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Giovedì 21 aprile 2016 – Scheda n. 27 (975)
Pride
Regia: Matthew Warchus
Sceneggiatura: Stephen Beresford. Fotografia: Tat Radcliffe.
Montaggio: Melanie Oliver. Musica: Christopher Nightingale.
Scenografia: Simon Bowles. Costumi: Charlotte Walter.
Interpreti: Bill Nighy (Cliff), Imelda Staunton (Hefina),
Dominic West (Jonathan Blake), Paddy Considine (Dai),
George MacKay (Joe), Joseph Gilgun (Mike),
Andrew Scott (Gethin), Ben Schnetzer (Mark),
Chris Overton (Reggie), Faye Marsay (Steph).
Produzione: Calamity Films, Pathé. Distribuzione: Teodora.
Durata: 120’. Origine: Gran Bretagna, 2014.
Matthew Warcus
Nato nel 1966 a Rochester, in Gran Bretagna, Matthew Warchus viene dal teatro. È stato il più giovane regista di sempre a debuttare con la Royal Shakespeare Company. Ha lavorato in teatro con le maggiori compagnie del Regno Unito, ha diretto spettacoli anche a Broadway. Il suo esordio nel cinema è del 1999 con Inganni pericolosi da una pièce di Sam Shepard. Pride è il suo secondo film, presentato a Cannes come film di chiusura della Quinzaine des Réalisateurs.
Sentiamo Warchus: «Quello di Pride era un copione a cui era impossibile dire no. Mi ha fatto ridere, mi ha sorpreso e divertito di continuo, e alla fine mi ha commosso. Combattere per il diritto di lavorare sotto terra in condizioni spaventose sembra difficile oggi da capire, ma nel 1984 i minatori sapevano che quello era tutto ciò che avevano, per la loro generazione e per quelle a venire. Ma il loro sciopero, ora lo sappiamo, non era solo una questione economica, bensì uno scontro chiave in una guerra ideologica più ampia: il bene comune contro l’interesse personale, la società contro l’individuo, il socialismo contro il capitalismo. Pochi anni dopo lo sciopero, Margaret Thatcher disse che non esisteva una cosa come la società, ma esistevano semplicemente gli individui e le famiglie. I protagonisti di Pride credono fermamente nel contrario, credono nella forza dell’unione. E non si tratta solo dell’unione tra due diverse comunità e tra due generazioni, ma di una solidarietà universale, in nome di un orgoglio che è diritto di tutti...
Pride trascina il pubblico verso concetti più ampi di generosità e comprensione reciproca. Mentre montavo il film ho capito che Pride, nel descrivere lo sviluppo di una relazione tra due opposti che in qualche modo oltrepassano gli ostacoli che li dividono, si stava rivelando una classica commedia romantica. Solo che non si trattava di una relazione tra due persone, bensì tra due gruppi, tra due comunità guidate non dall’amore romantico ma dalla solidarietà...
La scena del ballo di Dominic West rappresenta un momento chiave del film poiché fino ad allora, da parte della comunità dei minatori, c’è una certa resistenza verso il movimento LGSM e questi stessi cercano di mantenere un profilo basso. Un profilo basso, però, non è nello stile di Jonathan Blake, il personaggio interpretato da Dominic, il cui atteggiamento è: “Sono quello che sono, faranno bene ad accettarlo”. Così sceglie una canzone, Shame Shame Shame, e inizia a ballare, rompendo il ghiaccio...
Abbiamo girato in Galles nelle location reali dove tutto è successo davvero. Non avremmo potuto trovare un posto migliore, con la stessa forza visiva. Guardare le foto d’epoca con i veri protagonisti affisse sui muri della Welfare Hall, la sede dei minatori, è stato commovente e ha enfatizzato il senso di responsabilità che avevamo di essere onesti nel raccontare questa storia, rendendo onore a ciò che è accaduto in quei luoghi. Oggi le miniere non esistono più, ma il senso di quel passato e il modo in cui le cose sono profondamente cambiate hanno lasciato un’impronta forte al film. Gli abitanti del villaggio sono venuti sul set a dirci che ricordavano il movimento LGSM e dai loro sguardi si capiva l’orgoglio di essere stati parte di una storia così importante».
La critica
È un film costruito sugli ossimori, Pride, opera seconda del britannico Matthew Warchus. A partire dal soggetto, infatti, il regista accosta due categorie di persone apparentemente in antitesi, che non paiono avere interessi, modi di vivere e obiettivi in comune: i minatori e gli attivisti gay.
Siamo a Londra nel 1984, quando un ragazzo omosessuale, Mark Ashton (il giovane Ben Schnetzer, già visto in Storia di una ladra di libri di Brian Percival), decide di raccogliere fondi a sostegno dello sciopero dei minatori, stanchi delle scelte del governo di Margaret Thatcher, che li penalizza mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro con lo smantellamento di parecchi siti estrattivi. È una vicinanza che origina dall’empatia verso chi vive problemi simili, anche se su piani diversi rispetto a quelli di cui soffrono gay e lesbiche inglesi, che si sentono vittime di un potere che non li riconosce e li osteggia, e che potrebbero così trovare nei minatori un nuovo gruppo con cui solidarizzare. In sostegno dei lavoratori delle miniere, Mark fonderà il gruppo LGSM (“Lesbians and Gay Support the Miners”), ma i loro “nuovi amici”, imbarazzati dall’ipotesi di una collaborazione tanto sorprendente quanto anticonformista, finiscono per respingere qualsiasi tentativo di contatto. Gli attivisti, guidati dall’entusiasta Mark, raggiungono allora un paesino del Galles per conoscere in prima persona i minatori locali. Sarà solo la prima tappa di un percorso che porterà le due categorie a fraternizzare e a darsi man forte a vicenda.
Non ebbe il lieto fine sperato la lotta dei minatori, ma un anno dopo questi marciarono in prima fila al Gay Pride per “restituire” pubblicamente il sostegno ricevuto e sigillare il legame tra i due gruppi: straordinaria e inedita fu la vicinanza tra i lavoratori e le persone in lotta per i loro diritti in quell’evento che ha davvero del miracoloso.
La natura ossimorica della narrazione si riflette anche in diverse altre caratteristiche della pellicola: quella che infatti appare come una storia inventata e perfetta per fare incassi ai botteghini natalizi, è invece una vicenda ispirata alla realtà. Una “storia vera” ambientata in piena era Thatcher, che il regista ha deciso di romanzare soltanto in minima parte. Inoltre, diversamente da quanto sarebbe stato prevedibile in termini di scelta di “genere”, il film, che si presenta come un’opera di denuncia contro i paraocchi del sistema politico dell’epoca, ha in realtà una veste da commedia leggera, capace di rendere godibile e di discreto intrattenimento la storia da cui trae origine.
Esiste, infine, un ulteriore elemento di contrasto da segnalare: nonostante la ricostruzione d’epoca sia credibile, la confezione è estremamente attuale e sembra uscita da un prodotto audiovisivo (videoclip o puntata di una serie televisiva compresi) degli anni in cui stiamo vivendo. Forte di una messinscena accattivante e dotata di buon ritmo, Pride è un’operazione capace di coinvolgere e di far riflettere allo stesso tempo, di emozionare e di divertire, rispolverando una (piccola?) pagina di Storia che in troppi avevano dimenticato.
Non si perde molto in chiacchiere la sceneggiatura firmata da Stephen Beresford, che velocizza al massimo la costruzione iniziale della vicenda per catapultarsi immediatamente nel centro dell’azione e nei dialoghi tra i protagonisti. L’andamento drammaturgico è piuttosto semplice e scontato, non ci sono grandi colpi di scena o svolte inaspettate, ed è questo sicuramente uno dei piccoli limiti di una pellicola, comunque, non impeccabile. Se i singoli personaggi sono scritti in maniera un po’ didascalica (ne è un esempio il ragazzo che fa coming out davanti ai propri genitori, non a caso una delle poche presenze immaginarie, inventata dal regista per offrire allo spettatore un punto di vista con il quale identificarsi), quello che più conta è il colorato disegno d’insieme, in cui le tante figure in scena sono i numerosi tasselli di un mosaico variopinto ed efficace. (...)
Impossibile non citare l’eccezionale colonna sonora che attinge a piene mani dallo scenario queer britannico degli esagerati anni Ottanta. Dagli Smiths capitanati dall’ambiguo Morrisey ai Culture Club dell’esuberante Boy George, dai Wham! dell’icona gay George Michael agli oscuri Joy Division dello sfortunato Ian Curtis, non legati, questi ultimi, all’immaginario arcobaleno, ma cantori del disagio giovanile di inizio decennio. La vivace musicalità di cui è intriso il film, diretto non a caso da un regista di musical, si evince anche dai numerosi momenti di gioiose danze, che vedono i due gruppi protagonisti unirsi e solidarizzare in nome di una democratica allegria che appiana le differenze e allontana il triste spettro thatcheriano. Il culmine è nel resoconto dettagliato del concerto di beneficenza che si tenne realmente a Camden Town, chiamato ironicamente “Pits and Perverts”, in cui si esibì il gruppo electro-pop Bronsky Beat, rappresentante d’eccezione della scena gay.
Minatori e attivisti omosessuali si ritrovano così uniti dalla comune lotta contro l’ultraconservatrice Lady di ferro; e mentre gli uni devono fare i conti con lo spettro della disoccupazione, gli altri si ritrovano minacciati dalle prime avvisaglie della “peste” che avrebbe decimato la comunità gay e che terrorizza i poco informati cittadini gallesi: l’aids. Ma la crisi economica e la crisi di certezze, per quanto presenti, vengono relegate in secondo piano, sconfitte a colpi di musica e da una solidarietà reciproca, non priva di qualche ingenuità (la rapidità con cui i provinciali gallesi accettano l’intervento dei giovani londinesi è forse eccessiva), eppure al contempo genuina e sincera. Il denominatore comune è l’abitudine alla fatica: fisica in un caso, psicologica nell’altro; la difficoltà di vivere e la voglia, incontenibile, di superare gli ostacoli e continuare a testa alta. Un messaggio di speranza apparentemente inverosimile e disneyano, ma profondamente radicato in quella realtà che spesso sorprende più della fantasia; una pellicola che, seppur di natalizio abbia apparentemente poco, concentra in realtà molti dei valori profondamente umani spesso forzosamente ricercati dai prodotti stagionali.
AAndrea Chimento, Cineforum, n. 541, gennaio - febbraio 2015
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