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Giovedì 17 novembre 2016 – Scheda n. 6 (981)
The Idol
Titolo originale: Ya Tayr el Tayer
Regia: Hany Abu-Assad
Sceneggiatura: Hany Abu-Assad, Sameh Zoabi. Fotografia: Ehab Assal.
Montaggio: Eyas Salman. Musica: Habib Shehadeh Hanna.
Interpreti: Tawfeek Barhom, Ahmed Al Rokh, Hiba Attalah,
Kais Attalah, Abdel Kareem Barakeh, Nadine Labaki, Ahmed Qasem.
Produzione: Hans De Wolf, Amira Diab, Ali Jaafar, Hanneke Niens.
Distribuzione: Adler Entertainment.
Durata: 100’. Origine: UK, Qatar, Emirati Arabi, 2015.
Hany Abu-Hassad
Nato a Nazareth, in Palestina, nel 1961, Hany Abu-Hassad ha studiato ingegneria a Amsterdam, ha fatto l’ingegnere aeronautico in Olanda, poi ha cambiato strada, ha fondato una società di produzione cinematografica e ha prodotto il film Curfew di Rashid Masharawi. Nel 1998 ha diretto il suo primo film, The Fourteenth Chick. Nel 2000 ha realizzato il documentario Nazareth, il film Rana’s Wedding e un altro documentario, Ford Transit. Del 2006 è il film Paradise Now, visto al Cineforum e nominato all’Oscar come miglior film straniero, storia di un terrorista palestinese che deve compiere una missione suicida a Tel Aviv. Il film ha vinto il Golden Globe come miglior film straniero. Il film successivo del 2011 è The Courier. Nel 2013 ha diretto il film Omar che gli è valsa un’altra nomination agli Oscar per il miglior film straniero. Omar, presentato al Festival di Cannes, ha vinto il Premio della Giuria nella sezione Un Certain Regard.
Sentiamo il regista: «Mi sono sempre chiesto il motivo per cui volevo scrivere e dirigere il film, e ho speso due anni della mia vita lavorando duramente per completarlo. Nel caso di The Idol, la risposta è chiara e semplice. La storia di Mohammed Assaf è una storia veramente incredibile, persino per uno come me, che tre settimane prima aveva vinto il premio Un Certain Regard al Festival di Cannes. Ero più galvanizzato per la vincita di Assaf che per il mio premio. Ero completamente assorto nella telecamera, nella piazza di Nazareth, insieme a altre migliaia di persone e simultaneamente attendevamo il verdetto finale di Arab Idol; nel momento della vittoria mi sono messo a saltare e ho esultato come un bambino, penso di non aver provato quella frenesia per un bel po’ di tempo. Quando Ali Jafar mi ha proposto di dirigere la storia di Mohammed Assaf, mi è venuta la pelle d’oca e mi sono emozionato. Sapevo che avrei fatto tutto il possibile per fare di questa storia un grande film. Vedo The Idol come una sfida, una lotta e la voglia di sopravvivere anche a dure e a estreme circostanze. È una storia di speranza e successo, dove un fratello e una sorella sono capaci di trasformare i loro svantaggi in benefici, ciò che è impossibile diventa possibile, chi proviene dal nulla e supera tutte le difficoltà, sconfigge la povertà, l’oppressione e l’occupazione. Mohammed e Nour hanno l’abilità di mutare l’orrore in bellezza, ovvero hanno il potere di alimentare e nutrire la speranza...
Le riprese sono iniziate nel gennaio del 2015. Per me la chiave del film è sempre stata l’autenticità sia di fronte, sia dietro la videocamera. Girando tra i paesaggi devastati dai bombardamenti del 2014, ho trovato momenti di bellezza e mi sono sorpreso. Il mio desiderio di autenticità ha significato anche insistere nel trovare e nel far recitare nel film i bambini di Gaza. Abbiamo fatto molte ricerche e tanti provini nelle scuole di tutta la Striscia. Così, alla fine, abbiamo trovato quattro bambini, che si sono rivelati incredibili attori emergenti. Ho anche insistito per utilizzare una troupe locale palestinese: il film è stato girato nella Striscia di Gaza, a Jenin e in altre aree dei territori palestinesi, nonché in Giordania».
La critica
Vivessimo in un paese normale? In realtà non è così, proprio per l’eccezionalità di ciò che vi andiamo a raccontare: ma l'uscita nelle sale italiane di due film palestinesi nel giro di due mesi ci sembra una notizia straordinaria, che rende il nostro mercato cinematografico un po’ meno provinciale del solito. In febbraio avevamo visto con piacere Amori furti e altri guai, di Muayad Alayan; oggi segnaliamo l’arrivo di The Idol, film con una storia completamente diversa ma pur sempre proveniente da quel ‘mondo a parte’ che è la striscia di Gaza. Un mondo che irrompe nelle nostre case solo attraverso i telegiornali, ma nel quale nonostante tutto la gente vive, guarda la tv, ascolta canzoni, gioca a pallone. Certo, la morte è sempre in agguato e la rabbia è il sentimento dominante. Ma la vita continua, e in fondo è questa la vera notizia. L’uscita a distanza di poche settimane di questi due film è tanto più interessante, in quanto sia Amori furti e altri guai, sia The Idol non sono né documentari né drammatici squarci della vita in trincea, né tantomeno film di guerra imperniati sul conflitto israelo-palestinese. Ovvio che la situazione politica di Gaza sia uno sfondo irrinunciabile, ma entrambi i film giocano con i codici del cinema popolare, si sporcano le mani con il genere. Amori furti ed altri guai è una commedia nera, su un ladruncolo che ruba un’auto e scopre che nel bagagliaio c’è un soldato israeliano rapito. The Idol ha la struttura del musical, ma si rifà ai tantissimi film americani su personaggi che inseguono e ottengono il successo. L’American Dream, il sogno americano, diventa qui un ‘Arab Dream’ che parte dalla polvere di Gaza per realizzarsi tra i lustrini del Cairo. È curioso come entrambi i film, per la loro ambientazione così autentica e le facce spesso prese dalla strada, sembrino per noi italiani un ritorno alla gloriosa epoca del neorealismo. Ma poi, nel caso di “The Idol”, la modernità irrompe fragorosa, anche se non si può escludere che il regista, il 54enne Hany Abu-Assad, abbia dato in passato un’occhiata a Bellissima di Visconti. Perché quella è la storia: adolescenti che vogliono sfondare nel mondo dello spettacolo. Storia, per altro, vera: il film racconta l’avventura di Mohammed Assaf, palestinese che nel 2013 è stato il vincitore della seconda stagione di ‘Arab Idol’, un talent-show popolarissimo in tutti i paesi di lingua araba. Oggi Assaf ha 26 anni ed è una popstar internazionale, e le scene di repertorio che nel finale del film mostrano i festeggiamenti per la sua vittoria nelle strade di Gaza parlano chiaro: da noi, in Italia, accade qualcosa di simile quando la nazionale di calcio vince i Mondiali. Assaf è ambasciatore dell’Unrwa, l’associazione dell’Onu per l’assistenza ai profughi palestinesi, e gira il mondo con un passaporto diplomatico. Il film racconta la sua ascesa partendo dall’infanzia, dai primi complessini pop assieme alla sorella Nour, una bimba tosta e combattiva che - almeno per quel che vediamo sullo schermo - è stata decisiva per il successo del fratello. È ovviamente pieno di canzoni, che sono state lasciate in arabo nell’edizione italiana. Assaf è interpretato da Tawfeek Barhom, da adulto, e dal giovanissimo - e molto espressivo - Kais Attalah nella lunga parte dedicata all’infanzia. Hiba Attalah, bravissima, e la sorella Nour. Proprio perché racconta la storia di un trionfo, The Idol non può non essere un film in qualche misura convenzionale: le tappe sono obbligate, la certezza del lieto fine toglie qua e là suspence. Abu-Assad è un regista esperto e conosce i suoi polli. Vedere nei titoli di testa il cartello del Doha Film Institute fa impressione: se c’è di mezzo il Qatar, è ovvio che i mezzi sono ben diversi rispetto a una produzione esclusivamente ‘made in Gaza’. Ma ben vengano i petrodollari, se servono a raccontarci storie in cui la Palestina arriva, per una volta, dalle stalle alle stelle.
AAlberto Crespi, L'Unità, 14 aprile 2016
Una ‘success story’ dalla striscia di Gaza. Il ‘biopic’ di un famoso cantante che inizia quando il protagonista è ancora un bambino che canta con la sorella e un pugno di coetanei per strada o alle feste di matrimonio. Un mélo irresistibile, zeppo di azione e figure memorabili, liberamente ispirato alla storia vera di Muhammad Assaf. (...)
Una ‘success story’ girata nella striscia di Gaza sembra una contraddizione in termini, anche se non mancano lacrime e sangue. Eppure è proprio quello che fa Hany Abu-Assad con questo film. Che cavalcando tutti i codici del cinema-cinema getta a mare vittimismo, pauperismo e altre zavorre per elaborare un’epopea quotidiana che mette finalmente in luce l’altra faccia della vita nei territori occupati. Non (solo) oppressione, guerra, emergenza permanente, ma sogno, speranza, riscatto, energia...
Detto così può suonare semplicistico. Sullo schermo la faccenda è molto più articolata. Abu-Assad non dimentica nulla. Ma lascia parlare le immagini, le strade distrutte, le facce degli adulti, che spesso hanno ben altro a cui pensare, le macerie in mezzo a cui i piccoli protagonisti si industriano per fare qualche soldo con cui comprare strumenti musicali. O magari volteggiano in acrobazie da parkour, trasformando quella desolazione in sfida e bellezza (il parkour è una disciplina molto praticata a Gaza, dove si carica di un potente significato politico). Niente a che vedere con The Millionaire insomma, il film ‘indiano’ dell'inglese Danny Boyle, a cui spesso The Idol viene accostato. Abu-Assad conosce profondamente e dall’interno il mondo che racconta. Anzi era l’uomo ideale per l’impresa. (...) Sa costruire personaggi memorabili e catturare l’attenzione a ogni scena. Cogliendo l’ironia dove meno te l’aspetti (attraverso i tunnel per l’Egitto non passano solo le armi ma anche il garzone di McDonald’s che porta hamburger ancora caldi...). Il resto lo fa la voce di Muhammad, che abbatterebbe le mura di Gerico. E gli occhioni di Nour, la sorellina maschiaccio che intuisce per prima il suo talento, così grandi e profondi che commuoverebbero i sassi.
FFabio Ferzetti, Il Messaggero, 11 aprile 2016
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