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Giovedì 27 febbraio 2014 – Scheda n. 19 (913)
Spring Breakers
Vacanze da sballo
Regia e sceneggiatura: Harmony Korine
Fotografia: Benoit Debie. Montaggio: Douglas Crise. Musica: Cliff Martinez.
Interpreti: James Franco (Alien), Selena Gomez (Faith),
Vanessa Hudgens (Candy), Ashley Benson (Brit),
Rachel Korine (Cotty), Gucci Mane (Archie), Heather Morris (Bess).
Produzione: Muse Rabbit Bandini Radar Production. Distribuzione: BIM.
Durata: 92’. Origine: Usa, 2012.
Harmony Korine
Nato a Bolinas, vicino a San Francisco, California, nel 1973. Cresciuto a Nashville, Tennessee. Una delle figure più importanti del cinema (e della musica) indipendente, lontano dalle case di produzione hollyoowdiane, vicino all’America profonda. A 19 anni scrive la sceneggiatura del provocatorio Kids (1995) di Larry Clark. Nel 1997 debutta con Gummo, presentato a Venezia, disturbante vicenda di alcuni sopravvissuti ad un tornado, film che divide pubblico e critica per l’abbrutimento dei protagonisti, ma viene elogiato da registi come Gus Van Sant e Werner Herzog. Secondo film: Julien Donkey-Boy (1999), protagonista un adolescente schizofrenico. Il ruolo del padre è interpretato da Werner Herzog. Nel 2002 Korine scrive la sceneggiatura di Ken Park di Larry Clark, altra opera cruda e provocatoria (e litiga con il regista). Terzo film: Mister Lonely (2006), ancora con Werner Herzog. Infine, nel 2102, arriva alla Mostra di Venezia questo suo Spring Breakers e suscita un putiferio tra sostenitori appassionati (è un potente affresco del vuoto americano!) e pervicaci oppositori (non è un film sul vuoto! è un film vuoto!). Noi stiamo con i primi: Spring Breakers è una rappresentazione spietata e pop del nichilismo odierno, film pieno di sberleffi con quelle attricette prese dai film disneyani e trasformate in micidiali delinquenti. Ma, naturalmente, il film è aperto a tutti i giudizi e a tutte le opinioni. Korine ha anche diretto video musicali per i Sonic Youth, Cat Power e Will Oldham, ha scritto testi per Björk, ha cantato per Will Oldham ed è anche artista che ha esposto nella celebre galleria parigina di agnes b.
Sentiamolo: «Colleziono immagini di spring break da anni, teenager che fanno cose assurde sulla spiaggia e simili, ragazzi che rubano macchinine da golf, che fanno sesso nell’oceano, appesi a lampadari, che si colpiscono con mazze o fanno pipì agli angoli delle strade. Non ero sicuro di sapere perché lo facessi, poi mentre le guardavo capivo che c’è un linguaggio in quelle immagini, mi piacciono i colori e le metafore che riescono ad esprimere. Così ho cominciato a immaginare un film dietro quelle immagini, che non era da subito Spring Breakers ma lo è diventato con il tempo. La mia intenzione era più raccontare un feeling, non volevo criticare o demistificare o analizzare politicamente, anche se poi queste cose possono essere lette nel film. Volevo esporre un sentimento, la maniera in cui mi sento nei confronti di quella parte del mondo...
Io sono un prodotto del paese in cui sono nato e cresciuto e ancora vivo. Il film riflette tutto questo, io appartengo a quel mondo e il film ti mostra come ci si senta ad essere parte di questo mondo. È come se ci fossero cose che lavorano sotto la superficie, energie nell’ombra. A fronte della bellezza e della perfezione del tutto c’è poi anche una storia molto forte di violenza e gangster, voglio dire l’America è costruita su questo...
I colori sono molto importanti perché appartengono alla cultura dei surf e volevo che il film fosse un poema pop, mi piaceva che sembrasse caramelloso, come confettura liquida. Mi piace che dia l’impressione di poterne toccarne la superficie e che la patologia dei personaggi sia ciò che resta appiccicato alla superficie...
Una delle scene che più colpiscono è quella con Britney Spears di sottofondo e questo non mi stupisce. Ho sempre amato quel brano di Britney e credo che rappresenti in molti sensi il feeling del film: una ballad pop con un ritornello che ha un che di minaccioso e qualcosa di più sinistro, aggressivo e patologico sotto, per questo mi piace. Era tanto tempo che volevo far funzionare quella canzone in un contesto di violenza. Anch’io credo sia diventata la miglior scena del film...
Nel film le cose si ripetono spesso perché volevo che fosse un’esperienza fisica, una narrativa liquida fatta di microscene che si ripetono circolarmente, una cosa un po’ allucinata e trascendentale, in modo che sia più vicina strutturalmente alla musica pop o elettronica...
Per me ogni film esplora un tema diverso e ognuno ha idee diverse che lo caratterizzano, vuoi che i personaggi siano tutti diversi e in un certo senso penso comunque che anche queste siano delle outsider pur essendo dentro la loro cultura. Ovviamente sono preda del mito della popolarità ma in quel mondo sono estreme e sole, delle sociopatiche iperreali. In questo senso si collegano bene ai personaggi degli altri miei film, ma per altri versi è un film a sé, che cerca di sovvertire il sistema da dentro».
La critica
Già dal titolo, Spring Breakers, si insinua il concetto di frattura, di interruzione, di momento “altro”. Di una situazione rescissa rispetto alla normalità. La normalità che vivono quattro ragazze californiane, nella frequentazione quotidiana della scuola, dei party sulle spiagge accecanti della West Coast. Nella tradizione statunitense lo spring break è il momento dell’evasione, della trasgressione, quasi una “liberazione”. Per Faith, Candy, Brit e Cotty è qualcosa di più, però. È un viaggio di speranza, di nuovi orizzonti, di nuove prospettive. Harmony Korine ha unito, nel suo quarto film da regista, la tradizione del road movie americano, il senso dello spostamento, della wilderness, della ricerca dello spazio che diventa anche ricerca al proprio interno, con il classico racconto di formazione; la parabola adolescenziale, tipica per chi fa del centro della propria narrazione le vicende di un gruppo di adolescenti. All’interno del variegato panorama indie (indipendente, ndr) del cinema americano, Harmony Korine è una delle figure più sfuggenti, che si fatica a catalogare o a inserire in griglie critiche precostituite. Amico intimo di Gus Van Sant e di Werner Herzog (entrambi protagonisti dell’unico romanzo di fiction scritto da Van Sant, Pink), Korine ha scritto importanti sceneggiature, come quella di Kids di Larry Clark, ed è stato influenzato per un certo periodo dai dettami del Dogma vontrieriano, che hanno portato alla realizzazione del controverso Gummo. A Korine interessano certo gli outcasts, i dropout, gli emarginati, i reietti, come tanti padri della controcultura americana anni Settanta, ma il suo non è propriamente uno sguardo vouyeristico sui corpi come quello di Clark, né uno compiaciuto sulle superfici. La sua non è l’estetica del “bello e maledetto”, non esiste il compiacimento di Clark nel filmare corpi nudi che copulano. Né si può parlare di un facile maledettismo generazionale o ideologico. Korine, in questo senso, è il meno “politico” dei registi indie americani. Allo stesso modo, la sua riflessione non sarà mai quella di un Van Sant. In Spring Breakers si evoca spesso la morte, la si vede, ma la dimensione metafisica che attraversava la trilogia, da Gerry a Last Days, passando per Elephant, e senza dimenticare Restless, non appartiene a questo film come non apparterà mai alla poetica di Korine. Sin dalla scene inziali, Spring Breakers è un lungo trip nella mente di quattro adolescenti annoiate che, partecipando a un rito obbligato, vedono cambiare ineluttabilmente le parabole delle proprie esistenze. Nella premessa californiana Korine affastella immagini da videoclip, una dietro l’altra, senza alcuna connessione, già lisergiche, attraversate da cromatismi pop, kitsch, solo in funzione della presentazione delle quattro ragazze. Ancora in un’ottica ellittica, ciò che Korine ci mostra sarà, però, poi, fondamentale nelle scelte che le quattro ragazze prenderanno, una volta arrivate in Florida, durante il rito dello spring break. (...)
L’arrivo in Florida porta all’ennesima potenza il côté kitch dell’operazione di Korine: party selvaggi notturni, corpi che si sovrappongono, si toccano, si strusciano, senza però mai toccarsi o penetrarsi fino in fondo. Non credo che Korine lo abbia fatto per una questione di censura. I suoi adolescenti, in particolare qui, sono diversi da quelli di Larry Clark, che nel finale di Ken Park si leccano, si penetrano. Korine insiste su una sorta di simulazione accentuata, pruriginosa, mai estrema a livello sessuale. Anche nel consumare le droghe il suo sguardo si concentra più sulla fruizione che non sulla preparazione o sugli effetti devastanti. Dal momento in cui le ragazze conoscono Alien (James Franco, altro corpo attoriale unico nel panorama cinematografico contemporaneo) Spring Breakers prende un’altra piega. La narrazione si fa più compatta, consequenziale, si focalizza su alcuni caratteri e situazioni ben precisi. Si esce dal trip lisergico e si entra in una realtà, sempre distorta, ma che torna ad assomigliare a quella lasciata in California. Al sesso si sovrappone la violenza, la dialettica interna alla bande e al controllo del territorio. Anche le luci cambiano. Da lisergiche si fanno bianche, o nere, nel buio della notte, negli agguati sanguinari. (...)
La violenza a cui le ragazze si associano è la naturale prosecuzione della noia e del vuoto che vivevano in California. Richiamata dalla sua educazione cattolica, Faith torna indietro, e anche Candy inizia a pensare alla sua vita dopo il break. La violenza che anima Brit e Cotty è senza un motivo apparente. Le due non sono interessate agli affari loschi di Alien, ai suoi giochi di potere, nemmeno al controllo del territorio. Certo, sono affascinate da questo gangster rasta bianco, giocano a un sesso più che mai simulato con lui. A tratti il break si fa ancora più eccitante. Ma è la noia, o forse qualcosa di oscuro a spingerle alla violenza (...).
AAntonio Termenini, Cineforum, n. 523, aprile 2013
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