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Giovedì 10 dicembre 2015 – Scheda n. 10 (958)
Il sale della terra
Titolo originale: Salt of the Earth
Regia: Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado
Sceneggiatura: Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado, David Rosier,
Camille Delafon.
Fotografia: Hugo Barbier, Juliano Ribeiro Salgado.
Montaggio: Maxine Goedicke, Rob Myers.
Musica: Laurent Petitgirard.
Con: Sebastião Salgado, Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado,
Lélia Wanick Salgado, Hugo Barbier, Jacques Barthélémy.
Produzione: Decia Films. Distribuzione: Officine Ubu.
Durata: 110’. Origine: Francia/Brasile/Italia, 2014.
Wim Wenders, Sebastião Salgado
e Juliano Ribeiro Salgado
In tre per un film. Sono il grande fotografo brasiliano Sebastião Salgado, suo figlio Juliano Ribeiro Salgado, che fa il regista cinematografico, e il ben conosciuto Wim Wenders, regista e fotografo pure lui. Si conoscono, si ammirano, si frequentano, ne viene fuori un gran film sulla fotografia, sul mondo, sui temi e i progetti di Salgado, le vittime dei conflitti, il mondo del lavoro, la natura, il suo impegno ecologista che lo ha portato a trasformare la fazenda di famiglia in un grande progetto di riforestazione.
Sebastião Salgado (Aimorés, Brasile, 1944) è considerato uno dei più grandi fotografi contemporanei, se non il più grande. Studia economia e dopo un viaggio in Africa decide di fare il fotografo. Nel 1973 realizza un reportage sulla siccità del Sahel, poi uno sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati in Europa. Nel 1974 documenta la rivoluzione in Portogallo e la guerra coloniale in Angola e in Mozambico. Nel 1979 entra a far parte della celebre cooperativa di fotografi Magnum. Nel 1994 lascia la Magnum e crea con Lelia Wanick Salgado la Amazonas Images. Il lavoro di sei anni sulla vita nelle campagne dell’America Latina è contenuto nel libro Other Americas. Altri sei anni dura l’indagine sulle condizioni dei lavoratori in giro per il mondo: il risultato sono le 400 pagine di La mano dell’uomo (1993). Dal 1993 al 1999 Salgado lavora sul tema delle migrazioni umane: ne dà conto nei volumi In Cammino e Ritratti di bambini in cammino. Nel 2013 dà il suo sostegno alla campagna di Survival International per salvare gli Awá del Brasile, la tribù più minacciata del mondo. Una delle sue raccolte più famose è ambientata nella miniera d’oro della Serra Pelada, in Brasile, dove migliaia di persone sono ritratte mentre si arrampicano fuori da un’enorme cava su primitive scale a pioli portando sacchi di fango nella speranza che contengano dell’oro.
Wim Wenders, nato in Germania, a Düsseldorf, nel 1945, è figlio di un medico, studia medicina ma presto lascia gli studi e si reca a Parigi per studiare cinema. Torna in Germania, fa il critico cinematografico, gira dei corti, il primo lungo è Summer in the city (1970), girato in 5 giorni, seguono poi La lettera scarlatta (1972) e soprattutto una coppia di film che lo rende famoso, Alice nelle città (1973) e Nel corso del tempo (1975), visti al Cineforum tanti anni fa. Altri suoi titoli: L’amico americano (1977), Nick’s Movie - Lampi sull’acqua (1980) omaggio all’amico regista Nicholas Ray, Lo stato delle cose (1982), Hammett: Indagine a Chinatown (1983), Paris, Texas (1984), Il cielo sopra Berlino (1987), Così lontano, così vicino! (1993), Buena Vista Social Club (1998), sulla musica cubana, The Million Dollar Hotel (2000), Non bussare alla mia porta (2005), Palermo Shooting e il bellissimo Pina, sulla figura della coreografa Pina Bausch. Dopo questo Il sale della terra, Wenders ha realizzato un altro film, Ritorno alla vita (Every Thing Will Be Fine, 2015).
Sentiamo Wenders: «Conosco il lavoro di Sebastião Salgado da circa 25 anni. Molto tempo fa avevo comprato due stampe che avevano trovato grande eco in me e mi avevano commosso. Le avevo incorniciate e da allora sono appese sopra la mia scrivania. Ispirato da quelle fotografie, poco tempo dopo ero andato a vedere una mostra che si chiamava Au travail (Al lavoro). Da allora, provo un’ammirazione incondizionata per l’opera di Sebastião, malgrado io abbia conosciuto di persona l’artista solo 5 o 6 anni fa...
Ci siamo incontrati nel suo ufficio a Parigi. Mi ha fatto visitare il suo studio e ho scoperto Genesi. Si trattava di una nuova entusiasmante avventura nella sua opera e come sempre, di un progetto di ampio respiro. Sono rimasto affascinato dalla sua dedizione al lavoro e dalla sua determinazione. Poi ci siamo rivisti, abbiamo scoperto di essere due tifosi di calcio e abbiamo iniziato a parlare in generale della fotografia. Un giorno, mi ha chiesto se mi avrebbe fatto piacere accompagnare lui e suo figlio Juliano in un viaggio che avrebbero intrapreso insieme e per il quale ritenevano di aver bisogno di un altro sguardo, di un punto di vista esterno...
Durante i primi colloqui, io venivo inquadrato insieme a lui. Ma più approfondivamo le nostre conversazioni, più avevo la sensazione di dover «scomparire» e lasciare tutto lo spazio a Sebastião e soprattutto, alle fotografie. L’opera doveva parlare da sola! Mi è quindi venuta l’idea di un dispositivo di messa in scena, in una sorta di «camera oscura»: Sebastião era di fronte a uno schermo sul quale guardava le sue fotografie pur rispondendo alle mie domande in merito ai soggetti. La videocamera si trovava quindi dietro a questo schermo e filmava, per così dire, attraverso le sue fotografie, grazie a uno specchio semi-trasparente, cosi lui poteva guardare sia i suoi scatti sia lo spettatore. Mi sono detto che era il contesto più intimo per permettere al pubblico di ascoltare le sue parole e di scoprire la sua opera».
La critica
Il sale della terra nasce dall’incontro di due desideri di conoscenza, diversi ma convergenti: da una parte c’è Juliano Ribeiro Salgado che, diventato adulto, vuole capire finalmente chi sia quel padre così forte e affascinante ma spesso distante, completamente preso dalla fotografia; e dall’altra c’è Wim Wenders, innamorato della “scrittura di luce” attraverso la quale Sebastião Salgado ha raccontato in più di quarant’anni la bellezza e la tragedia dell’essere uomini. Perché il “sale della terra” siamo proprio noi, gli esseri umani. Wenders realizza un documentario, presentato quest’anno al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard, che è innanzitutto un ritratto d’artista: ecco quindi la parte biografica, piuttosto corposa, grazie alla quale veniamo a conoscenza del contesto familiare e professionale che ha consentito alla passione di Salgado per la fotografia di svilupparsi e crescere; ecco la spiegazione dei motivi che l’hanno spinto a viaggiare, sempre attratto dai luoghi più pericolosi del globo (per Salgado i pozzi di petrolio in fiamme del Kuwait post guerra del Golfo erano uno “spettacolo” irresistibile); ed ecco, naturalmente, le celebri fotografie, frutto di una vita spesa come esploratore e testimone.
A Juliano Ribeiro Salgado, coinvolto da Wenders in qualità di assistente alla regia, dobbiamo invece gran parte del materiale che ci mostra il padre nella pratica del lavoro. Juliano è un filmmaker (sta preparando il suo primo lungometraggio di finzione) e, una volta cresciuto, ha sentito l’esigenza di partecipare ai viaggi di Sebastião accompagnandolo ai quattro angoli del pianeta, dalla Papua Nuova Guinea all’Artico. È Juliano il primo a voler trasportare in un film l’esistenza del padre e così renderla nota a più gente possibile. Temendo però di essere troppo coinvolto, cerca in Wenders qualcuno in grado di rendere giustizia alla figura esemplare di Sebastião mantenendo il giusto grado di autonomia creativa.
Come autore, Wenders sceglie di fare un passo indietro. Anche se a un certo punto la sua voce fuori campo osserva che girare un film su un fotografo è particolarmente interessante perché produce un incontro (o scontro) tra due sguardi artistici, quello del regista e quello del soggetto, l’occhio attraverso il quale guardiamo la realtà resta fino alla fine quello di Salgado. Anche in senso fisico, grazie a una bella idea di messa in scena. Una buona parte di Il sale della terra vede infatti Salgado seduto di fronte alle proprie opere: il fotografo le fissa, ci racconta quando, dove e perché è nato quello scatto, e guida la nostra attenzione sui dettagli più rilevanti. Durante queste sequenze Wenders alterna, e a tratti sfuma, le fotografie con il volto dello stesso Salgado, ripreso attraverso una superficie semitrasparente: così, per dirla con le parole del regista, Salgado sembra «guardare contemporaneamente le proprie fotografie e gli spettatori in sala». Il film non affronta apertamente la critica che più volte è stata mossa al bianco e nero splendido della produzione fotografica di Salgado, colpevole, secondo i detrattori, di estetizzare il dolore umano. Susan Sontag, ad esempio, riteneva lo stile di Salgado troppo “epico”, con l’effetto di far apparire la sofferenza come qualcosa che va al di là del raggio di azione umano, che può essere contemplata ma sulla quale non è possibile agire. La risposta, in modo implicito, la troviamo però nelle parole dello stesso artista: lungo le strade piene di morti del Rwanda, nei campi profughi, nelle zone più povere del Brasile dove la morte è una minaccia quotidiana, Salgado non pone l’accento sulla miseria, né sulle cause che la generano, ma solo sulla dignità e la bellezza che uomini, donne e bambini sono in grado di conservare anche nelle situazioni più disperate. (...)
Sebastião e Léila iniziano a piantare nuovi alberi nella vecchia tenuta in rovina della famiglia Salgado: ci vorranno anni ma la riuscita è talmente buona che oggi quella foresta, completamente ricresciuta, è diventata una riserva naturale chiamata Instituto Terra. La crescita lenta delle piante e il pensiero che da quei germogli nasceranno alberi in grado di vivere per centinaia di anni, donano a Salgado una rinnovata prospettiva sulla Storia: i crimini dell’uomo possono essere riscattati dalla natura, dalle qualità eterne del nostro pianeta che, malgrado tutto, ci precede e continuerà a esistere dopo di noi.
VValentina Alfonsi, Cineforum, n. 540, dicembre 2014
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