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Giovedì 3 dicembre 2015 – Scheda n. 9 (957)
Boyhood
Regia e sceneggiatura: Richard Linklater
Fotografia: Lee Daniel, Shane F. Kelly. Montaggio: Sandra Adair.
Scenografia: Rodney Becker, Gay Studebaker.
Interpreti: Patricia Arquette (Olivia), Ethan Hawke (Mason sr),
Eller Coltrane (Mason), Lorelei Linklater (Samantha),
Marco Perella (il professor Bill Wellbrock), Evie Louise Thompson (Jill),
Brad Hawkins (Jim), Jenni Tooley (Annie),
Elijah Smith (Tommy), Steven Prince (Ted).
Produzione: IPC Productions/Detour Filmproduction. Distribuzione: Universal.
Durata: 165’. Origine: Usa, 2014.
Richard Linklater
Nato a Houston, Texas, nel 1960, Richard Linklater si è guadagnato un posto speciale tra i migliori registi, ancora giovani, del cinema statunitense. E questo posto se l’è guadagnato lavorando nel cinema indipendente, lontano dai grandi studi. Dopo aver abbandonato il college per andare a lavorare su una piattaforma petrolifera nel golfo del Messico, Linklater torna a Austin e fonda la Austin Film Society, con la quale produce il suo primo corto It’s impossibile to learn to plow by reading books (È impossibile imparare ad arare leggendo libri, 1987). Linklater impara il cinema da autodidatta e questo gli dà una originalità tutta sua, lontana dalla produzione hollywoodiana. Il primo lungometraggio è Slacker, girato con 23 mila dollari, nel 1991. La vita è sogno (1993) segue i teenager degli anni ’70. Il film che imprime una svolta nella sua carriera è Prima dell’alba (1995) con Ethan Hawke e Julie Delpy, due studenti che si incontrano casualmente su un treno che va a Vienna. Vengono quindi Suburbia (1996), Newton Boys (1998) e Waking Life (2001), una specie di film d’animazione ricalcata sulle immagini reali. Per continuare a far cinema Linklater fa un film di grosso successo commerciale, School of Rock (2003, visto al Cineforum) con Jack Black. Con i soldi guadagnati può girare il seguito di Prima dell’alba che si chiama Prima del tramonto, storia d’amore stavolta ambientata a Parigi (2004). A Scanner Darkly (2006) è uno strano esperimento visivo e fantascientifico sugli effetti della droga, tratto da un racconto di Philip K. Dick, mentre Fast Food Nation (2007) è un durissimo attacco alle multinazionali del cibo spazzatura. Nel 2013, Linklater presenta l’ultimo capitolo della trilogia romantica iniziata con Prima dell’alba e con Prima del tramonto: il film si chiama Before Midnight. Il film di stasera, Boyhood, è geniale: è stato girato tra il 2002 e il 2013, seguendo per dodici anni la vita vera di una famiglia e la crescita di un adolescente.
Sentiamo Linklater: «Il film racconta dieci anni di vita di Mason, a partire da quando era un bambino di 6 anni, percorrendone le vicende familiari fatte di controversie, matrimoni vacillanti e nuove nozze, cambi di scuola, i primi amori, le prime delusioni sentimentali, le gioie e le paure, il tutto tra stupore e meraviglia. I risultati infatti sono imprevedibili: di come una fase della crescita si lega a quella successiva, dando luogo a un’esperienza profondamente personale basata sugli eventi che ci plasmano, e sulla natura mutevole delle nostre vite...
In tutti i film si gioca con il tempo, si cerca di cogliere particolari di vita quotidiana, e focalizzarli per dar loro una nuova prospettiva; o di immergersi nelle mitiche dimensioni oniriche, dove il tempo viene come immesso in un frullatore. Perciò, quasi tutti i film sulla fiction sono, per esigenze pratiche, realizzati nel corso di un periodo di tempo che dura settimane o mesi. Ma poteva mai un film contemporaneo essere realizzato per un periodo di tempo di gran lunga maggiore, che ricoprisse il tempo necessario per assistere alla crescita di un ragazzino, anno dopo anno, fino a diventare adulto? Questa è la domanda che mi sono posto quando ho cominciato a lavorare su Boyhood, 12 anni fa. C’erano un mucchio di motivazioni per cui tale impresa non poteva essere presa in considerazione: era creativamente sbalorditiva; finanziariamente impossibile; nessun cast o troupe, tantomeno una compagnia cinematografica, avrebbe potuto impegnarsi a lungo, per un tempo indeterminato. Tutto andava contro i meccanismi dell’industria cinematografica moderna. È stato come fare un grande atto di fede verso il futuro. La maggior parte degli sforzi artistici devono essere mantenuti sotto controllo, mentre in questo caso alcuni elementi erano fuori dal controllo di chiunque. Inevitabilmente ci sarebbero stati cambiamenti fisici ed emotivi, e questo è stato considerato. In un certo senso, il film è il frutto di una collaborazione con il tempo; e il tempo stesso a sua volta può diventare un ottimo collaboratore, sebbene non sempre prevedibile».
La critica
Tre, quattro giorni di riprese una volta l’anno. Quasi a tempo perso, un progetto speciale in mezzo ad altri progetti e ad altre pellicole girate con regolarità. Utilizzando gli stessi attori e inserendoli in scene di vita quotidiana. Questo per dodici anni. Una sorta di ritrovo tra amici con una chiara prospettiva futura. Richard Linklater raduna il suo gruppo, concentra l’attenzione su un nucleo familiare, in particolare su Mason jr, il figlio di una coppia sposatasi troppo giovane e presto separatasi, inizia a seguirlo da quando ha sei anni e lo accompagna fino al college, quando ormai di anni ne ha diciotto. La particolarità sta nel fatto che Ellar Coltrane, che interpreta Mason, si trasforma durante le riprese. Senza trucco, senza inganno. Cresce: da bambino diventa adolescente, i primi segni di acne cominciano a punteggiare le sue guance, si asciuga e progressivamente si eleva in altezza, fino a raggiungere la soglia dell’età adulta. (...)
In tutta evidenza, come riconosciuto da ogni critica che si sia accostata al film (per cui questa arriva buon’ultima), Linklater lavora sull’espressione diacronica del tempo.(...)
In Boyhood, Linklater sposta notevolmente oltre l’asticella: crea la fiction tramite una realtà effettiva che possiede il soffio della vita perché plasmata sulle spire di un eterno divenire. Due sequenze, più di altre, chiariscono l’operazione di Linklater. Siamo verso la fine, Mason jr ormai diciottenne sta per trasferirsi nel campus dell’università. Prepara i suoi effetti personali e lo scarno bagaglio, scambia poche frasi con la madre facendo la spola tra la sua stanza e il salone, in cui la madre è seduta. Improvvisamente la madre scoppia in lacrime, con grande stupore del ragazzo. La madre comincia a snocciolare le varie fasi della sua vita, fin da quando il figlio era piccolo. La donna finisce l’elenco evocando drammaticamente il suo funerale come unica fase ancora da ultimare. Il figlio chiede sarcasticamente se non stia drasticamente anticipando il futuro di una quarantina d’anni. La madre, sguardo perso davanti a sé, dice amaramente: «Credevo di avere più tempo». Subito dopo, appena giunto al campus, Mason jr è invitato dal suo compagno di stanza a un’escursione con due amiche. Nella luce del crepuscolo, al termine di una camminata piacevole, Mason è seduto in un punto panoramico con una delle due ragazze. Questa, approfittando del momento, afferma: «Sai quando qualcuno ti dice “cogli l’attimo”? Non lo so, io invece credo che succeda il contrario, nel senso che è l’attimo a cogliere noi». Mason, dopo aver riflettuto brevemente, risponde che l’attimo risiede in quel preciso istante, attualizzato in un eterno presente. I due ragazzi si guardano più volte, ma i loro occhi s’incrociano solo per un breve istante imbarazzato. Nero: fine del film.
Sono i due poli attorno ai quali ruota l’intero progetto di Linklater, il punto d’incontro tra la vacua illusione d’eternità e l’estensione ottimistica del presente, lo sconforto dell’età adulta e l’esaltazione vitalistica della giovinezza. È in questo che risiede il senso del tempo del film, in questo nastro di Möbius in cui fanciullezza e maturità si rincorrono, si intersecano, si succedono in una sconfinata continua evoluzione, in un infinito che è il significato stesso della vita. Una vita, più vite che si attualizzano nel cinema ma che della realtà, del suo respiro, della sua mutazione progressiva, delle sue conquiste anno dopo anno sono nutrite costantemente. Se il cinema, com’è stato più volte teorizzato, è un apparato che produce tempo per giungere a realizzare la pienezza del suo significato, Boyhood è un esempio di temporalità che oltrepassa la semplice convenzione narrativa per affondare le sue lunghe radici nella concretezza di corpi che si trasformano, invecchiano, modificano progressivamente e sensibilmente la loro natura organica. Un passaggio che il film evidenzia con la naturalità di una diversa acconciatura, con la comparsa delle prime tracce di baffi, attraverso la grana lucida di un’epidermide diventata improvvisamente grassa, con il timbro di una voce fattasi più roca. Non si tratta ovviamente di un percorso di formazione, quanto di trasformazione. Mason (ma anche Samantha, la sorella, interpretata dalla figlia di Linklater, Lorelei) muta evidentemente nel corpo, mentre spirito e psicologia possono essere solo supposti. (...)
Il flusso di Boyhood è esistenziale, cancella qualunque snodo narrativo, priva lo spettatore di molte delle conquiste del personaggio e ne presenta altre in forma ellittica con estrema spontaneità (la fine del rapporto tra la madre e il terzo marito è delineato con una semplice cesura: l’assenza alla festa di diploma di Mason). La spontaneità di uno tra i tanti accadimenti possibili. Intorno ci sono anche la Storia (la guerra in Iraq, l’elezione di Obama, la pubblicazione di Harry Potter, eccetera) e la testimonianza di un gusto musicale che si pone in funzione di commento e di espansione metaforica delle situazioni.
Boyhood trae la sua forza dalla persistenza del racconto, dalla genuinità degli avvenimenti, dalla continuità dell’osservazione, il suo regno è la condensazione minimalista di un frammento fondamentale di vita, la sua consistenza sta tutta nel lungo accumulo di elementi quotidiani.
GGiampiero Frasca, Cineforum, n. 540, dicembre 2014.
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