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Scheda del film (179 Kb)
Foxcatcher - Scheda del film

 

 

in collaborazione con:

 

CINEMA SOCIALE  S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna

PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 19 novembre 2015 – Scheda n. 7 (955)

 

 

 

 

 

Foxcatcher

 

 

 

Regia: Bennett Miller

 

Sceneggiatura: E. Max Frye, Dan Futterman. Fotografia: Greig Fraser.

Montaggio: Jay Cassidy, Stuart Levy, Conor O’Neill. Musica: Rob Simonsen.

 

Interpreti: Steve Carell (John du Pont), Channing Tatum (Mark Schultz),

Mark Ruffalo (David Schultz), Sienna Miller (Nancy Schultz),

Vanessa Redgrave (Jean du Pont), Anthony Michael Hall (Jack),

Guy Boyd (Henry Beck), Brett Rice (Fred Cole),

Jackson Frazer (Alexander Schultz).

 

Produzione: Annapurna Pictures. Distribuzione: BIM.

Durata: 134’. Origine: Usa, 2014.

 

 

Bennett Miller

 

 

Nato a New York nel 1966, Bennett Miller studia alla Mamaroneck High School, fa il manager e dirige i dvd della band The Fenwicks, fonda la compagnia teatrale del Bullstoi Theater Ensemble con il compianto Philip Seymour Hoffman, arriva al cinema con il documentario The Cruise (1998), che racconta la vita di una guida dei bus turistici newyorchesi. Viene chiamato a Hollywood dove gli offrono vari progetti. Sceglie di raccontare la biografia di Truman Capote. Il film, teso e forte, si chiama Truman Capote - A sangue freddo (2005), interpretato da Philip Seymour Hoffman. Nel 2009 dirige L’arte di vincere, film molto sottovalutato sul mondo del baseball e su ciò che non si vede dietro le quinte del mondo sportivo americano. Nel 2014 esce questo Foxcatcher che racconta la vera storia di Mark Schultz, vincitore della medaglia d’oro olimpica nella lotta libera, e il singolare rapporto che Schultz ebbe con il miliardario John du Pont. Il film ha ricevuto il premio per la miglior regia al Festival di Cannes.

Sentiamo Miller: «Nei miei film trasformo un fatto reale in finzione per permettere di risalire alla verità. Alcuni mesi dopo l’uscita di Truman Capote – A sangue freddo, ho ricevuto una lettera di Harper Lee. Sosteneva che il film fosse una dimostrazione che la finzione può essere un mezzo per arrivare alla verità. Sottolineava il fatto che una buona parte della trama fosse inventata, ma anche che ‘il film raccontava la verità su Truman’.

Ho cercato di fare la stessa cosa con Foxcatcher. Avevo sentito parlare per la prima volta della storia dell’eccentrico plurimiliardario John Eleuthère du Pont e dei due fratelli campioni di lotta libera Mark e Dave Schultz quando i miei produttori mi hanno mostrato un articolo di giornale sulla vicenda. Le circostanze mi sono sembrate comiche e assurde, ma le conseguenze erano terribili e reali. Le cose stranissime che sono avvenute in quella villa non assomigliavano a nulla che io avessi sperimentato in prima persona in vita mia, ma nonostante questo ho subito provato una sensazione di familiarità. C’era qualcosa in quella storia o forse sotto a quella storia che sentivo essere tutt’altro che strana. Anzi, l’esatto contrario...

Mi sono imbarcato in un percorso di ricerca e di documentazioni che si è protratto per diversi anni. Volevo scoprire gli aspetti sconosciuti della vicenda e per farlo ci voleva tempo. È una storia che nasconde delle verità scomode: tutte le persone con cui ho parlato mi hanno dato la sensazione di custodire un qualche aspetto segreto di quanto è accaduto...

Benché Dave fosse più grande di Mark solo di pochi mesi, i due non erano legati da un classico rapporto fraterno. I loro genitori si erano separati quando loro erano piccoli e Dave aveva assunto un ruolo paterno nei confronti di Mark, mentre venivano sballottati tra la casa del padre e quella della madre, dovendosi arrangiare per conto loro. Mark provava nei confronti del fratello un amore immenso, una grande riverenza e una dipendenza emotiva: aveva bisogno di lui per sentirsi appoggiato, come partner nella lotta e come allenatore, ma al tempo stesso era estremamente geloso del successo di Dave e il suo malessere interiore non fece che acuirsi con il passare degli anni. Mark conservò sempre il ruolo del fratello piccolo che non riesce a sfondare e che non sa camminare con le proprie gambe né cavarsela da solo...

Si nota che Dave è determinato e corretto e vuole bene al fratello, ma al tempo stesso si vede in modo chiaro anche la sua posizione: è il maschio alfa, il maschio dominante. Non un maschio alfa privo di attenzioni, di empatia o di amore, ma pur sempre un maschio alfa...».

 

 

La critica

 

 

«È come il wrestling»: nel gergo sbrigativo degli appassionati di sport, l’espressione rimanda ad una competizione falsa, stucchevole nella sua appariscenza a buon mercato. «È come il wrestling» è l’epiteto che rifili alla partita di calcio dove hai l’impressione che l’arbitro abbia aiutato i più forti oltre ogni decenza, una forma stenografica buona per i momenti in cui lo sport ci appare corrotto nelle fondamenta, nei suoi valori di base: agonismo, onestà, rispetto dell’avversario e delle regole. Eppure la parola wrestling, prima che il circo dello spettacolo vi piantasse le sue tende, faceva riferimento ad una disciplina olimpica nobile e antica: due lottatori su una pedana, ciascuno proteso nello sforzo di abbattere ed immobilizzare l’altro. Il fascino malinconico di Foxcatcher sta qui, nella dolorosa consapevolezza di qualcosa di puro che oggi abbiamo smarrito, che ha dovuto cedere il passo alla legge dell’istrionismo e della fascinazione spettacolare. Nel passaggio dalla lotta (olimpica) al wrestling (televisivo) è all’opera un processo di corruzione etica di cui il film di Miller prova a rintracciare l’origine, andando a riesumare una storia vera, lo strano rapporto fra un campione olimpico di lotta, Mark Schultz, e un miliardario americano appassionato di questo sport, John Du Pont.

In principio il protagonista, pur avendo già vinto un oro olimpico, conduce una vita austera, junk-food e allenamenti, almeno fino a quando nella sua vita irrompe improvvisamente il miliardario, che in forza della sua sconfinata ricchezza lo trasferisce nella propria tenuta e gli sovvenziona la preparazione atletica. Lungi dall’essere un demone corruttore, DuPont vede a sua volta nella lotta qualcosa di puro, capace di riportare l’America a quel connubio di combattività e onestà che pare avere perso per strada. E paradossalmente è proprio questo elemento a dare forza al film: nulla di mefistofelico nel personaggio del magnate, solo una sorta di sfibrata riluttanza a cambiare il corso delle cose, a opporsi alla dinamica del denaro e del potere, che sembra guastare le cose con sinistra e silenziosa inevitabilità, quasi a dispetto della volontà degli uomini, sopra le loro teste. La ricchezza, nella famiglia Du Pont, ha guastato la scena prima ancora che Schultz vi faccia la sua comparsa, dunque la storia non può che essere quella di una discesa agli inferi, che la regia di Miller registra con implacabile imperturbabilità, un campo lungo dopo l’altro, facendo implodere la tragedia tra le mille stanze della villa del magnate. Corroso dal denaro, lo sport si polverizza gradualmente, sino a quando l’antagonismo tra due uomini si risolve non in un combattimento leale ma con un colpo di arma da fuoco.

Messi in fila, Foxcatcher, Nebraska e Wolf of Wall Street formulano un trittico di agghiacciante efficacia sui guasti prodotti dalla ricchezza e dal denaro; quasi a dire che l’America non è stata ferita dal rumore assordante di un aereo che si schianta contro un grattacielo, ma dal frusciare invitante delle banconote che si accumulano l’una sull’altra.

LLeonardo Gandini, www.cineforum.it

 

Bennett Miller al suo terzo film si conferma uno dei registi più interessanti di Hollywood. Dopo l’originale rivisitazione della “mitologica” figura di Truman Capote e l’incursione nel mondo del baseball col sottovalutato L’arte di vincere, Miller ci regala uno straordinario viaggio tutto al maschile in una poco conosciuta pagina di recente storia americana, ma soprattutto un’ulteriore riflessione sullo stato di salute del “sogno americano”.

All’inizio del film troviamo Mark Schultz con la sua medaglia d’oro al collo che sostituisce il fratello alle conferenze nelle scuole americane dell’obbligo per pochi spiccioli. «Voglio parlarvi dell’America», esordisce davanti ai suoi piccoli uditori e, nella sequenza successiva, lo vediamo afferrare il suo hamburger in fila alla mensa per i poveri. Con due sole, magistrali inquadrature Miller ci racconta tutte le ambiguità di quel grande Paese e ci porta sino al suo più recondito recesso, al suo cuore nero, dove una medaglia d’oro olimpica è costretta a vivere senza dignità.

Il film ha ottenuto cinque nomination al Premio Oscar e tonnellate di premi e nomination in giro per il mondo ma, soprattutto, il premio per la miglior regia al festival di Cannes. La critica lo adora, anche quella italiana nonostante qualcuno sottolinei che il punto debole del film è proprio nella regia. In realtà Foxcatcher – Una storia americana è soprattutto un film di regia, dalla grande semplicità e con un controllo assoluto dell’immagine, anche perché gli scambi verbali sono autistici ed essenziali, fino alla rarefazione, nel fedele rispetto delle fragili psicologie dei tre protagonisti principali, i due fratelli Schultz e John du Pont. I rapporti tra loro e le altre figure di contorno del film, come quella della madre di John interpretata da Vanessa Redgrave, il continuo tentativo di trovare in alcune scene un difficile equilibrio sospese come sono tra farsa e dramma, tutto ciò viene elaborato e costruito con certosina attenzione da parte di Miller, studiando puntigliosamente inquadrature, posizione della camera, scelta del punto di vista, e intervenendo con estrema grazia nella direzione degli attori.

FFabrizio Liberti, Cineforum, n. 543, aprile 2015

 

 

 

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