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PIEMONTE AL CINEMA – IL CINEMA DIFFUSO
Promosso da Regione Piemonte, AIACE, AGIS

 

Giovedì 10 novembre 2016 – Scheda n. 5 (980)

 

 

 

 

La grande scommessa

 

 

 

 

Titolo originale: The Big Short

 

Regia: Adam McKay

 

Sceneggiatura: Charles Randolph, Adam McKay,

dal romanzo “The Big Short - Il grande scoperto” di Michael Lewis.

Fotografia: Barry Akroyd. Montaggio: Hank Corvin. Musica: Nicholas Britell.

 

Interpreti: Christian Bale (Michael Burry), Steve Carell (Mark Baum),

Ryan Gosling (Jared Vennett), Brad Pitt (Ben Rickert),

Melissa Leo (Georgia Hale), Hamish Linklater (Porter Collins),

John Magaro (Charlie Geller), Marisa Tomei (Cynthia Baum).

 

Produzione: Plan B Entertainment, Regency Enterprises.

Distribuzione: Universal. Durata: 100’. Origine: Usa, 2016.

 

 

 

Adam McKay

 

 

Nato a Filadelfia nel 1968, Adam McKay fa l’attore, il regista, lo sceneggiatore, il produttore, in compagnia del suo amico e sodale, il comico Will Farrell. McKay fa uso di un umorismo anche grossolano, sarcastico e demenziale, che gli viene dalla sua gavetta nello show tv Saturday Night Live. Lasciata la tv, è passato al cinema con Farrell con Anchorman (2004) seguito da Anchorman – La storia di Ron Burgundy (2004) e, tra gli altri, da Fratellastri a 40 anni (2008), I poliziotti di riserva (2010), Anchorman 2 - Fotti la notizia (2013), fino a questo La grande scommessa, il cui titolo originale è The Big Short, in termini borsistici: Il grande scoperto, cioè vendita allo scoperto, senza avere le azioni in mano, giocando sul futuro ribasso dei titoli...

Sentiamo McKay: «Qualche anno fa, quando ho letto The Big Short – Il grande scoperto, il libro di Michael Lewis, sono rimasto affascinato da questa farsa decisamente fuori dal comune, con una miscela di commedia e tragedia che getta uno sguardo acuto sulle circostanze che hanno portato alla crisi economica globale. Ho cominciato a leggere il libro verso le dieci e mezza di sera e ho pensato ‘mi limiterò ad una quarantina di pagine’. Sono andato avanti tutta la notte e l’ho finito alle sei del mattino. È essenzialmente una storia sul come fare soldi mentre crolla il sistema bancario, è sulla corruzione e sulla complicità...

Nel libro e nel film ci si concentra sugli outsider che sono andati contro le regole della finanza, contro i regolatori governativi e gli esperti dei media, puntando tutto quello che avevano sul crollo senza precedenti del mercato immobiliare. Erano tipi stravaganti ai margini del mondo della finanza: avevano intuito quanto fosse corrotto il sistema. Hanno scommesso contro le banche e hanno fatto i soldi mentre tutti perdevano...

Spero che il film accompagni il pubblico in un viaggio esilarante e chiarificatore nell’incredibile mondo delle losche operazioni finanziarie. Se il film è riuscito come volevamo, La Grande Scommessa dovrebbe essere una storia divertente e di denuncia allo stesso tempo».

 

 

La critica

 

 

Il film buono sulla crisi finanziaria mondiale oggi esiste, e si chiama The Big Short, letteralmente La grande vendita allo scoperto, tradotto da Universal Italia nel più promettente La grande scommessa. (...)

È un grande film per tre motivi: quel che racconta, come lo racconta e, osiamo, perché lo racconta. Quali sono state le radici del collasso del mercato globale nel 2008? Lo vediamo attraverso gli occhi (undici) di sei addetti ai lavori che ne fiutarono le avvisaglie e agirono di conseguenza, arricchendosi parecchio. L’apripista è Michael Burry  (Christian Bale, super), un neurologo di San José divenuto stimato gestore di fondi: lo direste fuori di testa, è inconfutabilmente sociopatico, con un occhio di vetro, i piedi scalzi in ufficio e la batteria heavy metal da pestare. L’apparenza inganna, un occhio vede meglio di due, e Burry scopre l’inganno diffuso: analizza migliaia di prestiti individuali legati ad obbligazioni di mutui ad alto rischio, ne profetizza il default di lì a qualche anno e... scommette contro il mercato immobiliare. La sua arma è il credit default swap (derivato di copertura), ma impugnarla per la bellezza di un miliardo di dollari non farà felici i proprietari e gli investitori del fondo. A ruota si muovono pure il banchiere fighetto di Deutsche Bank Jared Vennett (Ryan Gosling, perfetto), che finirà per convincere a investire nei credit default swaps un manager di prodotti finanziari ad alto rischio in orbita Morgan Stanley, l’irascibile, abile e cazzuto Mark Baum (Steve Carell: la sua interpretazione in Foxcatcher non fu un caso, che attore!): attorniato da giovani e valenti collaboratori, Mark toccherà con mano, nel mercato della Florida, la follia criminale dei broker di mutui immobiliari non standardizzati, che ottengono prestiti per i loro clienti, quali spogliarelliste, senza garanzie. Infine, gli ultimi tre cavalieri di questa apocalisse finanziaria: dal Colorado i giovani Charles Geller (John Magaro) e James Shipley (Finn Wittrock), gestori di un piccolo fondo, e il loro passepartout Ben Rickert (Brad Pitt), già squalo di Wall Street e ora guru New Age. Sono loro i nostri eroi, ma - è una delle grandezze del film - McKay non lavora sulla immedesimazione, nei fatti impossibile, dello spettatore e nemmeno sull’empatia, che spetta al solo Baum/Carell.

Veniamo, appunto, a come The Big Short racconta queste vicende: Vennett /Gosling a far da narratore e guardarci in camera, intromissioni di star quali Margot Robbie e Selena Gomez che provano a spiegarci operazioni e termini finanziari a mo’ di tutorial, macchina da presa in costante e spesso frenetico movimento, riempitivi di found footage (la tecnica di presentare un film come una serie di filmati ritrovati e testimonianze) per abbassare la tensione narrativa e, in primis, cognitiva, tutto concorre a una narrazione iperrealistica, quasi extraterrestre, che si attaglia perfettamente all’universo per noi alieno e incomprensibile della finanza. Vi girerà la testa, e potrebbe girarvi qualcos’altro, ma questo è il - migliore - cinema americano: indagare, informare, denunciare (le responsabilità degli organi di controllo governativi furono enormi) e, sperabilmente, far capire. Costi quel che costi, perché non accada più. Il cinema italiano un qualcosina su Banca Etruria vuole provare a farlo?

FFederico Pontiggia, Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2016

 

«The run on the bank is more exciting than an advancing army!», la corsa alla banca è più eccitante dell’avanzata di un esercito: così nel settembre 1932 la rivista “Photoplay” promuoveva il nuovo film American Madness (La follia della metropoli), nel quale Frank Capra raccontava la storia di un banchiere che, di fronte al panico dei suoi risparmiatori – che appunto prendono d’assalto la banca – evita il disastro grazie alla buona reputazione di cui gode presso i suoi clienti. Realizzato negli anni immediatamente successivi alla crisi del ’29, il film utilizza con sapienza il repertorio visivo proprio di un film sull’argomento: lo spazio della banca, gli sportelli, la cassaforte, le banconote. Oggi, a più di ottant’anni di distanza, i film che trattano temi analoghi devono fare i conti, oltre che con l’improbabilità di un banchiere che si prende a cuore la sorte dei risparmiatori, con la totale immaterialità dei flussi economici che regolano il denaro, le destinazioni della nuova ricchezza e i destini della nuova povertà. Il problema, come bene ha spiegato Fredric Jameson già negli anni Ottanta, sta innanzitutto nella rappresentabilità del tema: «Sappiamo di essere impigliati dentro queste reti globali maggiormente complesse, in quanto ovunque, nella nostra quotidianità, subiamo chiaramente i prolungamenti dello spazio collettivo. E tuttavia non abbiamo modo di pensarli, o di modellarli, magari anche in astratto, con gli occhi della nostra mente».

La questione che affiora alla superficie di La grande scommessa riguarda appunto la rappresentazione: il cinema può ben raccontare le nuove crisi economiche, ma è obiettivamente in difficoltà quando si tratta di rappresentarle, posto che i saliscendi dell’economia agiscono come killer silenziosi – invisibili, immateriali, impalpabili – i grafici sui monitor dei computer non hanno impatto drammatico né visivo, e i risparmiatori che ci rimettono le penne non hanno più nemmeno un luogo fisico da prendere d’assalto. In un recente film di argomento analogo, The Wolf of Wall Street, Scorsese aggirava l’ostacolo scegliendo la strada di una gioiosa, travolgente immoralità, dilungandosi sugli eccessi di chi cavalcava la bolla finanziaria, senza addentrarsi nella giungla terminologica e concettuale dell’economia di mercato. Più sensibile al lato cronachistico della vicenda, il regista di La grande scommessa invece incontra subito l’ostacolo di un argomento decisamente più narrabile che rappresentabile, al punto che il titolo italiano sembra fare riferimento, più che ai contenuti, al rompicapo estetico cui è chiamato a dare una risposta. Come nella Lettera rubata di Poe, la soluzione sta davanti ai nostri occhi; nella fattispecie in tre scene (le uniche davvero memorabili) dove, nei momenti in cui il linguaggio dell’economia si fa quasi indecifrabile, il film convoca tre star mediatiche (un’attrice, una cantante e un cuoco di grande fama) della nostra epoca, le quali – interpretando se stesse e rimanendo del tutto fuori dal contesto narrativo – illuminano lo spettatore sul significato di certi termini, prima di risparire nuovamente dal racconto. Scene brechtiane allo stato puro, sul piano degli effetti e della poetica, poiché è lì, in questi tre siparietti sorprendenti e stranianti, che troviamo racchiusa la strategia del film. Il quale appunto trascende l’economia e i suoi trabocchetti estetici in virtù dello star system, riconducendo le tragedie della finanza truffaldina al gioco degli attori di fama (per il pubblico di bocca buona) e delle interpretazioni di talento (per quello dal palato fino). Gli inganni dell’economia più spregiudicata trovano così in quelli della recitazione un alleato inatteso: contraffazione per contraffazione, in questo gioco di corrispondenze La grande scommessa occulta la propria natura di film catastrofico imploso, mancato, poiché la catastrofe è silenziosa, invisibile e quindi priva di coefficiente spettacolare. A riempire il vuoto, la pienezza del divismo.

LLeonardo Gandini, cineforum.it, 12 gennaio 2016

 

 

 

 

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The Idol

 

di Hany Abu-Assad

 

 

Un eroe popolare. Il cantante palestinese Muhammad Assaf ha il dono di una voce straordinaria e la sorella maggiore Nour lo sprona a credere in se stesso.

Vive a Gaza e in quella miseria è difficile anche sognare. Poi arriva il momento in cui si può partecipare a Arab Idol e tentare di vincerlo diventa una ragione di vita. Passo dopo passoci si avvicina alla stretta finale...

Durata: 100’.

 

 

Giovedì 17 novembre, ore 21

Cinema Sociale - Omegna

 

 

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