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Giovedì 15 dicembre 2016 – Scheda n. 9 (984)
Fiore
Regia: Claudio Giovannesi
Sceneggiatura: Claudio Giovannesi, Filippo Gravino, Antonella Lattanzi.
Fotografia: Daniele Ciprì. Musica: Claudio Giovannesi, Andrea Moscianese.
Montaggio: Giuseppe Trepiccione.
Interpreti: Daphne Scoccia (Daphne Bonori), Josciua Algeri (Josh),
Laura Vasiliu (Stefania), Aniello Arena (padre di Gessica),
Gessica Giulianelli (Gessica Di Nardo), Klea Marku (Irene Mancini),
Francesca Riso (Brenda Russo), Valerio Mastandrea (Ascanio Bonori).
Produzione: Pupkin Production. Distribuzione: Bim.
Durata: 110’. Origine: Italia, 2016.
Claudio Giovannesi
Nato a Roma nel 1978, Claudio Giovannesi ha diretto, nel 2009, sia il primo film, La casa sulle nuvole, premiato a Bruxelles, sia il primo doc, Fratelli d’Italia, premiato alla Festa di Roma. Del 2012 è Alì ha gli occhi azzurri, premiato a Roma e ad Angers e presentato a New York al Tribeca Film Festival. Ha poi diretto il doc Wolf e partecipato al film collettivo 9 x 10 Novanta, presentato a Venezia. Nel 2015 ha diretto gli episodi 7 e 8 della serie Gomorra 2. Questo Fiore è stato presentato al festival di Cannes.
Sentiamo Giovannesi: «Sono attratto dai mondi marginali. Quello che davvero mi interessava era mostrare il carcere come luogo che oltre alla libertà finisce per privare una persona di molte altre cose. Ho scoperto che al carcere di minorile di Roma, a Casal del Marmo, c’erano due palazzine, una per i detenuti maschi, l’altra per le femmine. Hanno il divieto assoluto di incontrarsi e non possono avere scambi di nessun tipo. Allora ho fatto un seminario di quattro mesi nel carcere minorile. Io e gli sceneggiatori abbiamo prestato servizio come insegnanti volontari. Molto di quello che c’è nel film, circostanze e dialoghi, viene da quell’esperienza. Anche le tante assurde proibizioni a cui questi giovanissimi sono sottoposti, come quella che nega alle ragazze di poter usare il rossetto. Il carcere non serve a niente se non a tenerli segregati: sbarre, celle di isolamento, si fanno tentativi di recupero con i laboratori ma è più che altro uno spreco di soldi pubblici...
Per trovare i due protagonisti abbiamo fatto un lungo lavoro. Josh lo abbiamo trovato impegnato in alcune rappresentazioni teatrali nel carcere Beccaria di Milano: il provino glielo abbiamo fatto all’ospedale, un’ora dopo la nascita di sua figlia. Daphne l’abbiamo scoperta in una trattoria di Roma, a Monteverde, dove serviva ai tavoli. Ci ha colpito il suo bellissimo viso...
Poi abbiamo dovuto cercare in tutta Italia un carcere adatto che abbiamo trovato a L’Aquila: è un edificio danneggiato dal terremoto, ristrutturato e mai più riconsegnato. C’erano anche i poliziotti: abbiamo solo dovuto portare i criminali e la troupe. Il carcere minorile è uguale a quello vero, con celle d’isolamento e tutto il resto, l’unica differenza è che le guardie non sono in divisa. Una cosa che mi ha colpito frequentando queste realtà è che l’innocenza a un adolescente non la togli anche se di fronte alla legge è colpevole».
La critica
Fiore è sopra ogni cosa una dichiarazione d’amore davanti alla cui trasparente sincerità lo spettatore non sa (non può e non vuole) resistere. L’amore del regista per la sua protagonista, Daphne, ragazzina rinchiusa in un carcere minorile per rapina, e contemporaneamente l’amore (che esonda da ogni inquadratura) dello stesso Giovannesi per la straordinaria attrice che la interpreta, Daphne Scoccia. Ed è una dichiarazione d’amore che dura il tempo del film, dalla prima scena all’ultima: un abbraccio prolungato, una carezza di quelle che a Daphne non sono concesse da sveglia e che sogna di ricevere di notte. Fin dalla prima sequenza, che mostra la ragazza puntare un coltello alla gola di una sua coetanea per rubarle il cellulare, è già chiaro come Giovannesi pedinerà la sua protagonista affidandosi al suo sguardo (e affidando a lei il proprio). Perché l’autore sa che quello della giovanissima attrice – carisma di un’Asia Argento a inizio carriera e una bellezza dalle parti di Irène Jacob e Kristen Stewart – è uno sguardo in grado di sostenere l’ampio ventaglio di emozioni che lui intende veicolare: rabbia, orgoglio, amore, disillusione, speranza. Che poi sono tutti i sentimenti attraverso i quali passa Daphne nel corso del film: la rabbia di chi è relegata ai margini della società, senza una madre (di cui non sapremo mai nulla) e con un padre appena uscito di galera (un Mastandrea a cui bastano venti minuti in scena per riconfermarsi come il migliore attore italiano della sua generazione) e che, in una scena curiosamente speculare a quella tra Marco Messeri e Micaela Ramazzotti ne La pazza gioia di Virzì, rifiuta la responsabilità di prenderla con sé in affidamento; l’orgoglio di chi lotta per preservare la propria dignità nonostante tutto e tutti; l’amore per un detenuto suo coetaneo, Josh, che sembra schiuderle un futuro su cui non pensava di poter contare; la disillusione che segue la notizia del trasferimento di Josh in un altro istituto di pena; la speranza, infine, di una (impossibile) fuga finale. Una tempesta emotiva che il regista trasferisce sul volto della sua attrice in una scena bellissima e arrischiata (e che Giovannesi ha la bravura di troncare bruscamente), durante la quale Daphne ascolta in cuffia Sally di Vasco Rossi sul lettore MP3 regalatole dal padre. Assodata questa rara simbiosi tra regista e protagonista/interprete, non stupisce che il film sia perfettamente a fuoco quando lo sguardo di Giovannesi può coincidere e sovrapporsi a quello di Daphne (come avviene nei primi due terzi del film, quelli ambientati nello spazio concentrazionario del carcere), mentre sembra sfocarsi e perdere lucidità quando si allarga, aprendosi all’esterno, al mondo ‘fuori’. Non è un caso, allora, che nell’ultima parte le sequenze si facciano improvvisamente più veloci e concitate, che gli eventi si moltiplichino e si affastellino, come se si volesse ancora dire troppe cose nel poco tempo rimasto a disposizione per raccontarle (perché non concedersi un’altra mezz’ora?) o, meglio, per narrarle con l’esattezza (di toni e, appunto, di tempi) mostrata nell’ora e mezza precedente. Resta comunque un gran film, Fiore, come resta il miracolo di un’attrice debuttante di impressionante presenza scenica, che lascia l’impressione di avere occhi troppi grandi e pieni di dolore per il suo corpo da bambina.
AAndrea Pirruccio, cineforum.it, 20 maggio 2016
A Claudio Giovannesi piace raccontare quello che, dopo anni di lavoro, conosce bene: gli adolescenti di borgata, quella gioventù vitale e spigolosa che, spesso, sfoga la sua irrequietezza nell’illegalità. Questo non vuol dire però che il regista racconti sempre la stessa cosa: bastano pochi minuti di Fiore per capire che si tratta di un film che con Alì ha gli occhi azzurri ha numerosi punti di contatto, nello stile e nei temi, ma che costruisce un disegno complessivo del tutto differente. In quei primi minuti, la differenza più evidente sta in una fotografia che non è più quella scura, plumbea e sgranata del film del 2012, ma che è solare e nitida: anche troppo, forse, perlomeno fino a quando non capisci perché. E il perché lo capisci quando la storia di una minorenne sbandata che ruba i cellulari alle coetanee nella metro di Roma, e che finisce in carcere dopo essere stata beccata dalle guardie, si trasforma nella storia d’amore tra lei e un ragazzo del braccio maschile. Quando Giovannesi chiarisce bene che, diluito e mescolato indissolubilmente col racconto realistico della gioventù criminale e della vita in detenzione, Fiore è in realtà un melodramma che non ha i toni enfatici di Douglas Sirk ma la dinamica e nervosa freschezza degli amori della Nouvelle Vague: quella degli amanti che scappano e corrono e ridono, verso dove non si sa e non importa. La fuga (anelata, sognata, temuta, fuga da sé prima che dagli altri) è l’unico sfogo possibile per Dafne, e per un film che lavora costantemente, e con grande intelligenza sull’inesploso, su una moderazione e modellazione dei toni che non è repressione, ma solo la voglia di non far sbollire il suo materiale e i suoi personaggi solo per il gusto di vedere l’effetto che fa.
La tensione è tanta, in Fiore, fin dal primo minuto. Una tensione che è narrativa, che è psicologica, emotiva. Poi anche sentimentale e perfino sessuale. Dafne lotta con la propria insopprimibile voglia di ribellione, coi suoi sentimenti, con le compagne di galera e con le assistenti carcerarie. E certo, a volte esplode, ma non trascende mai: perché non sarebbe vero, non sarebbe utile né a lei né al racconto. Per contro, non si addolcisce nemmeno troppo quando si trova di fronte a un padre un po’ così, che ha finito di scontare una pena anche lui, che le vuole bene e che ci prova a fare il suo dovere anche se non sa bene da che parte si cominci: un padre commovente che ha lo sguardo malinconico e la calma dolente e sorniona di Valerio Mastandrea, col quale Dafne è protagonista di scambi ora affettuosi, ora ruvidi, ma senza mai esagerare. L’intensità raggiunta da Giovannesi con la pratica costante di questa misura è alta, e più Fiore e la sua protagonista (una sorprendente e bravissima esordiente, Daphne Soccia) stanno dentro le righe, magari al limite, ma senza mai esondare, più l’emozione per noi che guardiamo e seguiamo le loro storie è profonda. Allo stesso modo, l’energia di Dafne è tanto più trascinante quanto più è costretta e imbrigliata dalla sua stessa irrequietudine e dalle mura e le sbarre del carcere, o dagli obblighi familiari che la tentano e la opprimono al tempo stesso; e la tensione erotica tra lei e il suo Josh è più potente quando la carnalità non viene espressa né evocata, che quando al legame affettivo tra i due si mescola l’esplicita attrazione sessuale. In qualche modo, allora, più ancora che nei suoi lavori precedenti, Fiore è il film dove Claudio Giovannesi riesce a domare l’indomabile, lasciando che poi la corsa folle verso un futuro che non c’è risulti dolce e amara al tempo stesso, proprio perché così tanto attesa e rimandata.
FFederico Gironi, comingsoon,17 maggio 2016
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