metterà quello che ci vuole mettere...
Un tempo il desiderio di apparire, era, appunto, un desiderio. Oggi è diventato un bisogno e per quanto illusorio ha un sua verità esistenziale molto forte. Per questo il povero Aniello perde la testa: se non va in tv, non esiste, la sua vita non merita di essere vissuta. Parliamo di realtà, va bene, parliamone pure. Ma in Reality, che è tratto da una storia davvero accaduta, e che conosco da vicino, be’, quello che ci siamo inventati noi alla fine sembra vero e quello che è successo sul serio sembra una favola...».
La critica
Da molti anni in qua, quando in sala esce una commedia italiana, i critici lamentano che il periodo della nostra commedia all’italiana vera non c’è più, mentre i registi spendono parole autopromozionali sostenendo di aver fatto il possibile per tornare a quei fasti. Per non parlare poi degli autori, o dei presunti tali, che per darsi un tono seriosissimo da uomini di cinema impegnati e coscienti periodicamente rispondono alle domande con predicozzi sull’assenza di sceneggiature decenti, e sulla necessità di sceneggiature decenti, e sul fatto che il bel cinema c’è laddove ci sono le belle sceneggiature, e che in Italia non si è più capaci di scrivere le belle sceneggiature, e che il cinema popolare non esiste più perché non esistono più le belle sceneggiature. Da Valeria Marini (autrice di se stessa sui generis) a Verdone (autore a tutto campo, e lui ci tiene molto a esserlo), tutti sempre con la solita solfa. Poi esce davvero una commedia all’italiana vera, ma proprio vera, contemporanea e non passatista, che punta all’oggi e non a ieri, che non ricorda ma osserva e talvolta inventa osservando, e si rischia di prenderla per quello che non è o per sottostimarla.
Reality è l’unica commedia all’italiana di questi anni che possa andare fiera del suo passato e della sua eredità, e che inoltre possa indossare queste vesti adeguatamente e con senso del mondo e della società, senza vergogna e senza il bisogno tutto italiota di pubblicizzarsi in tal senso. Tanto che a Cannes Garrone, con grande intelligenza, ha pensato bene di indirizzare critica e giornalisti su altri terreni, citando le fiabe. Ma non erano “fiabe” anche certi film di Ferreri e di Risi? Provate a pensare al percorso di Silvio Magnozzi di Una vita difficile (1961): fra cadute e risalite, la sua è una strada fiabesca che fa della surrealtà la lente privilegiata per sopravvivere a un reale grottesco quando non addirittura mostruoso. E La grande guerra (1959) non è da meno.
Garrone usa il suo protagonista Luciano per attraversare l’Italia odierna: è un poveraccio (nel significato di uomo qualunque, del popolo) come lo era spesso Sordi, e come tale guarda e subisce un Paese che crede di capire ma che risulta più incomprensibile della fede. Luciano non è un simbolo, perché non c’è niente da raffigurare in Reality. Non mi pare che a Garrone interessi condannare il paese catodico, puntare il dito contro la deriva massmediatica dell’Italia finta sotto i riflettori, fare nomi e cognomi di un sistema cancerogeno e bipolare che seduce la persona e poi la tradisce: se così fosse, il suo film sarebbe un banale sguardo critico su tutte le cose che ben conosciamo. Eppure sembra che sulla Croisette molti – penne straniere in testa – siano rimasti delusi proprio di questo, cioè che Reality in fin dei conti non sia la gogna dei reality come doveva essere, la censura necessaria di un’attitudine alla lusinga demenziale ormai di casa in tutte le case degli italiani. E che dunque non faccia ridere come una vera presa per i fondelli si suppone debba fare. Ma ce lo vedete Garrone a costruire un intero film attorno alle dinamiche di una satira televisiva? A infilare una serie di sketch con l’ambizione bassissima di additare le storture nazionali, da novello Bagaglino un po’ più autoriale? Luciano non è l’emblema della stupidaggine; tantomeno Reality è l’allegoria di un mondo che va a rotoli. Al pari di Giovanni Alberti, che in Il Boom (1963) deve vendere un occhio per vivere come moglie e società pretendono, Luciano è il testimone di una sensibilità, un osservatore interno che finisce inevitabilmente per adattarsi al gusto. Egli è il cittadino-tipo, un esempio; non il portabandiera, dunque, piuttosto una delle rotelle dell’ingranaggio che a poco a poco le perde, le rotelle. In questo modo, Garrone evita le trappole sia della retorica, sia del qualunquismo, abbracciando il personaggio con l’affetto che si dedica a uno di famiglia, alla larga dal cinismo del pulpito autoriale. Esattamente come facevano le migliori commedie all’italiana dei migliori registi di commedia all’italiana, un genere che, quando faceva ridere, era a denti ben stretti. È un film dentro questi tempi, Reality, più di qualunque parodia comica (in) diretta o commento intellettuale da salotto. Non cerca l’aggancio col passato per poi stemperarlo in macchiette o in conciliazioni, non sceglie la strada facile della battuta o della gag. Scende in campo assieme a Luciano, e con Luciano cammina per strade e piazze, entra nei tinelli e nelle cucine dove le donne ovviamente sono ai fornelli e decidono della sorte della famiglia e degli uomini, sta nella pescheria perché è un palco ottimale da cui conoscere – anzi, illudersi di conoscere – i clienti e i vicini e i concittadini, e magari pure le “spie” di Roma. Garrone è chiaro, e lucidissimo: dimostrando di sapere cosa accade tra quattro mura, in un centro commerciale e sotto la finestra di casa (...), chiede a Luciano di contemplare il mondo, senza bisogno di farne le veci, dandogli al contrario la sacrosanta legittimità di vedere. Reality diventa così un racconto umano e morale, ad altezza uomo, e soprattutto verosimile. (...)
PPier Maria Bocchi, Cineforum, n. 518, ottobre 2012
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