in collaborazione con:
CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS
|
Giovedì 2 aprile 2015 – Scheda n. 24 (945)
Piccola patria
Regia: Alessandro Rossetto
Sceneggiatura: Caterina Serra, Alessandro Rossetto. Fotografia: Daniel Mazza.
Montaggio: Jacopo Quadri. Musica: Paolo Segat, Alessandro Cellai, Maria Roveran.
Interpreti: Maria Roveran (Luisa), Roberta Da Soller (Renata),
Vladimir Doda (Bilal), Diego Ribon (Rino Menon),
Lucia Mascino (Anna Carnielo), Mirko Artuso (Franco Carnielo),
Nicoletta Maragno (Itala Menon), Mateo Çili (Anes),
Giulio Brogi (un vecchio), Drival Hajdaraj (Cugino di Bilal).
Produzione: Arsenali Medicei. Distribuzione: Istituto Luce – Cinecittà (2014).
Durata: 111’. Origine: Italia, 2013.
Alessandro Rossetto
Nato a Padova nel 1963, Alessandro Rossetto studia cinema documentaristico a Parigi e antropologia a Bologna. È regista, direttore della fotografia, operatore. Nel 1997 dirige il primo documentario Il fuoco di Napoli, cui ne seguono altri, Bibione Bye Bye One (1999), Chiusura (2002), Feltrinelli (2006), Raul (2007) e un capitolo di L’orchestra di Piazza Vittorio: I diari del ritorno, tutti distribuiti a livello internazionale e presentati ai festival in giro per il mondo. Nel 2010 il New York Documentary Film Festival gli ha dedicato una retrospettiva.
Questa una sua dichiarazione: «Sarebbero potute accadere in una qualsiasi provincia del pianeta, ma ho cercato nel Nordest italiano le storie che compongono il racconto di Piccola patria. Lì ho visto fondersi tra loro quelle atmosfere, la lingua, i volti e i personaggi, le dinamiche personali e di gruppo. Il mio approccio al film è stato fisico: partendo da una sceneggiatura pronta ad essere distrutta, ho voluto creare un vortice estivo che legasse improvvisazione e osservazione, ricerca e creazione dei personaggi. Lisa e Renata vogliono andare via da una cultura del lavoro che è solo cercare di far soldi e spesso non riuscirci, via dalla banalità di vite votate al sacrificio e al silenzio, via dalla rabbia che la mancanza di sogni scatena.
Il conflitto è tra due mondi, quello degli adolescenti, vivo, sensuale, libero senza sapere di esserlo, e quello degli adulti, inerte, rassegnato, doppio. Eppure qualcosa accomuna tutti: una zona oscura, una memoria che segna la carne delle ragazze e che resta non detta. Il sesso che l’una usa per prendersi gioco del mondo, per sfuggire senza meta alle falsità del conformismo, è per l’altra il modo cieco per riscattarsi dalla meschinità e dalla violenza, il pretesto per vendicarsi. Il gioco amoroso, amicale e sessuale assume col tempo i contorni tragici di una realtà che perde per sempre spontaneità e innocenza...
Contrariamente a quanto accade di solito, le musiche di Piccola patria non sono state scelte o composte sul film montato, ma nascono da suggestioni disparate. Conoscevo l’opera di Bepi De Marzi, il compositore e maestro vicentino che ha recuperato e in qualche modo rinnovato la tradizione del canto corale alpino, spesso usando il dialetto veneto per i testi. Istintivamente ho associato “L’aqua ze morta” e “Joska la rossa” a Piccola patria: i testi dei due canti incrociavano a vari livelli il film, si prestavano l’uno allo sguardo d’insieme (che nel film diviene immagine dall’alto, in volo) e l’altro a un’evocazione intima, quella della figura di una ragazza vitale e spersa, un’evocazione ‘antica’. E i cori offrivano epicità, un aspetto possibile del film che apriva a un connubio stridente ma potente fra immagini contemporanee e musica (quasi) tradizionale. Ancora sulle canzoni: Maria Roveran, che interpreta Luisa, è anche una musicista e da sempre compone e canta. Due sue canzoni, nate durante la lavorazione del film, fanno parte della colonna sonora: “Indrìo soea” e “Va”».
La critica
Basterebbe la lettura dei giornali di questi giorni, con il bulldozer trasformato in carro armato e nascosto nel capannone dietro casa, per convincersi che il quadro raccontato da Alessandro Rossetto non è per niente esagerato né tanto meno irrealistico: la ‘piccola patria’ del Nordest cova risentimenti e rabbie, incuba umori e sogni (o paure) che rischiano di trasformarsi in detonatori. E i suoi abitanti sembrano aver perso ogni senso del limite, incapaci di capire dove e quando fermarsi prima che la tragedia diventi irreparabile. Per questo la forma cinematografica del noir sembra per una volta davvero l’unica capace di raccontare la tensione e il rischio che si annidano nel quotidiano. Per una volta liberato da ogni zavorra letteraria o dai giochini risaputi di chi affida alla memoria cinematografica la voglia di raccontare situazioni a rischio (magari con qualcuno convinto di potere imitare Bogart o Mitchum), il percorso di ricatti, rabbie e vendette che Rossetto ha creato insieme a Caterina Serra e Maurizio Braucci funziona alla perfezione per restituire allo spettatore la tensione che una situazione socialmente esplosiva rovescia addosso ai suoi abitanti. E senza bisogno del delitto, dell’indagine poliziesca o della figura rassicurante dell’investigatore privato: il noir di Piccola patria è il nero assoluto di chi ha perso ogni speranza o remora morale, di chi rumina dentro di sé la propria insoddisfazione fino a farla esplodere, di chi pensa che solo i soldi, i schèi, possano essere risolutivi. E proprio dai soldi prende l’avvio il film, soldi ottenuti facendo commercio del proprio corpo ma in modi contorti, ricattatori, in parte accondiscendendo in parte ribellandosi: è la tecnica che Renata (Roberta Da Soller) usa con Rino (Diego Ribon), disposto a pagare per soddisfare una sessualità complessata e repressa. E disposto per questo anche a farsi coinvolgere – sempre tramite Roberta – nei giochi amorosi di Luisa (Maria Roveran) che usa l’inconsapevole Bilal (Vladimir Doda) come ‘esca’ per il voyerismo dell’uomo (lei fa l’amore con il ragazzo bendato e accetta la presenza silenziosa di Rino). (...)
Tutto questo Rossetto lo racconta con un occhio fortemente partecipe, che sfrutta i propri precedenti documentaristici per restituire allo spettatore un tessuto dove notazioni sociali e ritratti antropologici si fondono per trovare uno nell’altro la propria spiegazione e giustificazione. L’ambiente contraddittorio e deturpato dove alberghi ultramoderni sono circondati da abitazioni rurali, capannoni dismessi e cascine semiabbandonate; le ovvietà e le banalità dei discorsi in libertà, tra amici o a folcloristici raduni politici (ma le immagini della kermesse di Indipendenza Veneta sono assolutamente autentiche), il chiuso delle case dove il quotidiano nasconde tensioni o ambiguità (Rino che ruba i soldi dal portafogli della sorella, convinto di poterla ‘ricattare’ con un affetto ai limiti dell’incesto); tutto questo aiuta a delineare l’atmosfera in cui le due ragazze pensano di costruire il loro ricatto ma anche a capire come le persone coinvolte - Rino e poi il rabbioso padre di Luisa, Franco (Mirko Artuso) - possono diventare all’improvviso incontrollabili e pericolosi. Anche se a un certo momento l’affetto per l’incolpevole Bilal spingerà Luisa a ripensare al suo piano (scatenando la rabbia e la vendetta dell’amica che si sente tradita), il film non vuole assolvere nessuno. L’immoralità degli uomini, convinti di poter usare i soldi per permettersi tutto fa il paio con l’amoralità delle ragazze, disposte a usare i loro corpi e la loro sessualità senza nessuna remora. E alla fine il film non ha compassione nemmeno per la madre di Luisa, una specie di ‘madonna dolorosa’, schiacciata tra la rabbia del marito, l’indifferenza della figlia e il peso di un quotidiano stentato e senza speranza, che Lucia Mascino rende con misura e partecipazione commovente. Così come non ha una sbavatura tutto il cast, illuminato dalla prova delle due protagoniste entrambe esordienti. Certo, a volte il film sembra cercare un po’ troppo l’effetto ‘arty’, con i suoi commenti musicali in forma di cantata sacrale (che parlano di estati senza ombre, piazze senza pace e prati senza fiori) o con un montaggio che sembra compiaciuto della propria ellitticità, ma sono piccoli difetti che passano in secondo piano di fronte alla forza complessiva di questo viaggio antropologico dentro un mondo che sembra lontano ma che può prendere forma all’improvviso in ognuno di noi.
PPaolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 7 aprile 2014
Piccola patria – non lo perdete, è tra i migliori film dell’anno – ci porta lì, in un Nordest dai confini incerti e dai malumori strumentalmente fissi in cui si agitano i furori separatisti del Veneto insinuanti e diffusi più di quanto non dica l’attualità di questi giorni. (...)
Meschinità, gelosie, silenzi, chiacchiere e pettegolezzi cattivi, il gusto amaro di una rabbia sorda, crescono fino a diventare incontenibili. La ‘realtà’, certo, e le sue epifanie improvvise come il comizio di Gianluca Busato, teorico del movimento indipendentista veneto. O la festa country di vino e malinconia. E soprattutto i luoghi, protagonisti in sé come se nell’aria ferma di caldo e umidità quegli umori cattivi vi si condensassero prima che nel cuore. (...)
Rossetto, come il nostro cinema migliore, certe distinzioni (documentario/ finzione ecc.) le ha già abbandonate. Sa dove dirigere lo sguardo, e sa che la sorpresa deve essere reciproca, deve coinvolgere cioè lo spettatore quanto il regista o l’attore. È su queste traiettorie mai giudicanti che si avventura, in una sequenza narrativa frammentaria, quasi come un thriller, punteggiata con tocco lieve di interni e esterni, vita domestica, sesso, desideri, bugie; di immaginario - non si può non pensare a “Signori e Signore” di Germi - di paradossi che non diventano ‘genere’, commedia o quant’altro. La provincia, questa Piccola patria, e la sua universalità che non è solo sorrisi compiaciuti sul sagrato domenicale della chiesa. Rossetto vi estrae obliquamente un magma di ambiguità, perdita di Storia, crisi economica, spasmodica ricerca di un colpevole in cui si specchia il nostro tempo, inventando un suo grande cinema.
CCristina Piccino, Il Manifesto, 11 aprile 2014
Home Page
Calendario delle proiezioni