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CINEMA SOCIALE – S.O.M.S. Società Operaia di Mutuo Soccorso Omegna
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Mercoledì 18 gennaio 2017 – Scheda n. 12 (987)
Il club
Regia: Pablo Larraín
Sceneggiatura: Guillermo Calderòn, Daniel Villalobos, Pablo Larraín.
Fotografia: Sergio Armstrong. Musica: Carlos Cabezas.
Montaggio: Sebastiàn Sepùlveda.
Interpreti: Alfredo Castro (Padre Vidal), Roberto Farías (Sandokán),
Antonia Zegers (Madre Mónica), Jaime Vadell (Padre Silva),
Alejandro Sieveking (Padre Ramírez), Marcelo Alonso (Padre García),
José Soza (Padre Lazcano), Francisco Reyes (Padre Alonso),
Alejandro Goic (Padre Ortega).
Produzione: Fabula. Distribuzione: Bolero Film.
Durata: 97’. Origine: Cile, 2015.
Pablo Larraín
Nato a Santiago del Cile nel 1976, Pablo Larraín è una delle figure registiche di maggior spicco nel panorama mondiale del cinema contemporaneo. Finora non ha sbagliato un film: e li gira uno dietro l’altro. Nel maggio 2015, al festival di Cannes, c’era il suo magnifico Neruda. In settembre, alla Mostra di Venezia, è stato presentato il suo bellissimo Jackie. Larraín ha studiato comunicazione audiovisiva all’università UNIACC, ha fondato “Fabula”, una compagnia di produzione cinematografica, televisiva e pubblicitaria. Nel 2005 ha diretto il suo primo film, Fuga. È il suo secondo film che lo impone all’attenzione di critici e pubblico: Tony Manero, presentato a Cannes 2008, alla Quinzaine des Realisateurs, si rivela essere un film potente e fuori dagli schemi. Tony Manero, che come gli altri film di Larraín è ambientato negli anni della sanguinaria dittatura di Pinochet, vince il Torino Film Festival, viene candidato all’Oscar (e presentato qui al Cineforum). Post Mortem è il suo terzo film (2010), passato anch’esso al Cineforum. Del 2012 è No - I giorni dell’arcobaleno, visto sempre al Cineforum, sulle elezioni con le quali finì la dittatura cilena. Dopo Il club, come abbiamo detto, Larraín ha già terminato altri due film, Neruda, dedicato al grande poeta cileno, e Jackie, su Jacqueline Kennedy nei giorni della morte del marito John, ucciso a Dallas.
Sentiamo Larraín su Il club: «Sono sempre stato tormentato dal destino di quei sacerdoti che vengono rimossi dai loro incarichi dalla chiesa stessa, in circostanze completamente sconosciute e allontanati dall’opinione pubblica. Sono cresciuto in scuole cattoliche e ho incontrato diversi preti rispettabili che hanno lavorato e vissuto sulla base di ciò che definiscono “il cammino di santità”, sacerdoti che osservano la parola di Dio e si comportano proprio come guide spirituali. Ho anche incontrato sacerdoti che oggi sono in carcere, o sottoposti a giudizio per diversi tipi di reati. Infine sacerdoti che nessuno sa dove siano finiti, in qualche modo scomparsi. Questi sacerdoti che si sono persi non rientrano più nella sfera di controllo della chiesa. Sacerdoti che sono stati condotti in case di ritiro in totale silenzio. Dove sono quei sacerdoti? Come vivono? Chi sono? Cosa fanno? Questo film parla di quei sacerdoti esiliati: questo film è il club dei sacerdoti dispersi...
I materiali ottenuti attraverso le varie ricerche sono stati raccolti con metodi inusuali, dato che internet o qualsiasi altro metodo classico erano inutili. Così abbiamo dovuto intervistare ex membri del clero che ci hanno dato indizi su queste case di riposo per sacerdoti con “problemi”, e abbiamo analizzato attentamente le ragioni per cui un sacerdote viene inviato a condurre una vita di ritiro e di penitenza. Abbiamo anche scoperto che esiste una congregazione internazionale negli Stati Uniti, chiamata “I Servi del Paraclito”, che negli ultimi 60 anni si è dedicata esclusivamente a prendersi cura dei sacerdoti che non possono più esercitare dato che la maggior parte di questi preti ha commesso dei crimini...
Ho avuto il privilegio di poter contare su un gruppo di attori straordinari. La sceneggiatura è stata concepita avendo in mente questi attori, ciò che ci ha permesso di creare personaggi molto precisi, con una certa pericolosità, e straordinariamente misteriosi...
La musica è importante nel film. Sono un fanatico ossessivo di musica classica fin dalla mia prima infanzia, specialmente di musica composta nel corso del XX secolo, e quando ho visto le immagini che prendevano forma, ho sentito che avevo la grande opportunità di includere dei compositori che sono stati i veri artisti responsabili di ciò che viene definito “musiche per film” oggi, senza aver mai lavorato con il pensiero di creare una cosa del genere. Per questo, quando abbiamo aggiunto le musiche, ho usato melodie di grande forza espressiva che fanno esplodere strane emozioni e spingono le immagini in luoghi sconosciuti. Allo stesso tempo, ho anche avuto la possibilità di collaborare con Carlos Cabezas, uno straordinario musicista cileno, con cui avevo già collaborato nella colonna sonora di No - I giorni dell’Arcobaleno e che ha creato alcuni brani originali per il film».
La critica
Se il cinema di Pablo Larraín ha un problema è forse quello di essere troppo a tesi. Ma se il cinema di Pablo Larraín ha un pregio è sicuramente quello di scandagliarle a fondo, le sue tesi, e di approfondirle, sviscerarle, farle implodere fino a un punto di rottura insostenibile. Il club resta sulla linea dei film più tragici e spietati del regista cileno, più verso Tony Manero che Post Mortem forse, per la vena sarcastica e grottesca che lo attraversa in maniera destabilizzante.
Nel film c’è una casa in una grigia località marittima del Cile, e dentro quella casa quattro signori di una certa età, più una signora un poco più giovane. Vivono insieme, come in comunità, sono preti che non possono più officiare e una suora sospesa pure lei dal servizio. Tutti hanno commesso un grave peccato, che in realtà per la legge degli uomini è un crimine, ma la Chiesa li ha costretti al ritiro in una morbida prigionia per proteggere loro dalla giustizia e se stessa dallo scandalo. Sono accusati di pedofilia, soprattutto, ma anche di sequestro di minori e di copertura dei crimini dell’esercito durante la dittatura: ciascuno ha ovviamente le proprie motivazioni, la propria difesa e le proprie ragioni; ma nella rassegnazione con cui accettano la reclusione, ammettono chiara ed evidente la loro colpa. Poi, un giorno, qualcuno di nuovo arriva nella casa, e qualcosa di tragico succede. E per mettere a posto il pasticcio, un altro ospite viene mandato dalla curia, una figura di potere e un persuasore; un altro prete, ma più giovane, più bello e più seducente degli altri, con il compito di far chiudere la comunità. A questo punto la scena è completa, i fattori in campo esposti: il gioco al massacro può cominciare, sottile e devastante. Come sempre, però, niente è gratuito o sadico.
Il club potrebbe tranquillamente essere un horror, per molti versi lo è, ma Larraín non forza mai la mano, tiene il racconto su un costante, assillante livello di tensione, di quiete malata. I campi fissi sono quasi sempre in controluce, l’atmosfera livida e invernale della costa pacifica blocca la luce in una penombra fastidiosa, la macchina da presa si muove lenta, in avanti, indietro, riprende una situazione da destra, poi da sinistra, poi in primo piano, il montaggio toglie ogni senso di direzione e di ordine. Il mondo di Il club, in una terra isolata, esiliata, lontana da tutto, dove gli uomini e le donne vivono in uno stato di penitenza, è un puzzle che si tiene in equilibrio per il sostanziale annullamento delle forze contrastanti al suo interno. E nel club di Larraín c’è davvero di tutto: ci sono i preti pedofili e ci sono i ladri di bambini tolti ai genitori naturali e affidati a famiglie sterili e benestanti; c’è la Chiesa che indaga sui suoi figli ma non su se stessa e c’è il legame di silenzio fra l’esercito e le gerarchie cattoliche durante la dittatura; c’è la violenza sessuale e c’è l’amore omosessuale condannato, represso e tradito. Soprattutto, c’è la tragica realtà di un sistema di potere e di controllo - quello della Chiesa e più in generale della religione cattolica - condannato a vivere delle proprie virtù contraddittorie, a cominciare dalla croce come strumento di morte e di salvezza, per arrivare alla confusione fra sacrificio e tolleranza, al richiamo del peccato - il bisogno, anzi, del peccato - e alla conseguente ricerca di una redenzione, all’umana necessità di sentirsi liberi, di amare, di vivere felicemente il sesso e per contro al cappio di una scelta che obbliga all’astinenza e alla repressione. Larraín non giudica nulla, non si diverte e non distrugge. È solo lucido, un po’ tragico e un po’ feroce. Costruisce un po’ alla volta una trama così fitta e insieme elementare, convergenza di tutte le ragioni personali e private dei tanti personaggi in scena - almeno otto - da trasformare ancora una volta, dopo il set televisivo di Tony Manero e l’ospedale o il garage-prigione di Post mortem, la scena stessa, in questo caso la casa-comunità dei preti pedofili e ladri, nell’immagine distorta, espansa e al tempo stesso compressa, di un mondo di violenza e potere, dove tutti sono mostri e tutti sono vittime di un gioco più grande. «Solo Lui sa», dice a un certo punto la suora del club, «solo Lui conosce la verità», e quel Lui è ovviamente Dio: ma quel Dio in fondo è solo una parola, un pensiero, una preghiera. E nel modo in cui Larraín filma la moglie Antonia Zegers, attraverso gli occhi di uno dei preti condannati a espiare le loro colpe senza mai sfogarle (interpretato dal magnifico Alfredo Castro), e cioè dal basso verso l’alto, come una santa possente e minacciosa, spezzando per una volta la necessaria frontalità dei suoi primi piani, indica in modo chiaro che tocca agli uomini e alle donne di questo mondo dare un corpo e un’interpretazione a quel Dio, a quella parola. E nel club di Larraín, che ovviamente è il Cile, un Paese infognato in un sistema di potere, di fede, di piacere e repressione ancora più sconvolgente del solito perché oltre il tallone di ferro della dittatura, gli uomini e le donne conducono il gioco massacrandosi a vicenda, provando ogni volta a salvarsi e condannarsi a vicenda, sulla base di regole che sono umane, ma in realtà giustificate dal divino, quando proprio Dio e la dolce speranza della fede sembrano le uniche cose a mancare su una scena tragica, ingombra di parole, pensieri, invocazioni, richieste, ragioni, colpe, sacrifici, azioni...
RRoberto Manassero, cineforum.it, 26 febbraio 2016
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