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Grand Budapest Hotel - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 6 novembre 2014 – Scheda n. 5 (926)

 

 

 

 

 

Gran Budapest Hotel

 

 

 

Regia e sceneggiatura: Wes Anderson,

ispirata ai racconti di Stefan Zweig.

 

Fotografia: Robert D. Yeoman. Musica: Alexandre Desplat.

Montaggio: Barney Pilling.

 

Interpreti: Ralph Fiennes (Gustave H), Tony Revolori (Zero),

F. Murray Abraham (Mr. Moustafa), Mathieu Amalric (Serge X.),

Adrien Brody (Dmitri), Willem Dafoe (Jopling),

Jeff Goldblum (Deputato Kovacs), Harvey Keitel (Ludwig),

Jude Law (Giovane scrittore), Bill Murray (M. Ivan).

 

Produzione: American Empirical Pictures. Distribuzione: 20th Century Fox Italia.

Origine: Gran Bretagna, Germania, 2013. Durata: 100’.

 

 

Wes Anderson

 

 

Nato a Houston, nel 1969, Wes Anderson, una delle figure più in vista nel panorama del cinema americano e mondiale, ha studiato all’Università del Texas dove ha conosciuto Owen Wilson, amico e co-sceneggiatore dei suoi primi film. Il primo corto è Bottle Rocket (1994): grazie all’aiuto del Sundance Film Festival di Robert Redford, il corto diventa un lungo intitolato Un colpo da dilettanti (1996). Il successivo Rushmore (1998) attira l’attenzione dei critici e la cosa succede di nuovo e di più con I Tenenbaum (2001), ritratto di una stravagante famiglia newyorchese. Anderson si è nel frattempo trasferito a New York ed è diventato cittadino adottivo. Nel 2005 gira l’eccentrico Le avventure acquatiche di Steve Zissou, seguito nel 2007 dal notevole Il treno per il Darjeling, presentato come quasi tutti i suoi film qui al Cineforum. Sorprendente è anche il film d’animazione Fantastic Mr. Fox (2009) e molto bello è Moonrise Kingdom, film che ha aperto il festival di Cannes del 2012, così come questo Grand Budapest Hotel ha aperto il festival di Berlino del 2014.

Ascoltiamo Wes Anderson: «Grand Budapest Hotel è una vicenda in moto perpetuo, cinetica e comica, una storia senza tempo di amicizia, onore e promesse mantenute. Il film è nato da un mix di ispirazioni, tra cui le commedie cinematografiche degli anni ’30 e le storie e memorie dello scrittore viennese Stefan Zweig. Ho avuto un’idea insieme al mio amico Hugo. Lui e io avevamo discusso di un personaggio ispiratoci da un nostro amico, persona dall’eccezionale ed enorme fascino, un rapporto unico e magnifico con le parole e uno sguardo molto speciale sulla vita, diverso da chiunque altro da noi conosciuto al mondo. Successivamente pensai di fare una sorta di film europeo, ispirato in particolare da Stefan Zweig, scrittore che son giunto a amare seriamente negli ultimi anni. Ci sono altre cose che stavo leggendo che potrebbero non sembrare connesse a questo film, come “La banalità del male” di Hannah Arendt, che ha molto poco a che fare con esso, ma contiene un’analisi avvincente di come ciascun paese europeo si è posto di fronte ai nazisti, e come tutto impazzì; e anche “Suite francese” di Irène Némirovsky. Sono queste alcune delle cose da cui sono partito e che ho mescolato all’idea che Hugo e io avevamo avuto sul nostro amico. E questo, in un certo senso, è ciò che il film è...

Ho collocato la storia in una località termale di fantasia nell’immaginario stato alpino di Zubrowka, per il quale ho creato non solo un’estetica visiva, ma anche una coerente storia del 20º secolo che rispecchiasse l’Europa Orientale, con la presa fascista del potere negli anni Trenta e un successivo periodo comunista, ma anche un passato più lontano di belle epoque...

Sono un grande amatore del disegno a mano, adoro le miniature, i modellini e tutte le tecniche antiche di creazione visiva. Non a caso in Grand Budapest Hotel ho voluto inserire dipinti e affreschi sullo sfondo, accanto ad animazioni elementari. È il modo con cui metti insieme tutti questi elementi che fa la differenza. E il digitale aiuta moltissimo. Ogni film, essenzialmente, è un grande file digitale. Oggi nell’utilizzo di queste tecnologie c’è un’enorme libertà, inimmaginabile ai tempi in cui ho iniziato a lavorare io alla metà degli anni Novanta. Da allora c’è stata una rivoluzione radicale nel mondo del montaggio, ad esempio: ora lavoriamo direttamente sui fotogrammi, possiamo montare metà di una ripresa con un pezzo di un’altra a nostro piacere, sovvertirne il ritmo, modificare un segno sullo sfondo che non ci convince. È stato un cambiamento gigante, come scoprire una nuova dimensione. Tutto senza che lo spettatore se ne accorga...

In una fase iniziale Grand Budapest Hotel era ambientato al presente, poi abbiamo scelto il passato. È dipeso da Stefan Zweig, ma in fondo ritengo di aver raccontato un passato-presente: passato nella forma, presente nella sostanza. Mi spiego, e per farlo parto dalla scena con cui si apre il libro di Zweig: al ristorante un personaggio che una volta era molto popolare non viene riconosciuto da nessuno e se ne sta lì, solo, a mangiare. Mi sembrava una scena potente per raccontare anche il presente, conosco decine di persone così...

Gli attori Jason Schwartzmann, Bill Murray, Adrien Brody, Edward Norton me li porto dietro quasi ad ogni film ormai. Sono come una famiglia che incontro film dopo film. Quando fai un film ti senti come sequestrato dal reale: avere intorno gente con cui stai bene, che ammiri e che ti ispira è fondamentale. Non è gente facile, ma ogni volta che li chiamo sono contento che vengano a recitare per me. Per due lire, oltre tutto: se dovessi pagarli quanto vengono stipendiati di solito esaurirei tutto il budget del film solo per loro. Perché accettano? Non me lo spiego. Di sicuro non per soldi: sono tutti molto più ricchi di me, io aspetto che facciano soldi altrove per poi poterli avere sul mio set! Forse accettano perché sono affascinati dalle storie e dal fatto che li porto in mondi che non conoscono. O forse perché abbiamo imparato con gli anni che possiamo divertirci davvero tanto tutti insieme. E prenderci cura delle new entries, dei nuovi arrivati come il liceale che interpreta il lobby boy, il fattorino, Tony Revolory».

 

 

La critica

 

 

Film che vuole sembrare frizzante e umoristico, film di genere, di tanti generi, con delitto indagine avventure divertimento sorprese. Film che invece, dall’inizio alla fine, è malinconico, è constatazione della perdita di un’epoca, chissà se esistita, di un’Europa fantastica e inventata, film che è memoria di un cinema e di un tempo che si incontra soltanto nei film di grandi registi, Lubitsch, von Stroheim, von Sternberg...

Come si fa a reinventare e riproporre tutto questo armamentario sepolto nelle cantine del tempo. Come si può rimettere in circolazione un Grand Hotel ai tempi del suo poi perduto splendore. Wes Anderson lo fa senza la minima esitazione. Può contare come sempre, come in ogni suo film, sulla sua imperturbabile capacità di rappresentazione, sul suo stile sempre identico e inossidabile, sul suo uso dei colori, dei personaggi, degli arredi, delle suppellettili. Soprattutto sul suo controllo geometrico della macchina da presa, dei movimenti e dei non movimenti della macchina da presa. Avanti dritto. Indietro dritto. Avanti dritto e deviazione di 90° a destra o sinistra. Diagonale a 45°, dall’angolo in basso a sinistra verso l’angolo in alto a destra o viceversa. Zoom avanti. Zoom indietro. Carrello rettilineo di qua o di là. Inquadratura fissa frontale. Controcampo fisso frontale. Visione fissa zenitale. Composizione a prospettiva centrale del quadro. Un cinema tutto geometrico. Tanti sguardi su un mondo che è già inquadratura (cioè è già messo in quadro) prima di essere inquadrato dalla macchina da presa.

Wes Anderson è regista carpentiere: fa i film con la squadra e il filo a piombo. Tutti i suoi film li ha fatti così. In più ci mette più roba possibile: cianfrusaglie, divani, tappeti, scale verso i piani superiori, scale a pioli, scale di corda, una Agatha con una voglia a forma di Mexico su una guancia, un carcere con tanti detenuti, il più criminale dei quali (almeno stando alla brutta faccia) ha un cuore d’oro, un delitto per avvelenamento, pasticcini meravigliosi, un quadro di dubbio valore sostituito da un altro: di Egon Schiele! che viene buttato via come valesse nulla, una grande fortezza che sembra quella della Grande illusione di Renoir (che sia proprio quella?), anche una scena cruenta con sangue sparso: e mi sembra sia la prima volta che c’è del sangue in un film del fanciullesco Wes, anche una testa mozzata di donna, svariati monaci, montagne alpine: una dipinta alla maniera di Caspar David Friedrich sul muro della gigantesca sala da pranzo che ha più l’aria di una sala cinematografica che non della sala da pranzo di un hotel... E tutto questo mondo che non c’è più – e che Wes Anderson riempie di attori, quanti più possibile, quasi uno per ogni inquadratura, attori su attori su attori – sta lì a dimostrare che se anche non fosse mai esistito sarebbe bello che ci fosse stato e fosse durato per secoli e secoli: e invece ci hanno pensato a farlo fuori quei soldati con le quattro Zeta che somigliano troppo alle doppie SS.

La Zubrowka di Wes Anderson è stata sommersa dalla storia e i suoi gentili e vitali abitanti, a partire dal concierge Monsieur Gustave e dal suo giovane assistente Zero, se li è risucchiati il terrore. E così, giustamente, il film è dedicato a Stefan Zweig (Vienna, 1881 - Petrópolis, Brasile 1942, suicida con la seconda moglie) che della finis Austriae è stato accorato e puntiglioso raccontatore. Un titolo di Zweig, “Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo”, andrebbe bene anche al film di Anderson. Un film su un quasi padre e un quasi figlio. Un film sulla voglia irrefrenabile di raccontare, di trasformare tutto in racconto. Un film che corre di accumulazione in accumulazione.

Un film sul godersela anche in tempi oscuri, sull’intelligenza, l’eccentricità, l’educazione, addirittura su quella che una volta si chiamava l’etichetta. Un film che cerca di essere leggero e carezzevole mentre intorno c’è la barbarie. Il Grand Hotel Budapest avevano provveduto a isolarlo, già all’epoca del suo splendore, sul costone abissale di una montagna. Ci si arrivava con un trenino a cremagliera. Non era isolato abbastanza.

BBruno Fornara, https://www.facebook.com/pages/Bruno-Fornara/85215515624

 

 

 

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