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Scheda del film (178 Kb)
Le meraviglie - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 19 febbraio 2015 – Scheda n. 18 (939)

 

 

 

 

 

Le meraviglie

 

 

 

Regia e sceneggiatura: Alice Rohrwacher

 

Fotografia: Hélène Louvart. Montaggio: Marco Spoletini. Musica: Piero Crucitti.

 

 Interpreti: Maria Alexandra Lungu (Gelsomina), Sam Louwyck (Wolfgang),

Alba Rohrwacher (Angelica), Sabine Timoteo (Cocò),

Agnese Graziani (Marinella), Luis Huilca Logronno (Martin),

Eva Morrow (Luna), Margarethe Tiesel (la rappresentante di Second Life),

Andre M. Hennicke (Adrian), Monica Bellucci (Milly Catena).

 

Produzione: Tempesta, Rai Cinema. Distribuzione: Bim.

Durata: 111’. Origine: Italia, 2014.

 

 

Alice Rohrwacher

 

 

Nata a Fiesole nel 1981, Alice Rohwacher, sorella dell’attrice Alba, si laurea a Torino in lettere e filosofia, ottiene un master in sceneggiatura e linguaggio documentario presso la Videoteca Municipal di Lisbona e un master in tecniche narrative e sceneggiatura presso la Scuola Holden di Torino. Gira e cura il montaggio di un documentario, Un piccolo spettacolo (2005), con Pier Paolo Giarolo; poi un altro doc, Vila Morena, a Lisbona. Nel 2006 gira un episodio del film collettivo Checosamanca. Lavora come montatrice e arriva come regista al primo film a soggetto, Corpo celeste (2011, visto al Cineforum), girato in Calabria, storia di una ragazzina che si ritrova in un ambiente rigido e arretrato. Il film viene presentato alla Quinzaine di Cannes e vince il Nastro d’argento per il/la miglior regista esordiente. Nel 2014, Le meraviglie viene presentato in concorso al festival di Cannes e vince il Gran Premio della giuria, secondo premio del festival, dopo la Palma d’oro.

Sentiamo Alice Rohwacher: «Mi chiedono spesso cosa vuole dire essere una regista donna. Rispondo che non sono mai stata un regista uomo, quindi non posso fare paragoni. E non so se il mio punto di vista dipenda dal fatto che sono Alice o che sono una donna. Ovviamente io questa distinzione non l’ho mai sentita, ma mi rendo conto di subirla dall’esterno quando del mio lavoro si tendono a percepire aspetti che si ritengono più prettamente “femminili”, invece di coglierlo nel suo insieme. Mi ricordo che feci un’intervista con una traduttrice molto brava che aveva rifatto la versione italiana di La signora Dalloway di Virginia Wolf. Nella sua versione il libro mi era parso diventare più bello, e gliene chiesi la ragione. Mi raccontò che la traduzione precedente era piena di diminutivi, così “dei suoi figli” diventava “dei suoi piccini”. Si era associata alla lingua della Wolf, perché donna, una connotazione che si riteneva “femminile” e non la si traduceva per quello che era. Ecco, quando sei una “regista donna” molto spesso ti succede questo, che si parla ad esempio di “grazioso”, di “poetico”... eppure, per dirne una, c’è una bella differenza tra poetico e poesia...

Le meraviglie non è un film autobiografico, ma è molto personale. Per la famiglia di Gelsomina mi sono ispirata a persone che ho visto, e il mondo che ha preso corpo in seguito mi pare entrato a far parte della mia vita oggi. Quindi non era un film autobiografico, ma poi lo è diventato in qualche modo...

Ho pensato a Le meraviglie subito dopo la fine di Corpo celeste, forse già a cavallo. Pensavo al paesaggio agrario italiano, che mi sta molto a cuore, e cercavo un modo per raccontarlo. La percezione che si ha oggi del mondo agricolo è o di luogo di disperazione e di noia, o di perfetto idillio, parco tematico all’aria aperta, idealizzato, fatto di “antichi valori”. Per me è un luogo di lavoro e di vita. Mi è sembrato necessario raccontarlo attraverso il lavoro delle api, che io sento profondamente “profetico” e che attraversa il paesaggio, non si vede ma è essenziale. Volevo raccontare una storia che nascesse da lì e che in fondo raccontasse un posto ibrido, dove la famiglia è ancora possibile, e fatta di strati, di contraddizioni...

Ho voluto raccontare il più possibile la storia attraverso dei corpi in movimento, usando loro come guide. I personaggi si passano il testimone tra di loro. L’importante – uno dei “limiti” positivi – è che noi non dobbiamo sapere più di loro. Questo perché non volevamo giudicarli, bensì guardarli con tenerezza, sebbene alcuni di loro non si possano dire innocenti, nel film. Eppure anche chi non è innocente è stato guardato con la stessa tenerezza di chi lo è. Ho cercato di non avere uno sguardo sopra i personaggi ma accanto».

 

 

La critica

 

 

Il secondo film di Alice Rohrwacher inizia nel buio, come il suo precedente. Anche qui fari d’auto si fanno largo nella notte, e lo spettatore dal buio della sala e dello schermo deve cominciare a orientarsi, a prendere possesso del mondo. Ma se Corpo celeste era passo passo il percorso di un’educazione sensoriale, Le meraviglie è un film tutto costruito, più ancora che sui corpi, sulle relazioni tra essi, e la regista non assume così direttamente il punto di vista di un solo personaggio.

Non che il film sia esangue, tutt’altro. Anzi, è proprio questo a distinguere, in maniera inequivocabile, lo stile di Alice Rohrwacher da quello del genere denominato “cinema europeo d’autore”, che qualunque frequentatore di festival conosce bene. All’inizio, si potrebbe essere tentati di confonderlo con i molti film che affollano le sezioni collaterali e i concorsi dei festival: macchina da presa a mano, silenzi, personaggi afflitti… Ma immediatamente sentiamo un calore, una prossimità ai personaggi, che diventa immediatamente anche qualcosa di buffo, di comico. Subito, nella scena in cui la piccola Marinella si alza nel cuore della notte per cacare, e ha uno scambio sussurrato e di spiazzante verità con la maggiore Gelsomina.

Il film, per oltre un’ora, procede nella descrizione di una strana famiglia alternativa, patriarcale e piena di donne, libera dalle convenzioni e oppressa da costrizioni che si è imposta da sé. Il capofamiglia è una specie di post hippie tedesco che si è trasferito in Italia, e vive con la moglie e le quattro figlie femmine in una fattoria, dove insieme allevano le api, con metodi che ben presto saranno considerati obsoleti. E bisogna intanto chiarire una cosa che pochi hanno sottolineato, ossia il carattere storico del film, ambientato un po’ meno di vent’anni fa, e riflessione tra le più interne e intense sulle estreme propaggini degli ideali degli anni Settanta. La famiglia del film è davvero, per dirla con il titolo di un saggio di Christopher Lasch che chiudeva i conti col ’68, un «rifugio in un mondo senza cuore», e le sue dinamiche interne, per quanto diverse dalle famiglie della pubblicità o del cinema italiano consueto, ci risultano immediatamente credibili, appassionanti. Wolfgang, il padre, non è né buono né cattivo, è forte e debole nello stesso tempo, ha torto e ragione. La sua battaglia, ideologica e istintiva insieme, da ultimo giapponese, è contro il consumismo che ormai ha stravinto (…).

La regista ci piomba in mezzo a questi strani personaggi, e da subito ci sentiamo prossimi in maniera totalmente non ideologica. Lo spazio in cui essi sono immersi, poi, disarma. Il lago in cui fanno il bagno, le cascate in cui appare loro la troupe televisiva sono filmati in maniera diversa da come il cinema di solito mostra “la natura”. Sono filmati come un muro scrostato o una strada: così, probabilmente, sente la natura chi ci vive dentro. E poche volte un film ce l’aveva fatto sentire. Le meraviglie insomma, fin dal titolo, non è un film realista. Chi lo ha letto come tale probabilmente scambia la verità dei tempi, degli accenti, e la palpabilità dei corpi, con il realismo, che è essenzialmente un effetto, una costruzione, un patto con lo spettatore. Il film è, questo sì, rosselliniano: ma non nel senso di neorealista (c’è ancora qualcuno che lo tira in ballo, perfino per registi come Garrone…) ma in quello della ricerca della grazia. Non troviamo davvero altro termine, ma insomma parliamo della capacità di costruire la relazione tra spazi sfruttando il caso, la capacità di soffermarsi su dettagli che diventano il cuore del film.

Cos’è che ha impedito dunque alla critica di cogliere la grazia (non troviamo altro termine) del film? Giacché il pubblico, da parte sua, ha risposto in fondo bene: in Italia non si può ragionevolmente sperare che più di duecentomila persone oggi vedano in sala un film come questo, o come Sacro Gra. Però Le meraviglie non è un film per cinefili. I quali amano particolarmente i film che permettono loro di dire cose più o meno intelligenti, o sollecitano i loro piaceri perversi. «Troppo dentro alle cose», rimproverano i familiari al padre. Forse è un po’ questo che non viene perdonato alla regista: di fare un cinema fisico che arriva, con la semplicità del vero talento, a una dimensione quasi ludica, nella quale il critico non trova immediate soddisfazioni intellettuali.

Questo film invece non permette ai critici colti di citare filosofi o sciorinare genealogie, e a quelli corrivi di dire le solite quattro cose sul neorealismo o la commedia all’italiana. Siamo su un altro livello, qui. Un livello in cui non si sente il raccontino, il Tema, e non si sente la voglia di spiegare tutto allo spettatore. Bisogna insomma, una volta tanto, guardare il film (e non leggerlo, come troppo spesso fa la critica). È ormai chiaro che c’è un cinema diverso, nutrito dal documentario o dall’incontro con le altre arti, e che su quello occorre puntare per trovare un senso al nostro cinema. Frammartino, Minervini, Rohrwacher, Marcello, Di Costanzo, Columbu, gli ultimi film di Mereu e Winspeare (le donne di In grazia di Dio hanno più di qualche elemento in comune con queste), i film che vengono visti da una piccola élite, ma magari in tutto il mondo, mettendoli insieme hanno delle somiglianze di famiglia che la critica continua a non voler riconoscere, considerandoli insieme al cinema italiano “normale” da David o da Nastro d’Argento, che magari incassa anche meno di loro.

Dal documentario, che ha marginalmente frequentato, Rohrwacher e i suoi colleghi hanno imparato non l’attenzione ai temi, o un maggiore realismo, ma soprattutto una lezione di messa in scena. Quando tagliare, cosa tenere fuori campo, che suoni e che musiche far sentire, e quando. E, inoltre, la non servitù al racconto, la possibilità della sua sospensione (…).

EEmiliano Morreale, Cineforum, n. 536, luglio 2014

 

 

 

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